Non c’è bisogno di un’ulteriore revisione del Trattato: è sufficiente sfruttare gli spazi di manovra offerti dalle regole esistenti. La Costituzione europea fissa i principi: non consente che i disavanzi aumentino o restino inalterati, ma lascia ampi margini di discrezionalità ai governi e al Consiglio. Alla Commissione spetta il compito di verificare il rispetto dei principi, alla luce degli standard applicativi. E perché la disciplina europea risulti effettiva, sono cruciali l’accuratezza e la omogeneità dei dati sui risultati conseguiti dai governi.

Nel dibattito sulla revisione della disciplina alla quale l’Unione europea ha assoggettato le politiche finanziarie degli Stati membri ci si chiede da più parti: a) se si debba rafforzare il ruolo della Commissione; b) se a tal fine occorra modificare il Trattato di Roma; c) se una modifica di questo tipo sia conciliabile con le proposte, avanzate da alcuni governanti europei, di basare il giudizio sui risultati conseguiti in sede nazionale a criteri di ordine qualitativo. Per rispondere ai quesiti, sono indispensabili alcuni richiami essenziali alla disciplina stabilita dal Trattato e all’applicazione che essa ha ricevuto.

La disciplina costituzionale e la prassi

L’adozione, in Europa, di una sola lex monetae ha annullato le differenze tra i diversi paesi. Tuttavia, ha esaltato le rimanenti diversità fiscali e di bilancio. Ha richiesto l’introduzione di vincoli, volti a prevenire una conduzione non oculata delle politiche finanziarie. Peraltro, il Trattato si limita a enunciare i principi secondo cui le condizioni delle finanze debbono essere sostenibili e, conseguentemente, vanno evitati i disavanzi eccessivi, a stabilire standard applicativi, a disporre che siano svolti controlli sul loro rispetto. Al di là di queste previsioni entra in giuoco il principio di sussidiarietà. I limiti disposti dal Trattato non annullano, perciò, le possibilità di manovra relative, poniamo, alla riduzione delle aliquote fiscali o delle spese correnti.
I risultati ottenuti da questa disciplina costituzionale sono di indubbio rilievo. Essa ha evitato – nel senso indicato da Luigi Einaudi – che i governanti facessero “gemere il torchio” per stampare banconote volte a finanziare i propri disavanzi. Ha fornito ai paesi più indebitati una legittimazione esterna, indispensabile per proteggere i governi contro le pressioni a spendere che provengono dalle proprie maggioranze, per vincere l’opposizione delle forze sociali ed economiche avverse alle politiche di riduzione del disavanzo e del debito.  Su questa disciplina si è però innestata una prassi in cui l’inopportunità di alcune scelte è degradata in vere e proprie anomalie. Il Consiglio dei ministri ha aderito all’irragionevole richiesta tedesca di irrigidire, con il Patto di Stabilità e crescita, i parametri quantitativi, nel senso del pareggio o dell’attivo di bilancio. Ha censurato le politiche fiscali irlandesi perché suscettibili di generare inflazione, ma si è astenuto dal farlo nei confronti dei persistenti disavanzi francesi.
Dal canto suo, la Commissione ha espresso riserve sull’adeguatezza del Patto, ma senza indicare i correttivi. Si è atteggiata a vestale dei conti pubblici, facendo della differenza dello 0,2 per cento nel rapporto tra il deficit e il Pil tedesco una sorta di linea Maginot, ma non è riuscita a ottenere il consenso di un numero sufficiente di governi. Non ha ottenuto adesioni, nella recente conferenza intergovernativa, neppure l’ipotesi di modificare il riparto di attribuzioni stabilito dal Trattato di Maastricht, per rafforzare i poteri della Commissione.

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Le risposte ai quesiti

La risposta ai primi due quesiti è perciò relativamente agevole. Per rafforzare il ruolo della Commissione occorre certamente modificare le norme costituzionali. Peraltro, allo stato attuale, non vi è il consenso dei governi nazionali, che è indispensabile per realizzare una revisione costituzionale. Ciò non comporta, ad ogni modo, che i governanti i quali propugnano una revisione degli standard in senso maggiormente discrezionale abbiano buon gioco nell’ottenerla. Non è detto che la Commissione si pieghi nuovamente, recependo questa richiesta nelle proposte che sta mettendo a punto. Non è detto neppure che i governi raggiungano una posizione unanime in tal senso, anzi vi sono indizi di segno opposto. Non è da escludere neppure che i mercati puniscano scelte percepite come lassiste, con un ulteriore downgrading del debito degli Stati più esposti, come è accaduto anche recentemente.
Quid agendum, allora? Primo, la Costituzione europea fissa i principi e le linee che le istituzioni sono chiamate a seguire: non consente che i disavanzi aumentino o restino inalterati, ma lascia ampi margini di discrezionalità. Non a caso, mentre gli standard qualitativi (come la riduzione costante e progressiva del debito) sono enunciati dal Trattato, quelli quantitativi sono precisati dall’apposito protocollo. La normazione applicativa deve confermare, non contrastare, quei principi e quelle linee; non deve restringere la discrezionalità dei governi e del Consiglio, cui spetta la decisione politica di ultima istanza.
Secondo, spetta alla Commissione, invece, il compito di verificare il rispetto dei principi, alla luce degli standard applicativi, di sollecitarlo, se del caso. Lo faccia, avvalendosi del potere, che il Trattato le conferisce, di tenere “conto anche dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per investimenti” (articolo 104, comma 3), dopo aver stabilito una netta distinzione tra queste spese e quelle correnti.
Terzo, una volta imperniato il sistema sulla stabilità, sono cruciali l’accuratezza e la omogeneità dei dati circa i risultati conseguiti dai governi, sia affinché la disciplina europea risulti effettiva, sia per il corretto dispiegarsi della pressione che gli operatori finanziari, le forze del mercato sono in grado di esercitare sui governi. Questi non possono, perciò, avere il dominio dei dati. Occorre applicare anche in questo ambito la tecnica legislativa utilizzata per le comunicazioni elettroniche, stabilendo in sede comunitaria l’assetto organizzativo e il funzionamento degli uffici pubblici (debt boards) deputati alla raccolta e all’elaborazione dei dati.
In definitiva, non c’è bisogno di un’ulteriore revisione del Trattato: è sufficiente sfruttare gli spazi di manovra offerti dalle regole esistenti.

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