Un elenco di buoni, ma molto vaghi propositi nel secondo piano nazionale contro povertà e emarginazione sociale. Il documento tocca molti temi, dalla scuola al mercato del lavoro al sostegno alla natalità, senza mai accennare a risorse da impiegare né a misure concrete o prendere impegni precisi. Affidandosi spesso al sempiterno leitmotiv della famiglia. E alla genericità si aggiungono due svarioni che mostrano la sostanziale ignoranza dei fenomeni che si vorrebbero combattere.

È ormai consolidato il rituale dei piani nazionali iniziato con il vertice europeo di Lussemburgo, dapprima solo nel campo delle politiche del lavoro e dal 2001 anche in quello delle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale. I piani per l’occupazione sono meccanismi ben oliati e quelli contro la povertà e l’esclusione sociale sono giunti al secondo round. Ci sono quindi elementi per valutarne l’utilità, a livello nazionale e di policy making europeo.

Pregi e difetti del meccanismo

Il meccanismo dei piani, con il suo corredo di definizione di un quadro di riferimento comune, di indicatori condivisi, di meccanismi di peer review e soprattutto con la procedura del coordinamento aperto a tutti i livelli (tra Ue e singoli Paesi, tra centro e periferia, tra ministeri, tra pubblico, terzo settore e privato), mostra tutti i pregi, ma anche i difetti, di un procedimento teso a incentivare i singoli Paesi a definire i propri obiettivi e a individuare gli strumenti per realizzarli e per valutarne l’efficacia.

A livello europeo, questo procedimento costituisce a un buono strumento per arrivare a una definizione consensuale di obiettivi comuni in campi che non solo sono istituzionalmente lasciati alla responsabilità nazionale, ma che non possono essere oggetto di regolamentazioni e politiche top down, proprio per la estrema diversificazione dei contesti e dei punti di partenza.
In teoria, è un buono strumento anche per i singoli Paesi, sollecitati a definire in procedure negoziali con tutti gli attori sociali rilevanti e in modo chiaro, obiettivi, strumenti, criteri di valutazione.
Tuttavia, nonostante lo sforzo fatto dalla Commissione europea sugli indicatori, scarsa chiarezza concettuale dei fenomeni che dovrebbero misurare (si pensi ai concetti di inclusione e coesione sociale, ma anche a quello solo apparentemente più chiaro di “attività” o “occupazione”, specie in regimi lavorativi sempre più flessibili ) e assenza di sanzioni, lasciano aperta la strada alla genericità più o meno fumosa. Appena corretta dall’uso del vocabolario appropriato e dall’adempimento delle procedure formali richieste (tavoli di consultazione, ecc.).
Il rischio è più evidente nei piani contro la povertà e l’esclusione sociale per l’ampiezza e varietà dei temi e settori potenzialmente coinvolgibili, ma anche la maggiore debolezza istituzionale e politica, oltre che frammentazione, degli attori coinvolti come partner nei tavoli negoziali. Tanto più nei Paesi come l’Italia che non hanno una tradizione consolidata di politiche e di dibattito pubblico in questo campo.

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Un pout porri di troppi temi

Il secondo piano nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale (2003-2005), presentato alle parti sociali nelle scorse settimane e ripreso dal sottosegretario Grazia Sestini nel suo intervento al meeting di Cl, ne è un buon esempio.
Come e più del primo (giugno 2001), è un pout pourri in cui si toccano un po’ tutti i temi, dalla scuola al mercato del lavoro, al tasso di fecondità, alla non autosufficienza. Ma le misure concrete che ci si propone di attuare rimangono nel vago, per lo più puri elenchi di buoni propositi, più o meno “a fuoco” rispetto al tema della esclusione sociale e della povertà.

Dell’istituzione di un reddito minimo si parla solo per dire che la sperimentazione (nel piano precedente proposta come buona pratica) è fallita: si sta pensando a un nuovo strumento, lasciato molto nel vago per caratteristiche, destinatari, tempi di attuazione e impegni di spesa. Di più, tra le azioni di contrasto, viene indicato il sostegno alla natalità e non già al costo, permanente e non una tantum, dei figli che già ci sono, nonostante sia noto che l’incidenza della povertà tra le famiglie con due o più figli sia di molto superiore alla media. Analogamente, si presenta il progetto di riforma della scuola, ignorandone i rischi da più parte denunciati sull’acuirsi delle disuguaglianze e sul peggioramento della situazione per i più svantaggiati ( come hanno ricordano gli articoli di Checchi e di Brunello e Checchi su lavoce.info). Mentre il contrasto alla dispersione scolastica sembra tutto lasciato al volontariato e alla auto-organizzazione solidale delle famiglie.

Un leitmotiv per altro ricorrente in un documento che evita accuratamente di parlare di risorse e di prendere impegni precisi, come era già avvenuto nel Libro bianco sul welfare. Salvo accorgersi, come è successo in questa estate di grande caldo, quando vi è stato un aumento nella mortalità degli anziani, che la famiglia non sempre c’è, o ce la fa, e che il volontariato da solo non può sopperire alle carenze dei servizi.Vengono anche richiamate le politiche di conciliazione per sostenere la partecipazione al lavoro delle donne con carichi familiari. Ma si ignora come molte di queste politiche, in particolare la legge 53/2000 sui congedi, siano fuori dalla portata di molte donne e uomini, soprattutto giovani, in un mercato in cui i contratti di lavoro dipendente e a tempo indeterminato sono sempre più rari.

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Due veri e propri svarioni

Nella genericità di questo documento, balzano agli occhi almeno due veri e propri svarioni.

Viene indicato come un dato positivo un calo della povertà relativa dal 2001 al 2002, tutto dovuto invece a un generale abbassamento dei consumi, quindi al peggioramento delle condizioni di vita medie.

E le politiche attive del lavoro vengono definite politiche del welfare to work. Non è chiaro se gli estensori del documento ritengano che tutti i potenziali lavoratori siano dei potenziali assistiti, da sollecitare a lavorare per non cadere in assistenza; o invece che le politiche del lavoro siano politiche assistenziali.

In ogni caso, un bel lapsus, che la dice lunga sulla ignoranza del fenomeno della povertà e della esclusione sociale da parte di un ministero, quello delle Politiche del lavoro e sociali, che non la comprende più neppure tra i temi rilevanti del dicastero: la povertà come ambito di politiche è infatti sparita da diversi mesi dal sito del ministero. E anche la Commissione di indagine sulla esclusione sociale sembra entrata in clandestinità da che è stata ri-nominata un anno e mezzo fa.

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