La tradizionale suddivisione delle competenze di vigilanza per soggetti è poco funzionale nei mercati finanziari sviluppati. In molti paesi, la scelta è stata dunque tra il regolatore unico e la divisione dei poteri di controllo tra due distinte autorità. L’Italia ha mantenuto finora un apparato ibrido e la necessaria riforma può arrivare sull’onda della crisi Parmalat. Il modello a due autorità sembra il più adatto al nostro paese, ma non è sufficiente per tutelare i risparmiatori. Serve un ampliamento dei poteri di intervento e sanzionatori, cui deve però corrispondere una più forte trasparenza dei processi decisionali.

Il caso Parmalat rappresenta una grande opportunità e un grande rischio per l’ordinamento della finanza.

Opportunità e rischi

Nel corso della storia le crisi finanziarie, grandi o piccole che siano, sono sempre stati utili, anche se a volte tragici e costosissimi, stimoli per legislatori sonnolenti a occuparsi con più attenzione della tutela dei risparmiatori.
Il rischio è invece quello che l’incredibile gravità delle vicende sulle quali sta indagando la magistratura generi il classico polverone mediatico, utilizzato per far passare scelte confuse e affrettate, imposte più dai “bisogni” della politica che dalla reale consapevolezza dei possibili effetti sul funzionamento dei mercati e sulla prevenzione dei fenomeni di patologia.
Il dibattito sulle competenze delle autorità di controllo è emblematico di questo rischio-opportunità.
Da tempo, in molti paesi europei ed extraeuropei è in corso un processo di revisione delle competenze di vigilanza, fondato sulla sacrosanta convinzione della assoluta inadeguatezza degli attuali assetti istituzionali nel fronteggiare i rischi di instabilità degli intermediari e nel garantire condizioni di trasparenza sui mercati.
È un processo profondo, basato su una attenta e ponderata valutazione dei costi e dei benefici delle diverse soluzioni possibili. Ad esempio, sul tanto celebrato caso inglese, nessuno ha ricordato che l’ipotesi del “single regulator” era stata sottoposta agli elettori già nel programma del 1997 del Labour Party, e che il Financial Sevices and Markets Act è stato emanato nel 2000 dopo una fase di consultazione avviata nel 1998, che ha coinvolto tutti i soggetti interessati (studiosi, rappresentanti delle associazioni di categoria, esponenti politici eccetera). Fase di consultazione giustificata proprio dall’esigenza di dare un salutare, ma ben meditato ed efficiente, scossone a un sistema che aveva creato negli anni Novanta più di una preoccupazione e qualche doloroso salasso ai sudditi di Sua Maestà.
Un analogo percorso è stato seguito anche in altri ordinamenti che però sono giunti a risultati diversi.
Una volta superato il tradizionale modello settoriale, e cioè una suddivisione delle competenze della vigilanza per soggetti, poco funzionale in mercati finanziari sviluppati con intermediari multi-prodotto, la scelta è stata tra il regolatore unico e la suddivisione dei poteri di controllo sulla stabilità e sulla trasparenza tra due distinte autorità.
Un recente studio comparato della Banca centrale europea mette in evidenza come gli Stati UE si siano indirizzati verso queste due soluzioni, mentre il modello settoriale prevale ancora nei nuovi aderenti alla Comunità. Lo stesso studio richiama però anche un significativo, e troppo spesso sottovalutato, dato “trasversale”: in tutti i sistemi (compresi quelli con il “single regulator”) permane comunque, anche se con diverse modalità, un forte coinvolgimento della banche centrali nella vigilanza sugli intermediari. (1)

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Un sistema né carne né pesce

Il nostro apparato dei controlli non è né carne né pesce, perché in parte conserva una vocazione settoriale (si pensi ai controlli sulle assicurazioni) e in parte presenta una suddivisione per obiettivi, che però riguarda soltanto alcune attività di intermediazione. Si tratta, in sostanza di una “ibridazione” non certo efficiente, con molte aree grigie dove si possono annidare fenomeni elusivi.
La riforma, quindi, è un esigenza reale che deve essere soddisfatta tenendo conto delle peculiarità e della storia del nostro contesto istituzionale, delle caratteristiche dei mercati e dell’intermediazione. Finora, i numerosi studi compiuti e le prime rilevazioni sulle esperienze già avviate, non danno risultati definitivi sul modello ottimale di integrazione delle competenze di vigilanza.
Il “single regulator” può interloquire con maggiore incisività con i grandi operatori polifunzionali e ha il vantaggio di consentire maggiori economie di scala nell’attività di supervisione, prevenendo le difficoltà di coordinamento tra più autorità, e la nostra esperienza dimostra quanto siano rilevanti. Il rischio però è che una eccessiva concentrazione di poteri in un unico, nuovo soggetto solleciti gli appetiti della politica che potrebbe condizionarne l’autonomia e l’indipendenza. Inoltre, svolgere contemporaneamente missioni diverse con diverse metodologie di intervento può generare conflitti e non indifferenti problemi di governance interna (recentemente l’Fsa inglese ha rivisto la propria struttura organizzativa).
Il modello incardinato su due autorità presenta il vantaggio di una maggiore specificazione delle singole “missioni”, evitando la creazione di mega-strutture con tutti i relativi rischi di gigantismo burocratico.

La strada migliore

Per il nostro paese, è innegabilmente questa la strada più facilmente percorribile in tempi ragionevoli, perché in parte è già disegnata dalle norme del Testo unico della finanza: consentirebbe perciò una più rapida razionalizzazione del sistema, accorpando i controlli di stabilità nella Banca d’Italia, quelli relativi alla trasparenza nella Consob, e attribuendo nel contempo all’Antitrust tutte le competenze in materia di concorrenza.
Ma non sarebbe sufficiente: per rafforzare i presidi alla tutela del risparmio bisogna anche occuparsi di altri, forse più spinosi, aspetti della operatività dei controllori.
Una riforma che abbia l’ambizione di essere tale non può rinunciare a un ampliamento dei poteri di intervento e sanzionatori delle autorità, al quale deve però corrispondere una adeguata accountability, e soprattutto una più forte trasparenza dei processi decisionali e delle strutture di amministrazione e governo.
Occorre, in sostanza, creare gli strumenti per valutare le performance delle autorità, perché una vigilanza inefficiente rappresenta un costo, sia per i vigilati che per la collettività.
Naturalmente, qualsiasi intervento presuppone la condivisione di un valore comune, senza il quale ogni tentativo di riforma sarebbe oltre che inutile, pericoloso. Le autorità devono essere responsabili (e pagare quando sbagliano), ma libere da interferenze politiche, altrimenti non funzionano e perdono autorevolezza.
Può apparire un concetto ovvio, ma non è affatto scontato: un legislatore che, al di là dei proclami, volesse dare un segnale concreto in questa direzione, dovrebbe abolire del tutto organismi come il Cicr nei quali i rischi di interferenze sono fin troppo evidenti. Lo testimoniano proprio le ultime vicende nostrane.

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(1)
European Central Bank, Developments in National Supervisory Structures, June, 2003

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