A parte il picco post-svalutazione nel 1994-95, negli anni Novanta lItalia ha perso ininterrottamente quote commerciali. Mentre altri paesi che come noi hanno sempre fondato sulle esportazioni la crescita economica sono riusciti a mantenerle sostanzialmente invariate (la Francia) oppure le hanno addirittura incrementate (la Germania). La perdita di competitività dellItalia non è quindi interamente attribuibile alleuro forte. Gli elementi discriminanti sembrano risiedere nelle dinamiche dei prezzi domestici e della produttività dei fattori. L’Italia sembra il paese maggiormente colpito dall’apprezzamento del cambio. In realtà, l’euro forte ha solo messo in evidenza problemi strutturali di scarsa competitività del sistema italiano, che lo rendono più fragile rispetto ai partner europei. Non è tutta colpa dell’euro La perdita di competitività non è interamente attribuibile all’euro forte. Gli elementi discriminanti per la performance competitiva sembrano risiedere nelle diverse dinamiche dei prezzi domestici e della produttività dei fattori, piuttosto che nelle oscillazioni del cambio. Infatti, a parità di apprezzamento della valuta comune, una dinamica inflazionistica più elevata ha determinato in Italia un apprezzamento del cambio effettivo reale medio sul biennio 2002-2003 del 3,6 per cento contro il 2,5 per cento della Germania.
L’apprezzamento dell’euro nell’ultimo biennio ha riportato l’attenzione sul tema della competitività sui mercati stranieri, soprattutto per paesi come l’Italia e la Germania, la cui crescita economica è sempre dipesa strutturalmente da un contributo positivo del canale estero. A parte il picco post-svalutazione nel 1994-95, negli anni Novanta l’Italia ha perso ininterrottamente quote commerciali: secondo le ultime stime di Banca d’Italia, in termini reali, la quota italiana è scesa al 3 per cento nel 2003. Al contrario, tra i partner europei, la Francia è riuscita a mantenere sostanzialmente invariate le sue quote, mentre quelle tedesche sono addirittura cresciute.
Queste divergenze si sono accentuate nell’ultimo biennio: le esportazioni nette italiane nel biennio 2002-2003 hanno sottratto in media circa l’1 per cento alla crescita del Pil, mentre hanno supportato per circa lo 0,7 per cento quella del Pil tedesco.
Come mostrano i grafici, le differenze inflazionistiche rispecchiano fedelmente le diverse dinamiche del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup). La differenza cumulata di crescita del Clup dal 2001 a oggi tra Italia e Germania è di oltre quattro punti percentuali. La Banca d’Italia nell’ultimo Bollettino calcola che la crescita cumulata del Clup tra il 1995 e il 2003 nell’industria italiana è stata del 18,6 per cento, contro una media del 6 per cento nell’area euro. Tali divari sono imputabili non tanto alla dinamica salariale, quanto alle diverse performance di produttività, diminuita di oltre un punto percentuale in Italia a fronte del recupero marcato osservato in Germania, per un cumulato di oltre 3 per cento da inizio 2001. Una dinamica del costo del lavoro per prodotto più elevata fa perdere competitività sia sui mercati esteri sia su quelli domestici. Si riflette infatti su crescite dei prezzi praticati sui mercati stranieri dagli esportatori italiani molto più elevate rispetto ai concorrenti. I prezzi all’export italiani – misurati dal deflatore delle esportazioni (1) – dal 2001 a oggi sono aumentati, contro il calo attuato in Germania e Francia per compensare almeno in parte l’apprezzamento del cambio. D’altra parte, sul mercato interno, maggiori oneri portano a una crescita dei prezzi alla produzione (Ppi) più elevata che a sua volta rende i prodotti domestici meno competitivi rispetto a quelli importati. Nonostante il forte apprezzamento del cambio, infatti, i prezzi all’import in Italia – misurati dal deflatore delle importazioni – sono rimasti sostanzialmente invariati da inizio 2001, a fronte di forti spinte disinflazionistiche registrate in Francia e Germania. Quindi, a causa delle dinamiche di prezzo elevate sul mercato domestico, gli importatori in Italia riescono comunque a guadagnare quote di mercato senza necessariamente ridurre i prezzi applicati.
Debolezze strutturali
La competitività sui mercati stranieri è un elemento chiave per la crescita delle maggiori economie europee. L’apprezzamento del cambio dell’ultimo biennio non ha influito in eguale misura sui diversi paesi: dinamiche dei costi domestici più elevate hanno determinato una perdita netta di competitività dell’Italia rispetto ai partner francesi e soprattutto tedeschi sia sui mercati esteri sia su quelli domestici. La perdita di competitività dell’Italia è stata aggravata dall’apprezzamento della valuta, che ha messo in evidenza debolezze più strutturali dell’economia italiana, in particolare in termini di crescita della produttività. Date le scarse differenze in termini di potenziale di crescita della domanda interna, e non prevedendo una forte svalutazione dell’euro, queste debolezze potranno determinare nei prossimi anni una performance di crescita dell’Italia inferiore rispetto agli altri maggiori partner europei.
(1) Si riconosce che il deflatore non è propriamente un indice di prezzo, in quanto incorpora anche le variazioni nella composizione del paniere di beni e servizi esportati. Tuttavia, in quanto serie pubblicate da Eurostat, l’utilizzo dei deflatori garantisce una maggior comparabilità cross-country delle serie, rispetto all’utilizzo dei valori medi unitari come alternativa.
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