Esiste un nesso tra tsunami e cambiamenti climatici? Le opinioni sono contrapposte, la cautela è d’obbligo. Più interessante e utile è chiedersi se le conseguenze socio-economiche dei disastri naturali possano illuminare circa le conseguenze socio-economiche dei cambiamenti del clima. E lo tsunami offre una opportunità quale esperimento naturale per valutare le conseguenze nefaste dei mutamenti climatici. La chiave di lettura che proponiamo è che ripensare agli effetti dello tsunami è come vedere il film degli effetti del riscaldamento globale a velocità accelerata.

Lo tsunami che ha colpito il 26 dicembre dello scorso anno le regioni che si affacciano sull’Oceano indiano è stato da alcuni definito come il peggiore disastro naturale che il mondo abbia conosciuto nel corso della sua storia. Se giudicata sulla base delle vittime provocate, questa affermazione non risponde a verità. (1)
Pur tuttavia, l’estensione geografica e il numero dei paesi coinvolti, nonché l’attenzione dedicata da parte delle nazioni ricche (e la conseguente mobilitazione anche in termini di aiuti) hanno reso questo tsunami un evento speciale.

Esiste un nesso tra tsunami e cambiamenti del clima?

A pochi giorni dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto che fa il primo timido passo nella direzione di mitigare gli effetti perniciosi dei cambiamenti climatici, in piena emergenza inquinamento dell’aria, è forse lecito chiedersi se esiste un nesso tra tsunami e cambiamenti del clima. E magari azzardare una risposta.
Naturalmente non stiamo parlando dell’evento in sé, anche se non sono mancate fantasiose spiegazioni delle sue cause, come i test atomici sotterranei dell’India nello stesso oceano o addirittura quelli francesi al largo della Polinesia. Stiamo riferendoci invece alla possibilità che vi sia la mano e la responsabilità dell’uomo nell’intensificarsi di disastri naturali come lo tsunami.

Aumentano i disastri naturali

Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite, il 2004 è stato l’anno delle catastrofi. (2)
La stagione atlantica degli uragani del 2004 ne ha contati quindici, quando la media storica è di circa dieci. In agosto si sono verificate otto tempeste tropicali, un record assoluto. A partire dal 1995, queste tempeste sono costantemente aumentate di numero nel bacino atlantico, nove sono state classificate come uragani e sei come “major hurricanes”. L’uragano Charlie, sempre del 2004, è stato il più forte e distruttivo dopo Andrews del 1992. I nove uragani che hanno colpito gli Stati Uniti hanno causato danni stimati in 43 miliardi di dollari. Sebbene le condizioni climatiche nell’Atlantico meridionale non favoriscano l’insorgenza di questi eventi, l’uragano Catarina, che ha colpito la costa sud del Brasile nel marzo 2004, è stato il primo documentato in quella regione da quando i satelliti geostazionari hanno iniziato sistematiche rilevazioni, nel 1966. In Giappone lo scorso anno si è avuto un record di dieci tifoni con costi assicurativi per 7,5 miliardi di euro.

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E le opinioni si dividono

L’evidenza sta lì a dimostrare che la frequenza e l’intensità dei disastri naturali sono andate crescendo negli ultimi anni. Ma da qui a stabilire un legame di causa-effetto con i cambiamenti del clima causati dall’uomo ne passa. E gli esperti, ma anche i governi, si dividono. Tra i moderati, Lester Brown, fondatore del WorldWatch Institute, osserva che l’uomo è sicuramente responsabile dell’entità degli effetti delle calamità naturali. La distruzione delle foreste di mangrovie, l’inquinamento che ha indebolito le barriere coralline, l’erosione delle spiagge favorita dal dissesto idrogeologico, in generale la maggiore vulnerabilità delle coste hanno esacerbato le conseguenze dello tsunami. Secondo Martin Rees, docente di astrofisica al Trinity College di Cambridge, le catastrofi naturali si sono sempre susseguite a intervalli regolari, ma le conseguenze sono oggi più gravi perché avvengono in zone densamente popolate, con un bilancio peggiore in termini di vittime.
Altri sono più decisi: dal vice portavoce della Duma russa secondo un articolo in Novisti, a un gruppo di meteorologi cinesi, a Naomi Oreskes, professoressa di storia della università di California a San Diego, tutti sono pronti a stabilire una connessione tra alterazioni del clima e tsunami. (3) Persino Sir David King, consigliere scientifico del primo ministro inglese Tony Blair, legge nel disastro dello tsunami la minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici: “Alcuni degli effetti del riscaldamento globale, come accresciute inondazioni e uragani, sono già in atto”. “Una conseguenza di ciò è che dobbiamo prepararci di fronte a questi accresciuti impatti”, “l’altra è, naturalmente, che dobbiamo cambiare la nostra industria energetica, allontanandoci dai combustibili fossili”. Questa posizione ha provocato le ire degli americani, i quali – appoggiati da Australia e Canada e contro Unione europea, Stati delle piccole isole e Bangladesh – hanno fatto di tutto per eliminare qualsiasi riferimento ai cambiamenti climatici da discussione e documenti della conferenza delle Nazioni Unite sui disastri naturali svoltasi a Kobe il 18 gennaio scorso. Qualche giorno prima, a Mauritius, si era conclusa la conferenza internazionale degli Stati delle piccole isole con una perentoria richiesta di un sistema di allarme per la prevenzione di catastrofi come lo tsunami.

Ma ciò che conta sono gli impatti e le conseguenze socio-economiche

Più seriamente, ci si può interrogare sugli impatti dello tsunami, sui suoi costi, e – parallelamente – sugli impatti e costi del riscaldamento globale. La ricerca scientifica ci dice che il cambiamento del clima e la sua accresciuta variabilità comportano impatti ambientali: aumento del livello dei mari; alterazioni nella disponibilità e qualità dell’aria, acqua e del suolo; aumento degli eventi climatici estremi. Queste alterazioni del sistema ambientale attivano pressioni su quello socio-economico, che vede modificate le modalità di produzione e consumo attraverso cambiamenti nelle risorse idriche, nel suolo, nell’aria, negli stock di capitale e di lavoro e nella loro produttività. Gli stress provocati da quegli impatti interessano anche l’agricoltura e la sicurezza alimentare, gli ecosistemi terrestri e di acqua dolce, gli ecosistemi marini e le zone costiere, gli insediamenti umani, i flussi turistici, i sistemi e i consumi energetici, l’industria assicurativa e altri servizi finanziari, fino al più importante di tutti: la salute. (4)
Possiamo allora azzardarci ad assimilare lo tsunami asiatico dello scorso dicembre agli eventi estremi dovuti ai cambiamenti del clima. E possiamo stabilire un parallelismo tra gli impatti socio-economici del riscaldamento globale e gli effetti socio-economici di quel disastro naturale. Al di là dei costi economici che semplici calcoli già oggi consentono di quantificare e dell’impressionante numero di vite umane perdute, possiamo provare a fare un esercizio di immaginazione sulle altre possibili conseguenze, meno immediate e meno evidenti, dei disastri naturali. Un disastro come lo tsunami offre una propizia opportunità quale esperimento naturale per valutare le conseguenze nefaste dei cambiamenti del clima. Dopotutto, ed è questa la lettura che proponiamo, ripensare allo tsunami e a ciò che abbiamo visto in televisione è come inserire nel videoregistratore la cassetta del film sui cambiamenti climatici e premere il tasto dell’”avanti veloce”. Ognuno tragga le conseguenze che ritiene più giuste.

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(1) “Asia’s devastation”, The Economist, 29 dicembre 2004.

(2) World Meteorological Organization, Wmo Statement on the Status of the Global Climate in 2004, Wmo-No.718.

(3) I links a questi riferimenti si possono trovare nel blog di Mark Lynas, un freelance ambientalista, all’indirizzo www.marklynas.org/wind/bloggin/135.html. Perfino il World Council of Churches, un’organizzazione che riunisce 342 chiese nazionali in 120 paesi, per bocca del suo segretario generale reverendo Sam Kobia, sostiene che lo tsunami “è stato un chiaro avvertimento di ciò che il riscaldamento globale può fare al mondo”. Da qui la richiesta alle potenze che non hanno ratificato il protocollo di Kyoto di provvedere al più presto (www.ekklesia.co.uk/content/news_syndication/article_05012change.shtml).

(4) Il Third Assessment Report dell’Intergovermental Panel on Climate Change contiene un intero capitolo dedicato al tema degli impatti, adattamento e vulnerabilità. Vedi: www.ipcc.ch/pub/reports.htm.

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