I dati sui prezzi in Italia resi noti in questi giorni hanno riacceso le polemiche sulla misurazione dell’inflazione. Riproponiamo per i nostri lettori un intervento di Luigi Guiso che cerca di spiegare le ragioni del divario fra inflazione rilevata e percepita e un commento del presidente dellIstat, Luigi Biggeri.
Gentilissimo Prof. Guiso, innanzitutto desidero espimerle i miei complimenti per la chiarezza e precisione delle sue note sul problema dell’inflazione e della sua misurazione tramite gli indici dei prezzi al consumo, che certamente hanno consentito ai lettori di Lavoce di capire molte cose sull’argomento. Debbo però fare una precisazione, poiché dalla sua seguente osservazione contenuta nella nota attuale “La seconda spiegazione errata è che sia colpa degli arrotondamenti, secondo quanto sostenuto dal presidente dell’Istat, Luigi Biggeri”, potrebbe sembrare che io conosca poco i problemi sottostanti la misura dell’inflazione e, in particolare, dell’inflazione percepita. A parte il fatto che sui problemi della costruzione degli indici dei prezzi al consumo e sulla misura dell’inflazione sono stato invitato a presentare relazioni aai convegni del BLS e dello IAOS e al prossimo seminario che si terrà a Ginevra, organizzato dall’ ECE e dall’ILO, credo di avere sempre spiegato bene le caratteristiche dell’inflazione percepita e così ha fatto l’Istat (basta vedere le specifiche audizioni sull’andamento dei prezzi presso la Commissione attività produttive, il Rapporto annuale 2002 e quanto è scritto nelle domande e risposte contenute nel sito web dell’Istituto). In realtà. come è facile verificare, in occasione della mia ultima audizione sulla finanziaria (alla quale credo lei si riferisca nella sua nota) non c’è alcun riferimento al tema dell’inflazione percepita nell’intervento generale e neppure nel dossier sull’andamento dei prezzi. Ho invece portato l’esempio da lei richiamato, non per illustare le cause dell’inflazione percepita, ma per rispondere, nei pochissimi secondi concessimi, ad una specifica domanda riguardante cosa era successo nel 2002 in relazione agli arrotondamenti dovuti all’introduzione dell’euro (basta vedere il testo stenografico dell’audizione per capire il contesto della mia risposta). Alcuni giornalisti hanno poi estratto quella risposta dal contesto e l’hanno “venduta” come se fosse stata la mia risposta sulla misura dell’inflazione percepita. Mi dispiace che anche lei, che certamente è molto preparato sull’argomento si sia fidato di quanto riportato dai mass-media, anzichè andare a vedere i documenti che testimoniano le cose da me realmente scritte e dette
Ringrazio il Professor Biggeri per la sua lettera e le sue precisazioni. Come egli probabilmente sa io sono tra coloro che ritengono che in materia di prezzi non vi è alternativa alle statistiche ufficiali, ovvero quelle prodotte dall’Istat. Queste possono essere criticate se si hanno fondati motivi per ritenere che contengano errori nel metodo e nella capacità di rappresentare i fatti, ma la discussione deve avvenire su un piano serio e informato. Luigi Guiso
Sullo specifico la rilevanza degli arrotondamenti nello spiegare l’inflazione oggi percepita io in effetti ho ripreso quanto riportato unanimemente dalle principali testate; ho inteso questa unanimità come segno di non ambiguità di interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal Professor Biggeri. In questo ero anche confortato dal fatto che nei giorni successivi alle notizie apparse sulla stampa, e prima del mio articolo, non ci fosse stata, a meno che mi sia sfuggita, nessuna smentita da parte del presidente dell’Istat a quanto riportato sui giornali..
Ovviamente, nello scrivere che quella spiegazione era palesemente errata non intendevo assolutamente mettere in dubbio le capacità del Professor Biggeri, che so essere uno statistico capace e un fine conoscitore dei problemi sottostanti la costruzioni degli indici dei prezzi. Volevo invece fare chiarezza come ho sempre cercato di fare quando ho scritto su questo argomento in un dibattito che, pur toccando temi molto rilevanti per il benessere dei cittadini è spesso superficiale o ancor peggio, strumentale. Con questa dovuta precisazione, nei fatti io e il Professor Biggeri concordiamo: l’abitudine dei consumatori a ragionare in lire e arrotondare il rapporto di conversione a 2000 lire per un euro non ha niente a che fare con il divario fra il tasso di inflazione percepito e quello effettivo. Questo divario va spiegato in altro modo, ed il mio contributo era un tentativo di spiegazione che rispettasse il canone minimo della coerenza interna.
Colgo l’occasione per sottolineare una volta di più come non vi siano misure adeguate dell’inflazione percepita; sappiamo solo che probabilmente è in aumento a far tempo dall’introduzione dell’euro. Data la rilevanza che questo argomento va assumendo, sarebbe utile disporre di una statistica più mirata e precisa. Forse l’Istat potrebbe e farsi carico di produrla.
Luigi Guiso Un meccanismo oscuro Di queste percezioni esiste una misura, indicata nella figura per l’Italia e per l’area dell’euro. Inflazione effettiva e percepita Spiegazioni errate La prima spiegazione errata è che i consumatori abbiano una percezione “corretta” dell’inflazione mentre l’Istituto centrale di statistica sotto-stima la dinamica dei prezzi.
16 ottobre 2003
È sorprendente che si dedichi così tanta attenzione all’inflazione proprio quando ha cessato di essere un serio problema. Lo dicono i dati. Ormai da alcuni anni il tasso di inflazione dell’Italia viaggia al di sotto del 3 percento: tasso molto basso, per un paese abituato a inflazione a due cifre, per periodi prolungati, e con notevoli oscillazioni che sorprendevano, allora sì, consumatori e lavoratori.
Ciò malgrado un problema si avverte: molti consumatori hanno una percezione della dinamica dei prezzi e del loro potere d’acquisto diversa rispetto a quella misurata dalle statistiche ufficiali.
A partire dall’introduzione della moneta unica, l’inflazione percepita, misurata sulla scala di destra, mostra una tendenza a salire più rapida dell’inflazione rilevata.
Due precisazioni sono importanti. Primo, la misura di inflazione percepita è solo qualitativa: ci informa sulla tendenza delle percezioni, non sulla loro entità. I dati si riferiscono infatti allo scarto tra la proporzione degli intervistati che dicono che il livello dei prezzi è aumentato e quelli che dicono che è rimasto costante. In linea di principio, il dato potrebbe essere coerente con un livello dell’inflazione percepita non discosto o anche inferiore a quello rilevato.
Secondo, prima dell’introduzione dell’euro, l’indicatore delle percezioni era allineato con il tasso effettivo. Inizia a divaricare dopo l’adozione della nuova moneta. A oggi non esiste una spiegazione convincente del perché, dall’adozione dell’euro, inflazione percepita e misurata hanno iniziato a divaricare. Data la concomitanza temporale, si imputa il fatto all’euro, ma il meccanismo è oscuro.
(Fonte: Istat, Eurostat e Commissione europea.)
Questa spiegazione è da rifiutare per almeno due ragioni. La statistica sui prezzi è molto robusta; la procedura di rilevazione è collaudata e non lascia spazio a errori di misura rilevanti (vedi
La seconda spiegazione errata è che sia colpa degli arrotondamenti, secondo quanto sostenuto dal presidente dell’Istat, Luigi Biggeri. L’idea di Biggeri è che per arrivare al tasso di inflazione “percepito” basta aggiungere al tasso misurato (dall’Istat) l’arrotondamento del cambio a 2000 lire per un euro, che corrisponde circa il 3 per cento.
L’arrotondamento lo facciamo ogniqualvolta convertiamo euro in lire a mente, per semplificarci la vita e risparmiarci l’incomodo di portarci appresso una macchinetta calcolatrice. Quando esprimiamo in lire un prezzo in euro, un’operazione che facciamo di sovente perché ci dà una idea rapida della “congruità” del prezzo di un bene, sovra-stimiamo il prezzo di quel bene di circa il 3 per cento. Questa sovra-stima è l’approssimazione che accettiamo consciamente per non perdere troppo tempo a fare il calcolo esatto (1 euro = 1936,27 lire). Ma l’approssimazione esagera solo il livello di un prezzo quando lo esprimiamo in lire.
Che cosa ha a che fare questo con l’inflazione? Quest’ultima è il rapporto tra il livello dei prezzi oggi, p(t) e il livello dei prezzi ieri, p(t-1), in simboli: p(t)/p(t-1). Se i nostri concittadini quando calcolano il loro tasso di inflazione seguono la prassi, implicita nel ragionamento di Biggeri, di trasformare in lire i prezzi espressi in euro e poi calcolarne il tasso di variazione, sovra-stimeranno numeratore e denominatore (perlomeno per il periodo tra il 2003 e il 2002) nella stessa proporzione e il tasso di inflazione percepito non ne sarà influenzato.
Una spiegazione coerente
Una spiegazione plausibile deve indicare perché la divaricazione accade dopo l’introduzione della moneta unica. E perché interessa tutti i paesi dell’area dell’euro.
La mia spiegazione accoglie i due fatti ed è basata su quattro elementi. L’introduzione dell’euro ha comportato la ridenominazione di tutti i prezzi. Il cambio di numerario (la moneta usata per definire il valore dei beni ) richiede che i consumatori apprendano e memorizzino i prezzi espressi nella nuova moneta. Questo processo prende del tempo, talvolta parecchio, a seconda della frequenza degli acquisti dei vari beni. Nella vecchia moneta avevamo in memoria i prezzi o almeno una idea più o meno precisa del costo di centinaia di beni. Quelli nella nuova li dobbiamo rilevare e fissare in memoria, a meno di credere che tutti i prezzi in euro al momento del cambio, sarebbero stati uguali a 1936,27*(prezzo in lire).
Il processo di apprendimento dei prezzi in euro è diseguale. Vengono memorizzati prima e più facilmente i prezzi dei beni che vengono acquistati più frequentemente, come gli alimentari, il caffè, il giornale e una serie di servizi, come la ristorazione, i trasporti e così via. Inizialmente, e forse per un periodo di tempo lungo, l’indice dei prezzi in euro che i consumatori utilizzano per farsi una idea del livello generale dei prezzi e della sua dinamica è costituito da un sottoinsieme dei prezzi dei beni che compaiono nell’indice generale dei prezzi al consumo.
In Italia e in Europa, i beni che tipicamente vengono acquistati a frequenza più elevata hanno avuto, dopo l’introduzione dell’euro, una dinamica più sostenuta degli altri (si veda l’ultimo bollettino della Bce http://www.ecb.int/pub/pdf/mb200310en.pdf).
Questo da solo può spiegare perché inflazione percepita ed effettiva non sono allineate. Non è chiaro se questo meccanismo possa da solo spiegare l’entità della differenza; ma d’altra parte neppure si sa quanto sia questa differenza poiché l’indicatore dell’inflazione percepita è solo qualitativo (su questo l’Istat potrebbe condurre una indagine ad hoc).
L’effetto può essere ulteriormente rafforzato dal fatto che nella fase di apprendimento, variazioni di rilevante entità vengono memorizzate più facilmente e quindi finiscono per avere un peso eccessivo nel calcolo della dinamica dell’inflazione percepita.
Implicazioni
Capire se e, se sì, perché vi è un dis-allineamento tra inflazione percepita e inflazione misurata è importante. Molte decisioni dipendono dall’inflazione percepita, per data inflazione osservata.
Ad esempio, la decisione di un lavoratore se lavorare di più o di meno dipende dalla sua percezione del potere d’acquisto del suo salario e questa è determinata dalla percezione che egli ha del livello medio dei prezzi.
Differenze tra inflazione misurata e inflazione percepita possono perciò comportare fluttuazioni nell’offerta di lavoro e nella quantità di output prodotto.
Può forse sembrare strano ai non addetti, ma questo meccanismo è al centro della moderna teoria del ciclo economico. Un scarto tra inflazione percepita ed effettiva di 3 punti percentuali potrebbe riflettersi in un calo del prodotto interno lordo dello 0,7 percento. (1)
Parte, forse non trascurabile, del ciclo basso in Europa potrebbe essere dovuta al gap tra inflazione effettiva e percepita.
Cosa fare per contenere le percezioni errate? La miglior strategia è che coloro che hanno responsabilità di Governo credano nell’inflazione vera, quella misurata dall’Istat, anziché metterla in dubbio.
(1) Ipotizzando una elasticità dell’offerta di lavoro al salario di 0,25 e dell’output al fattore lavoro di 0,7.
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