Complessivamente le famiglie povere in Lombardia sono la metà di quelle sotto la soglia più bassa in Basilicata. E anche se si registrano importanti differenze allinterno di ciascun raggruppamento di Regioni, resta evidente il dualismo economico tra Centro Nord e Mezzogiorno. In particolare, al Sud la più elevata incidenza della povertà è sistematicamente accompagnata da una maggiore intensità. Per portare tutti alla linea di povertà relativa servirebbero 6,6 miliardi. Ma la Finanziaria ha solo vaghe parole sul reddito di ultima istanza.I dati sulla distribuzione e intensità della povertà a livello regionale resi disponibili per la prima volta da una indagine speciale dell’Istat del 2002 (1) confermano, con evidenza direi fisica, un paese spaccato in due. Basilicata lontana dalla Lombardia Lo si può vedere dalla figura, in cui si articola l’incidenza della povertà relativa (in rapporto cioè al consumo medio equivalente) utilizzando tre diverse linee di povertà: l’80 per cento (658,76 euro), il 100 per cento (823,45 euro) e il 120 per cento (988,14 euro) della metà del consumo medio di una famiglia di due persone. Figura 1 Famiglie povere e non povere in base a tre diverse linee di povertà. Anno 2002 (composizione percentuale)
Fonte: Istat, La povertà e l’esclusione sociale nelle regioni italiane. Anno 2002, Statistiche in breve, 17 dicembre 2003
L’incidenza della povertà è simile nel Mezzogiorno e nel Nord solo se si prende nel primo caso la linea all’80 per cento e nel secondo al 120 per cento, ovvero se si assume che nel Nord ci voglia il 40 per cento in più che nel Mezzogiorno per consumare un pacchetto di beni equivalenti.
Un assunto per lo meno azzardato, e che andrebbe verificato con una analisi del costo della vita nelle diverse Regioni, che includa non solo alimentazione, abitazione, trasporti, riscaldamento, ma anche, ad esempio, un servizio sanitario puntuale e decente. Di più, anche tenendo conto della linea di povertà al 120 per cento, la Lombardia, la Regione a più bassa incidenza della povertà, con il suo 7,6 per cento complessivo di famiglie povere, ne ha la metà di quelle che sono sotto la soglia più bassa (calcolata all’80 per cento della soglia standard) nella Regione a più alta incidenza di povertà: la Basilicata.
Poveri a Nord e poveri a Sud
Ci sono certo importanti differenze entro ciascuna ripartizione. Due Regioni del Nord-Est, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, appaiono le Regioni a maggiore diffusione di povertà e quasi povertà nel Nord.
Al Centro, le Marche hanno un tasso di povertà grave simile a quello della Lombardia, mentre il Lazio ha la maggiore incidenza della povertà grave e meno grave.
Al Sud, Abruzzo e Sardegna si distinguono nettamente dalle altre Regioni meridionali qualsiasi sia la linea di povertà considerata. Confermando come non si possa parlare di un unico Sud e che il raggruppamento “isole” costituisce sotto questo aspetto, come sotto molti altri, un aggregato con poco in comune, al di là dell’essere separato dalla terraferma. Inoltre, nel Centro-Nord possono esservi Regioni con una bassa incidenza e una bassa intensità della povertà: è il caso della Lombardia e della Liguria. Oppure Regioni che presentano una bassa incidenza, ma una elevata intensità della povertà, come l’Emilia Romagna. E infine, Regioni in cui una incidenza superiore alla media della ripartizione si accompagna anche a una elevata intensità: il Trentino-Alto Adige e il Lazio.
Ciò detto, l’aggregazione per due grandi ripartizioni – Centro-Nord e Mezzogiorno – sembra invece continuare a rappresentare adeguatamente il persistente dualismo economico del nostro paese. In particolare, nel Mezzogiorno la più elevata incidenza si accompagna sistematicamente anche a una più elevata intensità della povertà.
Le spese difficili
L’indagine sui consumi del 2002 consente anche di mettere a fuoco alcune dimensioni specifiche del disagio economico sulla base di alcuni indicatori ormai convalidati a livello internazionale: per esempio, la difficoltà a effettuare alcune spese o le cattive condizioni abitative.
Ha anche indagato alcune difficoltà di accesso ai servizi e posto una domanda di percezione soggettiva delle proprie condizioni economiche. Non mi soffermerò su quest’ultimo aspetto, salvo osservare che non è sorprendente che nel Nord la percezione della povertà sia più diffusa della povertà stessa mentre l’opposto avviene nel Mezzogiorno. Chiunque si occupi di indagini sulla percezione sa come queste dipendano dai gruppi di riferimento che ciascuno adotta, dalle aspettative che ciascuno ha.
Più interessanti sono i dati sulle difficoltà sperimentate da chi è povero nel far fronte a consumi essenziali: il 25 per cento di chi è povero (a fronte del 15 per cento di chi non lo è) ha qualche problema connesso alla adeguatezza della abitazione (umidità, infissi fatiscenti), con punte che toccano il 31 per cento in Piemonte, il 34 per cento in Basilicata, il 33 per cento in Sardegna. Anche pagare l’affitto rappresenta una difficoltà per oltre un quinto delle famiglie povere, anche se meno nel Nord-Est e nel Centro che nel Nord-Ovest e nel Mezzogiorno. Seguono le difficoltà a pagare le bollette, che riguardano quasi il 20 per cento delle famiglie povere, soprattutto nel Mezzogiorno.
Ciò segnala come i costi connessi alla abitazione costituiscano oggi gli elementi di maggior tensione dei bilanci delle famiglie povere o a reddito molto modesto, in particolare se in affitto. Anche le difficoltà a pagare le cure mediche toccano il 14 per cento delle famiglie povere (quasi il triplo rispetto a chi non è povero), con punte del 22 per cento nelle isole. Più contenute, ancorché non irrilevanti, sono le difficoltà a comprare il cibo necessario: riguardano quasi il 10 per cento dei poveri (oltre 3 volte di più di quanto non succeda ai non poveri) con punte oltre il 12 per cento nel Centro e nelle isole.
Impegni vaghi in Finanziaria
Complessivamente, oltre il 23 per cento di tutte le famiglie povere (con punte di quasi il 40 per cento nel caso di anziani soli e di coppie con tre o più figli) ha sperimentato nel corso dell’anno almeno una di queste difficoltà, a fronte del 9,5 per cento di coloro che non si trovano in povertà. Si tratta di famiglie che consumano tutto il proprio reddito senza alcuna possibilità di risparmiare per fronteggiare emergenze: tra chi ha avuto qualche difficoltà a far fronte ai propri bisogni l’impossibilità di risparmio anche minimo riguarda circa l’80 per cento, a fronte del 47,7 per cento medio per le famiglie italiane nel complesso.
Accanto alla ripartizione geografica e alla condizione familiare, fa differenza l’ampiezza del comune di residenza. Le difficoltà aumentano quasi linearmente con l’ampiezza del comune, forse perché aumenta anche il costo della vita, o anche perché sono meno possibili piccole attività di autoconsumo.
Poiché la distanza media dalla linea di povertà relativa standard è stata valutata in 224 euro mensili, un calcolo fatto da Andrea Brandolini in occasione del seminario di discussione di questi dati, porta a stimare in 6,6 miliardi di euro l’anno il costo di portare tutti alla linea di povertà relativa a situazione 2002.
Ovviamente, basterebbe molto di meno per portare tutti almeno a livello della povertà assoluta, che nel 2002 è stata calcolata, sempre per una famiglia di due persone, in 573 euro mensili (a fronte degli 823 euro della povertà relativa). Ma neppure questo sembra essere nei programmi del Governo, considerata la vaghezza con cui nella Legge finanziaria si parla di reddito di ultima istanza.
È vero che per contrastare la povertà non basta integrare il reddito. Ma integrare il reddito aiuta a vivere, mentre si cerca un lavoro, si migliora la propria formazione, si fanno crescere e si mandano a scuola i figli, si invecchia.
(1) Questa indagine ha comportato sia un allargamento del campione che l’inserimento di un questionario di approfondimento. È stata effettuato sulla base di un accordo con il dipartimento per le Politiche di sviluppo e coesione del ministero dell’Economia e delle finanze ed è stato cofinanziato dai Fondi strutturali comunitari.
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Alessio Mori
Gentile Chiara
Se va a leggere i dati sul pil regionale dell’Istituto Tagliacarne, vedra’ che la usare la soglia dell’80% per il sud e 120% per il nord ha molto senso, anche in considerazione della diverso livello di presenza della economia sommersa e del diversa dimensione media degli abitati urbani.
Altra questione e’ l’idea di integrare il reddito delle famiglie povere per portarle ad una condizione di vita piu’ dignitosa. Mi ha fatto pensare a quel famoso detto che a chi ha fame non si deve dare un pesce (= elemosina) ma insegnargli a pescare (istruzione, poca criminalita’ e infrastrutture)
Speravo di leggere questo, dopo quarant’anni di cassa del mezzogiorno che non ha giovato al Sud, bensi’ solo ad una parte della classe politica e dirigente di questo paese.
Distinti saluti,
Alessio
La redazione
E’ senz’altro sensato integrare la linea della povertà tenendo conto delle diversità territoriali nel costo della vita. Ma queste non sono date automaticamente dalle differenze nel PIL . E forse più che della sola dimensione regionale occorrerebbe tener conto dell’ampiezza del comune di residenza. Quanto all'”insegnare a pescare piuttosto che dare il pesce”
proprio l’esperienza della Cassa del mezzogiorno insegna che forse è meno semplice di quanto non sempbri e non tanto per colpa dei meridionali in generale ma della loro classe dirigente. Inoltre il sostegno al reddito proprio a questo dovrebbe servire: a consentire a chi è povero di investire
in formazione, in miglioramento del proprio potenziale, senza dover arrabattarsi per procurarsi spezzoni di reddito senza alcuna speranza di migliorare. Essere poveri è molto faticoso e disperante, mi creda.
cordialmente
gianni.elia@email.it
“Lincidenza di povertà relativa è calcolata sulla base del numero di famiglie (e relativi) componenti che presentano spese per consumi al di sotto di una soglia convenzionale.”
A un qualsiasi essere pensante basterebbe questo incipit per capire che si tratta di una bufala piuttosto che di un’indagine. Il povero di oggi dispone di uno standard di vita che nemmeno LuigiXIV si poteva sognare. Se aggiungiamo poi che l’indagine è in “termini strattamente monetari” viene il dubbio che forse si tratta di un copione da cabaret.
La redazione
In nessun paese sviluppato si stima l’incidenza della povertà in relazione al tenore di vita disponibile ai più qualche secolo fa, o anche rispetto a qualche paese in via di sviluppo. Sia che si adotti una definizione cosiddetta assoluta (ovvero in riferimento ad un paniere minimo di beni), sia che si adotti una definizione relativa (ovvero in riferimento al tenore
di vita medio), il riferimento è sempre alla società e al tempo in cui si vive; in termini di costi, ma anche di standard di adeguatezza. Le stime della povertà basate vuoi sui consumi (come fanno l’Istat e la Commissione di Indagine sulla esclusione sociale) vuoi sui redditi, come fanno altri
paesi e, in Italia, la Banca d’Italia, rispondono a criteri scientifici del tutto consolidati e utilizzati in sede internazionale. Presentano i limiti di tutte le stime. Ma sono tutt’altro che bufale.
gianni elia
Noto con disappunto per la seconda volta nel sito (la prima mi è capitata nel forum “Moneta e inflazione”) che le risposte che mi sono date dovrebbero essere considerate esaustive perchè rimandano a qualcun altro: seguono la metodologia di “Istat e la Commissione di Indagine sulla esclusione sociale… la Banca d’Italia” oppure sono quelle che si trovano in una “sterminata letteratura” (nellaltro caso). Mi domando se ci sia qualcosa di scientifico o analitico in questo. Proverò a sollevare il caso presso la redazione.
Così il fatto che In nessun paese sviluppato si stima l’incidenza della povertà in relazione al tenore di vita disponibile ai più qualche secolo fa, o anche rispetto a qualche paese in via di sviluppo non aggiunge nulla alle mie affermazioni. Tanto più che non spiega perché le statistiche allora riguardino anche la crescita del reddito nazionale.
Una persona che spende meno di unaltra o di una media di altre non è necessariamente povera né la ricchezza e il benessere possono misurarsi in termini esclusivamente monetari (a maggior ragione se come in questo caso poi lindagine è limitata alla spesa per consumi di quegli individui). Lesempio di Luigi XIV sta solo a significare che le persone che lei individua come povere secondo parametri cui lei non è in grado di attribuire al cui valore esplicativo sono molto più ricche (non necessariamente di denaro) del Re Sole.
Saluti e grazie per lattenzione
La redazione
Confesso che non capisco bene l’osservazione. Comunque ripeto che per stimare la povertà nella letteratura nazionale e internazionale si utilizzano diversi metodi, che a loro volta si riferiscono ad un concetto relativo o invece assoluto di povertà. Nel primo caso (è ad esempio ciò che fa EUROSTAT), si misura l’incidenza e l’intensità della povertà in relazione al tenore di vita medio della popolazione, così come è indicato dal reddito o dal consumo. Si dice che è povero chi non ha un reddito, o un consumo, pari alla metà del reddito (o consumo) medio procapite di quel paese.
Ovviamente, per eguagliare famiglie di ampiezza diversa si utilizza una scala di equivalenza. Nel secondo caso si individua un paniere di beni ritenuti essenziali per vivere in una determinata società e se ne determina il costo sulla base dei prezzi correnti e si dice che è povero chi non ha i
mezzi per acquistare quel paniere. L’ISTAT e la Commissione di Indagine sulla esclusione sociale utilizzano entrambe le misure. A seconda che si utilizzi il criterio della povertà relativa o assoluta le stime danno stime di incidenza di povertà diverse (più alte per la povertà relativa). Lo stesso avviene a seconda che si utilizzi il consumo o invece il reddito. Ciò non significa che siano arbitrarie, o inaffidabili, solo che sono parziali. Spero di averle dato se non una risposta esaustiva, impossibile in un breve spazio, almeno sufficiente.
RICCARDO MARIANI
Gentile Chiara Saraceno,
La definizione di poverta’ relativa sara’ anche scientificamente impeccabile certo che non e’ l’ ideale per comunicare con il lettore comune a meno che non si ammetta la povera’ SOLO come una forma di diseguaglianza (in questo caso, si scoprirebbe, paradossalmente, che un modo di combattela consiste nell’ eliminazione dei ricchi). Anche affermare che la poverta’ assoluta e’ relativa ad un periodo determinato non passa inosservato agli occhi dell’ analfabeta economico. Non sara’ che la “poverta’” colpisce e risulta inaccettabile per chiunque mentre a non accettare la “diseguaglianza” si rischia di ritrovarsi tra gli invidiosi?
Vorrei segnalare un commento al corto circuito tra economisti e lettori comuni. R.E. Rector e K.A. Johnson su http://WWW.HERITAGE.ORG descrivono il “povero medio” americano: e’ proprietario di un’ auto, ha un impianto di aria condizionata, possiede frigorifero, lavastoviglie, lavatrice, forno micronde, 2 tv color.lettore DVD o VCR, uno stereo, gode di copertura sanitaria, non abita ambienti sovrafollati (la metratura della casa in cui vive e’ superiore alla metratura del parigino appartenente alla classe media), soddisfa tutti i suoi bisogni essenziali, possiede uno o piu’ cellulari, il 25% dei poveri e’ proprietario della casa in cui abita (casa con le caratteristiche di cui sopra).
L’ immagine che ne esce spiazza il lettore comune ma cio’ solo a causa di concetti mal definiti (anche il linguaggio scientifico dovrebbe comunicare).
Mischiare poverta’ e diseguaglianza, forse, svia anche circa le contromisure da adottare per combattere il fenomeno: RECTOR/JOHNSON individuano la causa principale della poverta’ nella scarsita’ di ore lavorate dai poveri americani (mediamente 16 alla settimana). Chi si e’ occupato del nostro welfare (leggi sul salario minimo, indignazione per le gabbie salariali ecc.) non sembra certo preoccupato di intaccare il male alla radice.
Daltronde qualcuno ha teorizzato che in un paese in cui gran parte delle decisioni sono prese con il metodo democratico i poveri (carenti di una loro lobby) se la passeranno sempre male.
Cordiali saluti.
La redazione
Ha in parte ragione a sostenere che la povertà relativa è in ultima istanza una misura di disuguaglianza. L’individuazione della soglia (il 50% piuttosto che il 60% del reddito o del consumo medio procapite) segnala a quale livello si ritiene che la disuguaglianza sia ritenuta problematica, o
inaccettabile. Ha anche ragione a dire che paradossalmente, se si usasse esclusivamente questo criterio di misurazione, se tutti fossero ugualmente privi di mezzi nessuno sarebbe povero. O anche un abbassamento complessivo
del tenore di vita potrebbe portare a ritenere che la povertà sia diminuita, ovvero che i poveri stiano meglio. E’ ciò che è successo tra il 2001 e il 2002. Per questo da diversi anni la Commissione di Indagine sulla esclusione sociale prima, e poi l’ISTAT utilizzano, accanto alla misura relativa di povertà quella assoluta, con un paniere di beni che si mantiene fisso nel tempo di cui vengono aggiornati solo i prezzi. Le assicuro che nel caso italiano il paniere di beni è molto essenziale. Ha ancora ragione a chiedere un maggiore rigore nell’uso dei termini e nella esplicitazione dei criteri che si utilizzano. Non sono invece d’accordo con lei quando dice che il
problema della povertà è solo una mancanza di lavoro. Le ricerche sia italiane che statunitensi che di altri paesi segnalano che sono in aumento sia i working poor, ovvero coloro che pur lavorando prendono un salario
troppo basso, sia le famiglie povere in cui almeno un adulto è occupato.
Quest’ultimo fenomeno, che riguarda soprattutto le famiglie con figli, deriva da uno squilibrio tra reddito e numero dei consumatori e può essere affrontato sia aumentando il numero dei lavoratori in famiglia (sostegno all’occupazione delle madri) sia rafforzando il sistema di trasferimenti
alle famiglie con figli. I paesi che hanno più successo nel contrastare la povertà di queste famiglie adottando una combinazione dei due approcci. In Italia invece non si fa né l’una né l’altra cosa (a parte risibili una tantum).
cordialmente