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La lunga marcia verso il dottorato

Diventa sempre più ampio il divario tra dottorato italiano e estero. Troppi gli anni necessari nel nostro paese per conseguirlo e insufficiente il bagaglio di strumenti offerto agli studenti per svolgere ricerca avanzata. Per competere a livello internazionale, una soluzione possibile è proporre programmi modellati sugli standard stranieri, rinunciando ai finanziamenti ministeriali per cercarli nel settore privato. Ma serve coraggio, da parte delle università, dei dottorandi e delle imprese.

Un punto fondamentale per promuovere la radicale riforma dell’università proposta da Roberto Perotti è l’introduzione di buoni programmi di dottorato. L’ultima riforma del sistema universitario italiano impedisce invece ai corsi di dottorato di competere al livello internazionale.

In Italia

In Italia, il dottorato si configura come un corso normalmente triennale (con la possibilità di estensione a un quarto anno) a cui si può accedere solo dopo aver completato la sequenza triennio più biennio di laurea specialistica.
Storicamente, è basato su pochi e poco strutturati corsi e le modalità di formazione variano molto da sede a sede.
Il fatto che la borsa di dottorato sia raddoppiata per i periodi passati in una università estera, viene spesso interpretato dalle sedi italiane come una delega della formazione all’università straniera. Un meccanismo che in passato ha creato distorsioni: gli studenti italiani hanno finito per frequentare contemporaneamente due corsi di dottorato: uno serio all’estero, e uno meno serio in Italia, con il ruolo principale di finanziare il primo.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che in genere i dottorati hanno pochi studenti, un numero comunque insufficiente per raggiungere la massa critica necessaria perché attorno al dottorato nasca un movimento di ricerca. Né il raggiungimento di questo scopo è favorito dalla distribuzione dei finanziamenti, che tende a seguire un criterio “a pioggia” assegnando poche borse di studio a molte sedi. Basta guardare l’elenco dei dottorati recentemente finanziati dal ministero dell’Istruzione, università e ricerca nelle regioni meridionali.

Il principale problema è dunque che in Italia non si è creato il clima di ricerca normalmente generato da un dottorato.

Infine, il percorso italiano si chiude generalmente con la partecipazione a un concorso per ricercatore nella sede dove è stato svolto il dottorato o in una sede “amica”.

In Europa e negli Stati Uniti

In Europa e negli Stati Uniti, il dottorato è un corso specialistico normalmente quadriennale, a cui si accede dopo il triennio undergraduate.
I primi due anni prevedono corsi ed esami specialistici intensivi, mirati a dare agli studenti gli strumenti necessari per poter produrre ricerca avanzata. Il terzo e il quarto anno segnano il passaggio da studenti a ricercatori, con seminari specialistici, partecipazione a “reading groups” coordinati da docenti, ma in cui gli studenti hanno un ruolo attivo, e una interazione diretta con i relatori di tesi. Tipicamente, sono proprio gli studenti degli ultimi due anni a creare, insieme ai ricercatori della Faculty, il clima di ricerca che porta alle pubblicazioni su riviste scientifiche sia da parte dei dottorandi che dei loro relatori.
In America e sempre per economia, il dottorato si conclude con la partecipazione al “Job Market”, il mercato del lavoro che si tiene regolarmente a inizio anno in occasione dei meetings della Allied Social Sciences Association.
La regola è che nessuna università assume come assistant professor uno dei propri laureati PhD.

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I problemi della riforma

Il problema generale della riforma è che tende a rendere più ampio il divario tra i dottorati italiani e quelli internazionali. Vediamo tre punti specifici

La costruzione della strumentazione necessaria per procedere alla ricerca.

È l’obiettivo dei primi due anni di dottorato estero, in Italia non potrebbe essere ottenuta nel biennio di laurea specialistica? La risposta è no. Infatti i corsi dei primi due anni dei dottorati esteri sono molto specialistici e mirati a una classe di una ventina di studenti che hanno già fatto una scelta di carriera ben precisa, orientata alla ricerca. In Italia, non è possibile pensare un biennio di economia per soli venti studenti. E qualora lo si facesse, non sarebbe possibile dare una formazione specialistica, come nei dottorati esteri, per via dei vincoli sugli esami che lo impediscono.

Competizione internazionale e incentivi alla fuga all’estero.

Si pensi a uno studente che completa la laurea triennale alla London School of Economics e considera due alternative per il PhD: un’università inglese e un’università italiana, che vuole competere a livello internazionale e offre un corso di dottorato in inglese. Con il percorso inglese può ottenere il PhD in quattro anni, con il percorso italiano si trova di fronte a cinque anni, i primi due dei quali non sono sufficientemente specialistici.

Ora si pensi a un bravo studente italiano neolaureato triennalista: l’opzione ovvia è tentare di essere ammesso al PhD straniero con il risparmio di un anno e un’educazione più mirata.
L’implicazione è che i dottorati italiani sono destinati ad avere come utenti gli studenti italiani che non riescono ad andare all’estero. Questo è molto grave più per le università che per gli studenti, perché un dottorato di qualità crea un ambiente di ricerca fondamentale per produrre risultati di qualità. Un dottorato mediocre non crea nulla, anzi assorbe solo risorse.

Un’area di parcheggio?

Nel percorso 3+2+3 che porta al dottorato in Italia, la successione due anni di formazione più tre anni di ricerca potrebbe non realizzarsi mai. La laurea specialistica non può svolgere il ruolo di formazione, mentre c’è il rischio che i tre anni di dottorato siano lasciati privi di corsi, con l’argomento che gli studenti hanno già seguito cinque anni di corsi. Potrebbero diventare quindi aree di parcheggio per dottorandi ai quali non viene insegnato nulla, ma che vengono utilizzati dall’università come esercitatori, tutor e, in generale, come forza-lavoro a basso costo per gestire la massa degli studenti dei corsi di laurea.

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Le soluzioni possibili

Una prima possibilità è cambiare il biennio rendendolo molto più flessibile: al suo interno potrebbe essere previsto un percorso che risponda alle esigenze di un dottorato. Sarebbe però naturale ottenere il dottorato dopo solo due ulteriori anni (i due destinati alla ricerca), e non dopo tre come nella situazione attuale. Inoltre, andrebbe favorita la concentrazione dei dottorati per ottenere un numero di studenti sufficienti a fare massa critica nelle sedi in grado di offrire programmi competitivi con quelli esteri.
L’unica altra alternativa per un’istituzione italiana che voglia competere a livello internazionale è proporre un corso di dottorato di quattro anni sullo standard internazionale accessibile dopo il triennio, rinunciando alla legalità del titolo e ai finanziamenti del ministero per gli studenti.
Ma è un’alternativa che implica tre domande. È possibile trovare finanziamenti per questo tipo di attività da parte del settore privato?
È possibile trovare studenti che abbiano il coraggio di affrontare in Italia un dottorato che li prepari per il mercato internazionale, senza alcuna garanzia di protezione locale?
Infine, esiste un’istituzione che abbia il coraggio di organizzare questo tipo di corso ?

 

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Sommario 13 gennaio

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Tariffe poco pubbliche

  1. Fabio

    Penso che il dottorato abbia poco successo in Italia perchè non è nella tradizione accademica italiana la specializzazione. Mi spiego: già a partire dalla scuola superiore lo studente italiano viene abituato ad un sapere interdisciplinare (parola magica) e non è stimolato a sviluppare una particolare vocazione. Lo stesso accade all’università, dove nonostante la riforma abbia introdotto alcune novità in senso specialistico, il sapere viene trasmesso sempre in un’ottica generalista e mirata a dare allo studente una visione multilaterale del sapere: fa parte della nostra cultura, nel bene e nel male. La stessa filosofia ha portato il legislatore a creare la laurea specialistica, in cui molti argomenti di specialistico hanno poco, tuttavia, servono a fornire ulteriori conoscenze a livello intermedio o avanzato, senza però avere niente a che fare con la ricerca. Quando lo studente arriverà a iniziare il dottorato, avrà alle spalle 5 anni di università “nozionistica” (senza contare i 5 anni di liceo) e gli rimarranno 3 anni di studi orientati alla ricerca: troppo poco. Credo che il motivo sia da ricercare nella tradizione culturale italiana, poco incline all’innovazione e molto all’arricchimento culturale.

  2. Tomaso Pompili

    Concordo con l’importanza del dottorato, e del percorso formativo che conduce ad esso, per il futuro della ricerca e quindi dell’università in Italia. Tuttavia, a mio parere, se si vuole, si può realizzare un buon dottorato anche in Italia, anche senza uscire dal contesto istituzionale attuale.

    1) il percorso pre-dottorale può essere inserito nel biennio della specialistica. Basta che la facoltà disegni il piano di studi dedicando molti crediti alle materie a scelta dello studente e fornisca in quell’ambito un pacchetto di corsi del livello desiderato, segnalandone lo scopo. Visto che sono corsi opzionali, li si può offrire in inglese (lezioni e bibliografia), incoraggiando fra l’altro l’auto-selezione. Perfino le vituperate tabelle ministeriali consentirebbero una tale scelta, e con un numero di crediti significativo, nell’ordine dei 30 crediti (o più), nella versione Moratti ventura. Nell’equivalente di un semestre a tempo pieno si possono insegnare a studenti brillanti le annualità di micro e macro del Master a LSE per esempio (cito un ricordo dei miei tempi). Ricordo che parecchi miei colleghi di studi (a tutti voi ben noti, dalla stampa se non di persona) hanno fatto brillanti carriere accademiche e non passando dalla laurea (vecchio ordinamento) al PhD quadriennale USA, e non avevano già studiato micro e macro avanzata.

    2) il primo anno di dottorato può essere considerato obbligatoriamente didattico (come in genere nei PhD triennali UK), tenendo però corsi che, a differenza di quelli odierni, diano per scontata la precedente frequenza dei corsi al punto 1. Ricordo bene che al PhD di LSE si offrivano solo Metodologia della ricerca (economica) e Argomenti di frontiera della ricerca (economica): forse potrebbe essere sufficiente pre-mettere a questi due il corso avanzato in un’area specialistica (quella della tesi) e/o econometria (non a tutte le aree specialistiche serve). Dato il numero di studenti di un dottorato, il corso specialistico potrebbe essere anche non insegnato, ma basato su una equivalente reading list obbligatoria, con esame (ci sarà in collegio dei docenti qualcuno in grado di stilarla?).

    Piuttosto, se questo può esser fatto già oggi e senza perdere i vantaggi della permanenza nell’ambito istituzionale italiano, perché non si fa o si fa troppo poco? Nonostante siano ormai in cattedra, o quasi, le prime generazioni che hanno massicciamente scelto la specializzazione all’estero? Forse, più che sui vincoli normativi, potrebbe essere illuminante l’analisi della dissonanza fra ottimo individuale e ottimo sociale nelle scelte dei docenti universitari come individui e come collegio …

  3. Pietro Rizza

    Sono d’accordo sul fatto che l’Italia abbia una vocazione poco spiccata alla ricerca. Questo e’ innegabile e mi pare chiaro che qualcosa vada fatto per invertire il trend. Premetto solo di non condividere l’idea che in Italia l’istruzione sia troppo generalista a livello universitario. L’universita’ italiana e’ molto piu’ specialistica di quella americana dove gli studenti finiscono per studiare poco di tante cose senza avere una conoscenza approfondita di niente. Io penso che l’universita’ italiana debba mantenere il carattere che ha negli studi che portano alla laurea, magari permettendo ogni tanto la possibilita’ di fare corsi non collegati al dipartimento di riferimento.

    Riguardo il modello graduate, non concordo con l’idea di replicare il modello UK. Secondo me il modello da seguire e’ quello americano dei quattro anni (2 di corsi ed esami, 2 o 3 di ricerca). Il primo anno e’ essenziale per avere una conoscenza avanzata di tutta l’economia, o quantomeno dei suoi fondamenti. Il primo anno fa anche una selezione feroce che permette a chi non e’ in grado di lasciare prima che sia troppo tardi. Nel secondo anno ci si “specializza” nei campi che piacciono di piu’. A quel punto si e’ pronti per fare ricerca.

    Come conciliarlo col modello Italiano? Basta far confluire nel biennio specialistico quei corsi che spesso si fanno in un master (le universita’ americane di solito prediligono studenti italiani con un master gia’ alle spalle). Il percorso totale sarebbe di 9 anni (un solo anno in piu’ di quanto avviene in America: ma teniamo presente che spesso gli americani che vanno dal college al Ph.D. abbandonano, oppure fanno un master prima di iniziare il Ph.D con possibilita’ di interrompere dopo 3 anni, dopo 5 anni o di continuare.

    La frontiera della ricerca accademica sono gli Stati Uniti. Perche’ copiare il modello inglese?

  4. Paolo

    Sono capitato per caso in questa discussione consultando il sito de lavoce.info, e intervengo perche’ sono un po’ confuso dai vostri discorsi. Il dottorato in Italia esiste da venti anni, esistono schiere di dottori di ricerca (ottimi) in tutte le discipline scientifiche mi fa un po’ sorridere il discorso che lo studente italiano non e’ tradizionalmente portato al dottorato!!!
    Signori le formule (3+2+3 , 1+3+2, ….) rivestono un importanza relativa, la cosa piu’ importante e’ il contenuto di questi anni formativi e la serieta’ con la quale vengono svolti.
    Alla serieta’ e completezza dei contenuti contribuisce anche una certa stabilita’ nella formula che non dovrebbe essere stravolta per la gloria di ogni Ministro che passa.

    Vi saluto cordialmente,
    Paolo Zuccon.

    PhD in Fisica.

  5. Jura

    L’articolo non affronta, e non fa nemmeno un accenno ad un vero problema delle Università Italiane – una diffusa corruzione. Già alla triennale il 90% di professori sono apatici, non motivi affatto ad insegnarti e a trasmetterti delle conoscenze vere (purché ne abbiano da trasmettere). Qua si parla di dottorati, ma con una base che fornisce le Università pubbliche italiane agli studenti, si potrebbe soltanto andare a lavorare in un call center (come infatti succede spesso).

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