Riproponiamo la scheda comparativa tra la Current Population Survey e le indagini sulle Forze Lavoro e i precedenti interventi nel dibattito su privacy e ricerca di Andrea Ichino, Nicola Rossi e i commenti di Mario Vavassori , Leonello Tronti e Saverio Gazzelloni.

Scheda comparativa: la situazione americana e quella italiana

 

Se la privacy non tutela la ricerca

Nel campo della ricerca scientifica permane un gap fra l’Italia e gli altri paesi industrializzati, in questo caso come in altri, riconducibile a un eccesso di regolazione.

Le regole degli altri

Per rendersene conto, basta la semplice visita del sito www.ipums.umn.edu.. Consente a ogni ricercatore, qualunque sia la sua nazionalità, di avere accesso a dati individuali dettagliati, ma assolutamente anonimi, sulla popolazione negli Stati Uniti così come rilevati dai censimenti effettuati tra il 1850 e il 1990 (il 2000 sarà disponibile tra breve). E al posto delle complesse restrizioni volte a tutelare la privacy e dei relativi complicati formulari cartacei che tipicamente caratterizzano la distribuzione dei pochissimi dati disponibili nel nostro paese, nel sito americano troviamo un semplice invito all’utente a usare le informazioni “for good, never for evil”.

In Svezia, il progetto Linda (Longitudinal Individual Data for Sweden), nato da una collaborazione tra l’Università di Uppsala, il ministero delle Finanze, l’Agenzia per le pensioni e la sicurezza sociale e Statistics Sweden (il corrispondente svedese del nostro Istat), mette a disposizione dei ricercatori dati individuali per una serie rilevante di anni estratti da un campione di dimensioni pari al 3 per cento circa della popolazione svedese e al 20 per cento circa della popolazione immigrata.
I ricercatori hanno così accesso a un insieme particolarmente ricco di informazioni che integra tra loro archivi informativi diversi e in gran parte pubblici: dichiarazioni dei redditi a fini fiscali, rilevazioni dei censimenti della popolazione e delle abitazioni, dichiarazione dei redditi pensionabili, rilevazioni dei trattamenti pensionistici, indagini sulle forze di lavoro, rilevazione dei trattamenti di disoccupazione e non occupazione, indagini sulle carriere scolastiche, sulle assenze dal lavoro per malattia e per motivi familiari, rilevazioni dei redditi da lavoro.
Le domande di accesso ai dati sono valutate in relazione alla validità scientifica delle ricerche proposte, senza limitazioni relative alla tutela della privacy che vadano oltre l’impegno a non diffondere i dati personali senza autorizzazione, a utilizzarli solo per l’attività scientifica e a comunicare i risultati ottenuti.

Perché servono i dati

La ricerca scientifica utilizza in modo crescente insiemi di dati individuali.
Sul piano analitico fenomeni come l’eterogeneità degli agenti, la molteplicità delle interrelazioni fra gli agenti stessi, la natura delle dinamiche che caratterizzano i loro comportamenti sono fra i campi di attività più rilevanti per l’odierna ricerca tanto teorica quanto applicata.
Sul fronte della policy, invece, crescente importanza assumono le politiche mirate a gruppi relativamente ristretti di soggetti. La loro valutazione richiede la comparazione di situazioni individuali affette o meno dalle misure stesse.
Se in Italia fossero disponibili, per qualità e quantità, microdati simili, il dibattito sulle riforme economiche e sociali (dalla scuola, al mercato del lavoro, all’assistenza sanitaria, alle pensioni, all’immigrazione etc.) avrebbe un contenuto assai meno ideologico. Potrebbe invece basarsi su informazioni statistiche affidabili sulla natura dei problemi e sulla dimensione degli effetti delle proposte di riforma in discussione.
Infine, ogni risultato scientifico dovrebbe essere, in linea di principio, replicabile e ciò è possibile solo se l’accesso alle basi di microdati è ragionevolmente libero.

Purtroppo tutto ciò in Italia oggi non è possibile anche perché i dati raccolti dalle amministrazioni pubbliche e archiviati presso l’Istat, così come presso altri istituti, non sono generalmente disponibili per la ricerca, nemmeno separatamente archivio per archivio.
Non sono disponibili soprattutto per le disposizioni della
Legge 31 dicembre 1996, n. 675 sulla “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”. Una legge di cui a suo tempo si disse che eccede “sul piano dello zelo e anche del buon senso”.

La logica della Legge 675

La logica della Legge 675/1996 sarà interamente recepita dal 1 gennaio 2004 dal Testo unico “Codice in materia di protezione dati” pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 123 del 29 luglio 2003.Contiene qualche timido passo in avanti, in particolare nella stesura dei Codici deontologici.
È positivo che il Testo unico circoscriva la nozione di dati personali: sono tali solo i dati che consentono l’identificazione attraverso l’utilizzo di “mezzi ragionevoli”. Ma permangono troppe bardature regolatorie che in larga misura finiscono per vanificare i deboli segnali di apertura.

In totale contrasto con la filosofia prevalente in altri paesi, la Legge n. 675/1996 è essenzialmente fondata sul presupposto, tipicamente italiano, secondo cui i ricercatori sono naturalmente portati a usare i dati individuali (anche se anonimi o resi tali) in un modo che contrasta con la tutela della riservatezza delle persone. Così i dati individuali raccolti da qualunque ente pubblico o privato sono resi preventivamente indisponibili per l’attività di ricerca a meno che il ricercatore non accetti di passare attraverso le forche caudine di un insieme di vincoli burocratici tali da rendere i dati stessi di difficilissimo accesso e spesso inutilizzabili a fini statistici. Non è raro, ad esempio, che in omaggio alla Legge 675/1996 si rendano non casuali i campioni, che diventano così inutilizzabili per indagini statistiche che ambiscano a risultati rappresentativi. Né è raro che vengano oscurate informazioni essenziali e particolarmente rilevanti per la discussione di tematiche di grande importanza: valga per tutti il riferimento alle analisi sulle disparità regionali.

Il tema della ricerca non chiede di essere affrontato solo in termini di risorse.
Altrettanto importante è che muti l’ambiente nel quale operano i nostri ricercatori per garantire una libertà di azione senza la quale la ricerca non è più tale.
Come avviene nei più avanzati paesi europei e negli Stati Uniti, è necessario consentire un accesso ampio e facile ai dati per la ricerca scientifica, anche in forma integrata tra archivi diversi, punendo però duramente un loro eventuale uso che danneggi i diritti della persona.

Il progetto di legge

A questa trasparente filosofia si ispira il progetto di legge presentato alla Camera.
Parte da una semplice considerazione. Il rispetto della privacy è un valore per il ricercatore e non solo per norma deontologica. Non ha motivo alcuno per metterla a rischio nello svolgimento della propria attività. Sa che la salvaguardia della riservatezza dei dati personali è condizione primaria per continuare a utilizzarli e per acquisirne di nuovi e quindi per operare nel proprio campo. In sintesi, è ragionevole presumere che per chi svolge attività di ricerca scientifica l’identificazione degli individui da cui originano i dati elementari oltre a essere del tutto inutile comporti, per definizione e salvo controprova ex post, mezzi irragionevoli.

L’approvazione di questo progetto di legge consentirebbe un’attività di ricerca scientifica di enorme utilità per il dibattito politico e sociale, oltre a mettere i ricercatori italiani su un piano di parità con i loro colleghi statunitensi ed europei. Costituirebbe inoltre un passo significativo, anche se piccolo, verso una riscrittura dei rapporti fra cittadini e pubblica amministrazione, fino ad ora troppo abituata a presumere che tutti i cittadini mirino a violare la legge. Salvo, poi, condonarne i reati.

Infine, tutelare il diritto di accesso dei nostri ricercatori alle informazioni statistiche riporterebbe il nostro ordinamento in linea con l’indirizzo costituzionale, che favorisce la libera circolazione delle idee e delle informazioni.


Banche dati solo sui giornali

È certo possibile che il potere d’acquisto delle retribuzioni degli italiani si sia ridotto nella misura allarmante denunciata recentemente sulle pagine del Corriere della Sera.

Non è però ammissibile che, in Italia, per conoscere l’andamento dei salari reali ci si debba basare su banche dati non rappresentative della popolazione di riferimento, raccolte a scopo di lucro senza criteri scientifici, e comunque inaccessibili a chi fa ricerca, precludendo così quelle verifiche di attendibilità e replicabilità che la comunità scientifica internazionale considera normalmente necessarie in questi casi.

Com’è costruito il Rapporto

Per quanto è possibile capire da www.corriere.it/rapporto, il quarto Rapporto sulle retribuzioni in Italia è basato su profili retributivi forniti da lavoratori italiani che si connettono con il sito <http://www.quantomipagano.com/main.htm >per controllare se la loro retribuzione è in linea con il mercato o per mettere in rete il proprio curriculum vitae.

È ragionevole ipotizzare che i lavoratori soddisfatti della loro retribuzione siano quelli meno interessati a questo servizio in rete. Oppure, che i lavoratori con maggiori responsabilità e impegni nel loro lavoro e quindi con salari maggiori, ma anche minor tempo per navigare in rete, non entrino nella banca dati. La banca dati potrebbe quindi sovra-rappresentare, rispetto alla popolazione italiana, le retribuzioni inferiori.

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Questo è solo un esempio dei problemi di rappresentatività di questa banca dati. Gli stessi curatori del Rapporto affermano che “nel 2003 i dati sono diventati ancora più rappresentativi della realtà italiana perché è diminuito il numero di quadri e dirigenti a favore dei profili impiegatizi e operai (…). Rispetto agli anni precedenti, poi, l’indagine è un po’ meno milanocentrica perché il peso relativo dei lavoratori milanesi è sceso a favore di Sud e Centro (…). Anche i lavoratori della piccola impresa hanno aumentato la loro presenza nell’indagine (…)” (Corriere Lavoro di venerdì 7 novembre, p. 13). Dunque, nonostante i miglioramenti del 2003, non vi è alcuna garanzia che la rappresentatività abbia raggiunto livelli accettabili. Ancora più preoccupante è il fatto che fosse scarsa negli anni precedenti visto che il dato che più allarma il Corriere è la diminuzione del potere d’acquisto nel tempo.

Se questa diminuzione dipendesse solo dal fatto che nel campione del 2003 ci sono più lavoratori con bassa retribuzione perché lavorano al Sud o in una piccola impresa, il “grande salasso” sarebbe solo un problema di differente composizione del campione in anni diversi.

Mancano le banche dati

Ma di questo non si può fare una colpa al Corriere, anche se forse da un giornale di quel livello ci si potrebbe attendere uno stile diverso e un controllo maggiore sulla qualità delle informazioni date ai lettori.

E nemmeno a chi gestisce <http://www.quantomipagano.com/main.htm >, un’ottima iniziativa che rende un servizio molto utile alla forza lavoro italiana. Anzi, agli estensori del rapporto va riconosciuto il merito di aver segnalato all’opinione pubblica quanto inutili siano le statistiche dell’Istat sulle retribuzioni minime contrattuali dal momento che ciò che un lavoratore porta a casa è generalmente molto diverso da quanto il contratto stabilisce.
Il vero problema è che in Italia non esiste una banca dati rappresentativa in grado di fornire informazioni attendibili sulle retribuzioni con frequenza annuale o meglio mensile.

Più in generale, chi volesse applicare alla situazione italiana metodi di ricerca riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale (e i cui risultati sono tipicamente tenuti in conto dai policy makers di altri paesi), non potrebbe farlo perché non ha accesso ai dati necessari, che non sono raccolti o non sono disponibili per la legge sulla privacy ( vedi Ichino-Rossi)
All’opinione pubblica italiana per sapere qualcosa su una variabile così importante quale il potere d’acquisto dei salari, non resta dunque altro che basarsi su reportage giornalistici invece che su ricerche effettuate con metodi e dati sottoposti al vaglio della comunità scientifica.
Sarebbe come se, in campo medico, per valutare l’efficacia di una terapia ci si basasse su un questionario riempito su base volontaria da chi entra o esce da un ospedale.
Spiace puntare ancora una volta l’indice contro l’Istat, ma in molti paesi dell’Ocse l’Indagine trimestrale sulle forze di lavoro fornisce vari indicatori relativi alle retribuzioni individuali. Perché in Italia questo non accade? E non è questo l’unico problema della nostra Indagine trimestrale come si può vedere dalla scheda che compara la situazione italiana a quella americana.

È la prima di una serie di schede che lavoce.info pubblicherà per illustrare la drammatica situazione di indisponibilità di dati per la ricerca che caratterizza il nostro paese.

La replica di Mario Vavassori

Ringrazio Andrea Ichino del suo contributo; in qualità di responsabile della Banca Dati “non rappresentativa” di ODM Consulting mi permetto di ricordare che in nessun documento (vedi 1°, 2°, 3° e 4° Rapporto sulle retribuzioni in Italia) si parla di rappresentatività, ma di elaborazione di osservazioni e classificazioni effettuate ormai su oltre un milione di profili professionali e retributivi.
Una cosa è certa: il valore medio di mercato delle professioni è in diminuzione e il potere d’acquisto degli stipendi è in caduta libera. La nostra misura del fenomeno è sicuramente parziale e incompleta; non mi pare non attendibile, fino a prova contraria.

Un ultimo commento: questo è il nostro lavoro e ci sforziamo di farlo riconoscere (a proposito di fine di lucro); mettiamo comunque a disposizione della comunità scientifica le informazioni che abbiamo raccolto, così come in generale le mettiamo a disposizione di tutti gli operatori economici e sociali.

Ricordo infine che proprio in USA servizi come i nostri sono ampiamente diffusi e realizzati sia da organizzazioni pubbliche sia da privati.

La contro-replica di Andrea Ichino

Sono io il primo ad aver riconosciuto nel mio articolo i meriti della Banca Dati ODM Consulting come servizio alle aziende e ai lavoratori. Mi sono limitato ad osservare che questa Banca Dati non offre informazioni statisticamente rappresentative e non sostituisce le banche dati per la ricerca scientifica disponibili all’estero e mancanti in Italia. Ma questa mancanza non e’ certo una colpa della ODM Consulting.
Apprendo inoltre con piacere che la ODM Consulting e’ disponibile a mettere i suoi dati a disposizione dei ricercatori. Anche se si tratta di dati non statisticamente rappresentativi, sono comunque dati che con opportune tecniche econometriche (non le semplici medie riportate dai giornali) possono essere utilizzati per rispondere a quesiti interessanti.
Sarebbe sicuramente molto utile se i dati elementari che costituiscono questa Banca Dati fossero resi accessibili ai ricercatori. Attendiamo istruzioni su come scaricarli da internet o ottenerli su altro supporto informatico.

La replica di Leonello Tronti e Saverio Gazzelloni

Un attacco fuori bersaglio

Il dibattito sull’andamento del potere d’acquisto delle retribuzioni di fatto, particolarmente vivace nel 2003 in connessione con il decennale degli Accordi di luglio (che ridisegnarono il sistema di regolazione dei salari in Italia all’alba dello sforzo di aggancio all’Uem), ha recentemente acquisito una nuova rilevanza con la pubblicazione a tutta pagina su quotidiani importanti, come il Corriere della sera e La Repubblica, dei risultati del Rapporto sui salari curato dal Corriere lavoro. Il Rapporto denuncia con dovizia di esempi una rilevante perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni e molti commentatori, forse colti impreparati dalla notizia, si sono sentiti in dovere di attaccare per l’ennesima volta l’Istituto nazionale di statistica, reo di non raccogliere né diffondere informazioni sulle retribuzioni di fatto.

L’attacco è però del tutto fuori bersaglio in quanto l’Istat, dal novembre del 2002, ha ampliato l’offerta di informazioni sull’andamento delle retribuzioni di fatto e del costo del lavoro, pubblicando gli indici trimestrali provenienti dalla nuova indagine OROS (acronimo di Occupazione, Retribuzioni, Oneri Sociali). Dall’ottobre 2003 la diffusione di tali indicatori è divenuta regolare e nel 2004 darà luogo a comunicati stampa pubblicati, sulla base di un calendario prefissato, alla fine del trimestre successivo a quello di riferimento.

Le informazioni congiunturali dell’Istat sulle retribuzioni

Occorre ricordare che l’Istat diffonde da tempo vari indicatori infrannuali riguardanti la dinamica retributiva: da un lato gli indici mensili delle retribuzioni contrattuali e quelli del costo del lavoro e delle retribuzioni di fatto relativi alle sole grandi imprese; dall’altro le statistiche su retribuzioni, oneri sociali e redditi da lavoro dipendente elaborate nel quadro della contabilità nazionale trimestrale. I nuovi indicatori OROS completano l’informazione con statistiche esaurienti e tempestive.

La nuova indagine presenta caratteristiche molto innovative. Anzitutto, utilizza un ampio campione di dati amministrativi INPS (le dichiarazioni contributive mensili DM10) come base informativa sulle piccole e medie imprese. Inoltre, le informazioni di fonte amministrativa, opportunamente trattate per rispondere ai requisiti di qualità propri della statistica ufficiale, vengono integrate con altre fonti Istat così da rappresentare in modo adeguato tutte le classi dimensionali d’impresa e tutte le attività economiche del settore privato non agricolo, dando luogo a indicatori pienamente comparabili a livello internazionale.

Il campione dell’indagine è eccezionalmente ampio (600 mila imprese ogni trimestre, con informazioni su 5 milioni di buste paga), e assicura un alto grado di rappresentatività delle stime preliminari. Inoltre, la disponibilità, in tempi più lunghi, dell’intero universo delle dichiarazioni contributive (circa 1.200.000, riferite a tutte le imprese con almeno un dipendente) consente all’Istituto di ottenere a distanza di 15 mesi dati definitivi di qualità censuaria.

Sotto il profilo della modalità di raccolta dei dati, va sottolineato che la nuova indagine non richiede alcun adempimento alle imprese. L’ampliamento dell’informazione statistica disponibile si realizza con un costo bassissimo per la collettività e, in particolare, nullo per le aziende; si tratta di un risultato reso possibile dalla piena collaborazione dell’INPS, che ha reso disponibile il proprio patrimonio informativo in accordo con i principi che presiedono allo sviluppo del Sistan, Il Sistema statistico nazionale.

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La rilevazione dell’Istat sulle Forze di lavoro

Nell’ambito della sua recente critica alle mancate “informazioni attendibili” in materia di retribuzioni, Andrea Ichino richiama sulla Voce.info l’Indagine trimestrale sulle forze di lavoro, affermando che questa non fornisce dati sulle retribuzioni individuali, contrariamente a quanto avviene in “molti paesi dell’Ocse”. A questo proposito occorre sottolineare che l’Indagine campionaria Istat, armonizzata a livello comunitario, è rivolta alle famiglie. Per la natura dell’indagine, la rilevazione delle retribuzioni è particolarmente problematica e soggetta a possibili effetti distorsivi nelle risposte. Ad eccezione della Francia, nessuno dei principali paesi dell’Ue rileva questa informazione. D’altro canto, negli Stati Uniti i dati sul mercato del lavoro provengono da due distinte indagini: la Current Population survey (CPS) e la Current Employment Statistics survey. La prima è un’indagine rivolta alle famiglie; la seconda rivolta alle imprese e alle istituzioni. Le informazioni relative alle retribuzioni individuali derivano esclusivamente dalla Current Employment Statistics survey. L’affermazione che “in molti paesi dell’Ocse l’Indagine trimestrale sulle forze lavoro fornisce vari indicatori relativi alle retribuzioni individuali” non trova dunque riscontro. Ciò detto, in accordo con Eurostat l’Istat sta conducendo una sperimentazione rivolta a individuare l’opportunità di includere quesiti sulle retribuzioni nell’Indagine sulle forze di lavoro.

Inoltre, sostiene Ichino, il problema relativo alle retribuzioni individuali non è “l’unico problema della nostra Indagine trimestrale”. A sostegno di tale affermazione viene riportata una tavola di confronto con la CPS statunitense. Questa tavola contiene alcune inesattezze riguardanti l’indagine Istat.

Tra i caratteri generali viene citata l'”impossibilità di ricostruire le strutture familiari e di seguire lo stesso individuo nel tempo per tutelare la privacy nonostante l’inchiesta sia di tipo longitudinale”. In effetti, nel rispetto della vigente normativa sulla tutela della privacy, i file con i dati individuali messi a disposizione degli utenti non contengono le informazioni necessarie a ricostruire le strutture familiari e a seguire lo stesso individuo nel tempo. Ciononostante, l’Istat rilascia i file con i dati individuali già abbinati, relativi a due diverse occasioni di indagine, diffondendo in tal modo l’informazione longitudinale. Inoltre, è allo studio un prossimo rilascio delle chiavi familiari.

Relativamente all’accesso ai dati, dal sito www.istat.it è possibile scaricare una notevole mole di dati e di documenti, dai comunicati stampa con i dati trimestrali, alle serie storiche, ai volumi di media annua.

Le risposte ai quesiti e alle richieste di dati (per lo più inoltrate via e-mail agli indirizzi dedicati infolav@istat.it e richieste.dati@istat.it) relativi all’indagine sulle forze di lavoro vengono fornite indistintamente alla generalità degli utenti e, ad oggi, tutte le domande sono state soddisfatte.

Il mancato rilascio dei dati relativi alla cittadinanza, agli anni di residenza, alla dimensione aziendale è dovuto ad un problema di affidabilità del dato e non, come erroneamente si cita nella tavola, a problemi di rispetto della privacy.

Nel file utente vengono forniti le informazioni sulla professione e sulla branca di attività lavorativa al massimo livello di dettaglio, per consentire all’utente di ricodificare i dati secondo le proprie esigenze. Tuttavia, esiste l’avvertenza di non utilizzarli a tale livello in quanto ritenuti poco affidabili da un punto di vista statistico (di nuovo, il riferimento alla privacy è totalmente errato). Il suggerimento che viene fornito insieme al file è di utilizzare tali dati a 2 digit per la professione e a 12 settori precodificati per la branca di attività economica.

Per quanto riguarda le precedenti esperienze lavorative, si sottolinea che sul file per l’utente vengono rilasciate tutte le informazioni, con il settore di attività già ricodificato a 12 modalità e la professione a 2 digit.

L’indagine di Corriere lavoro

La modalità di raccolta dell’informazione proposta dal Corriere lavoro (autocompilazione da parte del lavoratore di una scheda che riproduce la busta paga, con la possibilità di controllare se la sua retribuzione è in linea con il mercato o di inserire in rete il proprio curriculum) è ispirata al sistema informativo americano O’Net (Occupational Information Network del Department of Labor) e risulta particolarmente accattivante. Tuttavia, la banca dati che ne deriva non sembra essere in alcun modo in grado di ovviare agli inconvenienti citati da Ichino nel suo articolo, e cioè: a) non è rappresentativa della popolazione di riferimento, o almeno non è dato sapere se e quanto lo sia; b) è stata costruita con criteri commerciali e non scientifici, è inaccessibile a chi fa ricerca e non sono indicati i fondamenti metodologici dei suoi risultati; c) non è possibile sottoporre i dati pubblicati alle verifiche di attendibilità e replicabilità indispensabili per valutarne la qualità.

Come giustamente sottolinea Ichino, la grave perdita di potere d’acquisto denunciata dal Rapporto potrebbe essere, in gran parte, il risultato di un cambiamento nel tempo della composizione del campione, implicitamente ammessa dagli stessi curatori dell’indagine. Segnatamente, l’ingresso nel campione di una quota progressivamente più ampia di lavoratori a bassa retribuzione (ad esempio quelli che lavorano nel Sud o in piccole imprese) costituirebbe un’immediata spiegazione dell’apparente calo del salario medio. Detto altrimenti, e alla luce delle pur non confortanti evidenze dell’indagine OROS (una perdita media del potere d’acquisto delle retribuzioni di fatto pari allo 0,7% nel 2002 e all’1% nel primo semestre del 2003), il ‘grande salasso’ sarebbe soprattutto (anche se non esclusivamente) un'”illusione ottica, generata da un uso maldestro della statistica”.

La contro-replica di Andrea Ichino

E’ senz’altro una buona notizia che l’indagine OROS abbia iniziato a produrre risultati con regolarita’ dall’ottobre 2003, ossia … dal mese scorso. Ma il fatto che si tratti di novita’ cosi’ recente indica che il mio articolo non era poi cosi’ tanto “fuori bersaglio”.

Certo meglio tardi che mai, ma si tenga presente che l’indagine OROS e’ comunque un’indagine basata sulle imprese e non sulle famiglie come il CPS. E’ senz’altro utile avere informazioni regolari sulle retribuzioni attraverso le imprese, ma altrettanto utile e’ avere informazioni analoghe attraverso le famiglie. I due tipi di informazione sono complementari e
finalizzati a rispondere a domande diverse (ad esempio, poverta’, disuguaglianza e mobilita’ sociale: vedi il recente articolo su lavoce.info di Reichlin e Rustichini). Il secondo e’ il tipo di informazione che manca in Italia, fatta eccezione per l’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane condotta dalla Banca d’Italia (a cui saremo sempre grati per questo), che peraltro riporta solo i redditi annuali al netto delle tasse ed ha frequenza biennale.

Inoltre, i comunicati stampa, le tabelle con dati aggregati e i rapporti trimestrali dell’ISTAT sono senz’altro interessanti, ma non sostituiscono i dati elementari relativi ai singoli soggetti intervistati. Chi fa ricerca ha bisogno dei dati elementari, non di tabelle riassuntive. E, comunque, una diffusione trasparente delle informazioni statistiche richiederebbe che chi fa ricerca possa verificare e replicare i rapporti trimestrali e le analisi dell’ISTAT. Chi pubblica articoli empirici su riveste
internazionali e’ generalmente tenuto a mettere i dati utilizzati a disposizione di chi voglia verificare quanto scritto dagli autori. Perche’ questa regola non dovrebbe valere anche per l’ISTAT?

Quindi,  e’ disposto l’ISTAT a rendere i dati elementari dell’indagine OROS accessibili a chi fa ricerca? E a quale prezzo? E saranno scaricabili da internet con la stessa facilita’ con cui ad esempio si scaricano i dati del CPS? E quando sara’ pronta una pagina WEB con tutte le informazioni necessarie a cui sia possibile arrivare facilmente via GOOGLE?

Provino i lettori (e anche Tronti  e Galezzoni) a digitare “Current Population Survey” in GOOGLE e a verificare la facilita’ di accesso al sito del CPS, ai dati scaricabili e alla relativa documentazione. Provino poi a fare altrettanto per i dati ISTAT.

Un ultimo commento: ieri alle 11.30 abbiamo richiesto informazioni sui dati ISTAT agli indirizzi indicati da Tronti e Gazzelloni, ma a 24 ore dall’invio dei messaggi non abbiamo ancora ricevuto risposta. La risposta del CPS e’ arrivata dopo 1 ora e 10 minuti,  e dopo mezza giornata quando il fuso orario non era favorevole.

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