Lavoce.info

Una voce europea

Se in Europa la ricerca non riesce a colmare il divario con gli Stati Uniti è perché manca una vera concorrenza fra atenei per assicurarsi i professori e gli studenti più bravi. Rifacendosi al processo di Lisbona, le istituzioni europee dovrebbero favorire questo cambiamento di mentalità. E lasciare da parte i troppo burocratizzati programmi attuali, che finiscono per finanziare ricerche e ricercatori di secondo piano. Ma è soprattutto da iniziative decentralizzate e cooperative come lavoce.info e il Cepr che possono venire i risultati migliori.

Una voce europea

Lavoce.info è nata nel 2002, tre anni fa. Il Centre for Economic Policy Research ha iniziato la sua attività diciannove anni prima. lavoce.info ha avuto un impatto tangibile sul dibattito economico-politico in Italia. Il Cepr ha significativamente migliorato il clima della ricerca economica in Europa. E tuttavia, possiamo ragionevolmente chiederci se la politica economica italiana è oggi migliore di tre anni fa, o se la ricerca economica europea ha colmato quel divario con gli Stati Uniti, divenuto evidente dalla metà degli anni Ottanta. (1)

Lo stato dell’arte

Venticinque anni fa, nel Regno Unito esisteva un buon numero di ottimi dipartimenti di economia e nell’Europa continentale c’erano alcuni centri di ricerca di livello internazionale (per esempio, il Core di Louvain e l’Iies di Stoccolma). Il Cepr ha introdotto un nuovo modello di network che ha portato i migliori economisti a collaborare in programmi di ricerca, conferenze e seminari. Si è così sviluppata una comunità di ricercatori, che ha anche facilitato l’avvio di alcuni nuovi centri di ricerca (Igier alla Bocconi, Ecares alla libera università di Bruxelles) o la nascita di altri come Delta a Parigi, Idei a Tolosa, Tilburg, Crei alla Pompeu Fabra. Si sono formati anche nuovi network (Iza e Cesifo, per esempio) e altre organizzazioni come la Fondazione Rodolfo Debenedetti che promuovono ricerca orientata all’attività di policy. La European Economic Association dà un senso di identità ai ricercatori europei e il nuovo Journal of the European Economic Association ha rapidamente acquistato un’ottima reputazione. Tutto ciò è stato senza dubbio positivo. Ma ancora oggi, per il dottorato, mandiamo negli Stati Uniti la maggior parte dei nostri studenti migliori. E i più bravi fra loro lì restano, almeno per i primi incarichi. Mentre non si intravede alcun segno di un possibile flusso inverso, di americani verso l’Europa. Intanto, anche per i migliori Phd europei trovare un lavoro nei dipartimenti di economia di alto livello degli Stati Uniti sembra oggi ancora più difficile rispetto a dieci anni fa.
L’importanza relativa della ricerca empirica in Europa è aumentata, ma c’è maggior conflitto tra gli incentivi accademici e rilevanza per la policy. L’obiettivo principale dei giovani ricercatori oggi è pubblicare sulle riviste più prestigiose: è un bene per gli standard e per il futuro a lungo termine della ricerca economica in Europa. Ma questo li rende poco propensi a occuparsi di temi che non li pongono sulla frontiera della ricerca, almeno finché non ottengono la cattedra o posizioni simili. Perfino alcuni ricercatori già affermati sono adesso meno inclini a svolgere ricerca orientata a temi di policy. E ciononostante, la presenza degli europei sulle riviste internazionali più prestigiose non è ancora cresciuta in modo rilevante.

L’università senza competizione

L’ostacolo principale al progresso è la scarsa competizione nella vita accademica europea.
Nel Regno Unito il Research Assessment Exercise ha introdotto la concorrenza fra università per quanto riguarda i ricercatori, perché l’attività di ricerca così come misurata dall’autorità centrale è diventata il criterio principale per l’assegnazione dei fondi. Ma è un intervento imposto dall’alto. Benché abbia generato un mercato per i ricercatori, sono ancora molte le limitazioni agli incentivi che le università possono offrire. I salari sono fissati su base nazionale e gli atenei hanno poco spazio per finanziarsi autonomamente, né esiste un “mercato” degli studenti.
Nell’Europa continentale la situazione è di gran lunga peggiore: assegnazione di fondi strettamente centralizzata, nessuna traccia di mercato o concorrenza né fra ricercatori né fra studenti; alto grado di localismo nel reclutamento di entrambi; stipendi spesso pietosamente bassi e poca flessibilità; scarsa mobilità tra istituzioni e ancor meno con l’estero, nonostante i molti programmi dell’Unione Europea per la ricerca che finanziano gli scambi tra paesi.
Anzi, questi programmi dell’Unione Europea rappresentano più un sintomo del problema – la mancanza di mercato nell’accademia – che una sua soluzione. E, di nuovo, sono imposti dall’alto. Le procedure per la definizione dei programmi e dei loro contenuti, la nomina dei comitati, la burocrazia che li circonda, ruotano intorno al comune denominatore di più basso livello, dettato in parte da considerazioni politiche, distribuzione geografica e altri criteri non scientifici. Il confronto con la National Science Foundation degli Stati Uniti è decisamente sfavorevole per l’Europa. E mettere più soldi nei Programmi quadro non sarà di nessun aiuto, se il denaro continua ad andare spesso a ricerche e ricercatori di secondo piano, la cui principale abilità è la ricerca di rendite. Inoltre, i programmi dell’Unione non hanno nessun vero impatto sulle strutture sottostanti che impediscono lo sviluppo di centri di eccellenza, bloccano gli incentivi e rendono politicamente inaccettabile una differenziazione tra le istituzioni, i titoli di studio che assegnano e i loro standard. Persino le istituzioni che pretendono di collocarsi su livelli internazionali, non hanno pratiche di reclutamento aperte e rigorose come quelle delle buone università americane.
L’Europa non ha nessun dipartimento di economia fra i primi dieci o quindici al mondo, ma ha due business school (London Business School e Insead) in grado di competere con le migliori degli Stati Uniti. La ragione è semplice: le business school si collocano prevalentemente nel settore privato e sono perciò indipendenti dai sistemi statali. Non sono ricche come le loro controparti americane, ma pagano stipendi determinati dal mercato e sanno di dover competere per sopravvivere. Il reclutamento di professori e studenti è internazionale, per standard e per provenienza geografica. Crescono perché si differenziano, “danno il loro marchio” ai loro programmi. Hanno generato negli ex studenti un qualche orgoglio di appartenenza, che permette di raccogliere più fondi e di diffondere ancor di più la reputazione.

Leggi anche:  Incentivi per investimenti: chi li usa e chi dovrebbe usarli*

Lisbona e l’accademia

Le autorità europee sono da tempo alla ricerca di un “ruolo per l’Europa”, cioè un ruolo per le sue istituzioni più ampio e al di sopra di quello a cui possono aspirare i singoli Stati membri.  Ma non si rendono conto che c’è un problema di coordinamento. Se il centro non esercita pressioni e non c’è la consapevolezza che anche gli altrui dovranno fare lo stesso, per il singolo Stato può essere politicamente impossibile muoversi in direzione del mercato. D’altra parte, questo è esattamente ciò che è previsto nel processo di Lisbona per la promozione del mercato unico. Perché non possiamo trasportarlo anche nel contesto accademico? Proprio come abbiamo bisogno che nasca spontanea una “European Voice” per generalizzare i risultati raggiunti dal Cepr e da lavoce.info, che sono il frutto di iniziative decentralizzate e cooperative, abbiamo anche bisogno di creare le condizioni perché tali iniziative si sviluppino in tutta la vita accademica europea.

(1) “Economics in Europe”, European Economic Review 31, agosto 1987, 1329-1340.

An European Voice, la versione in inglese

Lavoce.info began in 2002, three years ago. The Centre for Economic Policy Research started operations 19 years before that. lavoce.info has had an identifiable impact on economic policy discussion in Italy. CEPR has significantly improved the environment for economic research in Europe. Yet we may reasonably ask whether economic policy in Italy is better than three years ago, whether economic research in Europe has closed any of the gap with the United States that we identified in the mid-1980s. (1)
Twenty-five years ago, there were several good economics departments in the UK and a few research centres on the Continent that had international standards (e.g., CORE [Louvain] and IIES [Stockholm]). CEPR introduced a new network model that brought together selected European economists in research programmes, conferences and workshops. It developed a community of researchers. It also supported some new research centres – IGIER (Bocconi), ECARES (Université Libre de Bruxelles) – and others arose, like DELTA (Paris), IDEI (Toulouse), Tilburg, CREI (Pompeu Fabra)… New networks, too, have been formed – IZA and CESifo, for example, and there are other new organizations like the Fondazione Rodolfo Debenedetti that foster policy-relevant research. The European Economic Association gives some sense of identity to European researchers, and the new Journal of the European Economic Association has quickly established a high reputation.
All this has been positive, no doubt. But we still send most of our best students to the United States for doctoral work, and most of the best of these stay there at least for their first jobs. Nor is there any evidence of a greater eventual flow back to Europe. And it seems even harder now than a decade ago to get the best European PhDs jobs in good American economics departments.
There has been some rise in the relative importance of empirical research in Europe, but there is greater tension now between academic incentives and policy relevance. Young researchers are now more focused on publications in top journals. That is good for standards and for the long-run future of economics in Europe, but it does make them reluctant to put effort into activities that will not generate frontier research papers, at least until they acquire tenure or comparable senior status. And even some senior researchers are less inclined to let some part of their research be driven by policy issues. Nevertheless, European presence in the top economics journals has not yet expanded noticeably. The key obstacle to progress is the inadequate competition in European academic life. The UK’s Research Assessment Exercise has introduced competition among universities for researchers, because research performance as rated by a central body is now a major determinant of university funding. But this has come from the top down. Although it generates a market for researchers, the universities are still severely constrained in the incentives they can offer. There are national salary scales, and universities have little scope for independent fund-raising, nor is there a market for students. On the Continent, the situation is considerably worse: highly centralized funding; hardly any markets or competition, either for researchers or for students; a high degree of localism in recruitment of both; often pitifully low salaries, with little flexibility; little mobility across institutions, even less across borders, despite many EU programmes that fund cross-border research exchanges.
Those EU programmes are more a symptom of the underlying problem, the lack of academic markets, than a solution to it. Again, they are top-down. The procedures for defining the programmes and their content, the selection committees, the bureaucracy that runs them all gravitate to a lowest common denominator, dictated partly by political considerations, geographical distribution, and non-scientific criteria. A comparison with the US National Science Foundation is deeply unfavourable to Europe. Putting more money into the Framework Programmes will not help at all if much of it continues to go often to second-rate research and researchers whose main skills are in rent-seeking.
Moreover, the EU programmes have no real impact on the underlying structures that impede the development of centres of excellence, that block incentives, that make it politically unacceptable to differentiate among institutions, their degrees, and their standards. Even institutions that have pretensions to international status do not have recruitment practices that are open and rigorous like those of the good American universities. Europe has no economics departments in the international top 10, perhaps even top 15, but it does have two business schools (London Business School and Insead) that compete with the best in the US. The reason is simple: the business schools are essentially in the private sector and independent of the state systems. They do not have the wealth of their American counterparts, but they do pay market-determined salaries, and they know they must compete in order to survive. Their recruitment is completely international, in coverage and in standards, both for faculty and for students. They thrive on differentiation, on ‘branding’ their programmes. They have developed some degree of institutional loyalty among their former students, which helps in funding and more broadly in the spread of reputation.
At the European level, the authorities search for a ‘European role’ – i.e., a role for European institutions over and above what member states could provide. But they do not recognize that there is a coordination failure. Any given member state might find it politically impossible to move in direction of the market unless there were pressure from the centre and understanding that others were having to do the same. This is, however, precisely the Lisbon process. Why can we not have it in the academic context as well as in more traditional single market domain? Just as we need a spontaneous European Voice to generalize the achievements of CEPR and lavoce.info, which have come from decentralized and cooperative initiatives, so we need to create the conditions for such initiatives throughout European academic life.

Leggi anche:  Il dilemma delle politiche di coesione *

(1) “Economics in Europe”, European Economic Review, 31 (August 1987), 1329-1340.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Quali sono i lavori minacciati dalle tecnologie digitali?

Precedente

Han detto di noi

Successivo

Quel nido di vipere

  1. John DeFayette

    L’università italiana si sveglierà mai? Scommetto che entro cinque anni l’Europa “vecchia” sarà in guerra con i nuovi arrivati del est perché le università di questi ultimi cominceranno a portare via gli studenti migliori. Avremo i dottorati migliori del continenti in Polonia, Repubblica Ceca ed Ungheria, e loro competeranno con gli Stati Uniti in materie non tecnologiche (matematica, economia, ecc.).

    Non temiamo la concorrenza–nutriamola!

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén