Quali sono le prospettive di finanziamento della ricerca economica in Europa? Non troppo rosee, soprattutto se confrontate con l’esperienza americana. Per migliorare la situazione, gli economisti europei dovrebbero diventare migliori “politici”. Dovrebbero imparare a suscitare interesse e apprezzamento da parte di un pubblico ampio e a utilizzare i mezzi di informazione e le tecniche di comunicazione. Soprattutto, dovrebbero riuscire a sollecitare quella amplissima domanda, pubblica e privata, di conoscenza dei fatti economici che è in gran parte ancora latente.

Il dibattito che si è svolto ad agosto nell’ambito della conferenza annuale della European Economic Association è stato un’occasione di confronto sulle prospettive di finanziamento della ricerca economica in Europa.

L’esperienza dell’americana Nsf

Organizzato da Richard Blundell, un pioniere della microeconometria che le università americane invidiano alla University College e all’Institute of Fiscal Studies di Londra, e moderato da Ramon Marimon della Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, il dibattito si è aperto con la testimonianza di Dan Newlon, direttore dell’area economica della National Science Foundation (Nsf), l’agenzia creata nel 1950 dal Congresso americano che eroga circa il 20 per cento dei fondi federali destinati alla ricerca scientifica negli Usa.
Del suo budget annuale di circa 5,5 miliardi di dollari, la Nsf dedica alla ricerca economica 22 milioni di dollari l’anno. Lo stesso Newlon ammette che lo stanziamento può apparire esiguo rispetto, ad esempio, agli 89 milioni di dollari destinati alle ricerche nel campo della matematica, tanto che un maggiore investimento nella ricerca economica figura tra le priorità dell’agenzia per i prossimi anni. Tuttavia, Newlon sottolinea come siano motivo di orgoglio soprattutto gli indicatori di qualità e di efficacia della spesa: l’area economica, infatti, è quella in cui la Nsf può vantare uno dei più alti ritorni in termini di impatto delle pubblicazioni, e persino di premi Nobel assegnati ai destinatari dei suoi fondi.
La ragione, secondo Newlon, sta soprattutto nel criterio di selezione delle ricerche economiche da finanziare, basata esclusivamente sull’eccellenza: un panel di valutatori indipendenti, con un curriculum di altissimo profilo e un’età mediana di 39 anni, seleziona i temi più promettenti e ha spesso (sebbene non sempre, come ammette Newlon) l’autorità sufficiente a respingere richieste di finanziamento inoltrate, quasi per inerzia, da vecchie glorie dell’accademia. La sfida principale per gli anni futuri sarà di favorire, anche in campo economico, l’emergere, accanto ai progetti individuali, di reti e gruppi di ricercatori.
In effetti, sostiene Philippe Aghion di Harvard, quando si parla di investimenti in ricerca, gli economisti sono necessari non solo per studiare l’impatto economico delle spese in educazione e ricerca, ma anche perché sanno offrire utili analisi degli incentivi nelle organizzazioni.
Sono ad esempio tre i tratti caratteristici che hanno fatto della Nsf un modello di successo per il finanziamento della ricerca. Il primo è l’approccio bottom-up, secondo cui l’agenzia finanzia progetti che nascono spontaneamente dai ricercatori. Il secondo è appunto la valutazione dei progetti, sulla esclusiva base dell’eccellenza, da parte di valutatori indipendenti di indiscusso merito. Il terzo, è infine l’efficacia della valutazione ex-post.
Per Aghion è facile ironizzare sullo stridente contrasto con i criteri tipicamente adottati dalle agenzie europee nell’assegnazione dei fondi comunitari. Anzichè bottom-up, un approccio top-down secondo cui gli obiettivi quadro e le priorità sono già prefissate, peraltro secondo logiche più consone alla burocrazia o alla politica che all’evoluzione della ricerca. In luogo della pura eccellenza, un coacervo di criteri oscuri, tra cui tipicamente la composizione geografica del gruppo di ricerca e la multidisciplinarità metodologica. Infine, la quasi assenza di una valutazione ex-post che non sia solo volontaria e puramente formale.
Aghion non manca di criticare uno a uno tutti e tre i criteri di selezione, almeno per quanto riguarda la ricerca economica. Gli unici motivi, infatti, per preferire un approccio top-down potrebbero risiedere o nell’esistenza di costi fissi o nell’intento di scoraggiare la ricerca astratta priva di aderenza alla realtà, ambedue rischi che dovrebbero essere ingiustificati nel caso della ricerca economica. Anche la multidisciplinarità sembra criterio distorsivo e ridondante, dal momento che è la stessa ricerca a evolvere spontaneamente in direzione di altri campi scientifici: esemplare è il caso dei numerosi economisti sperimentali, anche europei, che già collaborano strettamente con psicologi, antropologi o neuroscienziati, e pubblicano su riviste come Science o Nature.

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E la situazione in Europa

A riguardo, Andrè Sapir, dell’Universitè Libre de Bruxelles, co-autore del famoso omonimo rapporto sull’evoluzione dell’economia e della finanza pubblica europea della Commissione europea, ha offerto un’ennesima impietosa disamina della situazione europea. È ben noto che, mentre il 45 per cento del budget dell’Unione Europea è impiegato nella politica agricola comune, solo il 5 per cento è destinato alla ricerca, tanto quanto per le spese amministrative di tutte le istituzioni europee. Sapir ricorda come la posizione condivisa degli economisti, secondo cui una politica economica europea a livello “federale” sia giustificabile almeno per i due obiettivi prioritari di redistribuzione regionale e di erogazione di beni pubblici europei, come, appunto, la ricerca, si scontri con il processo secondo cui si amministra nella realtà il budget europeo, frutto del precario equilibrio di complesse negoziazioni tra interessi divergenti di regioni, settori, lobby.
Non stupisce allora che quando i consulenti economici suggerirono di razionalizzare drasticamente il budget dell’Unione per renderlo efficace, la Commissione europea fece capire che troppi erano gli interessi contrapposti, tanto forti da rendere impossibile una riorganizzazione, anche se minima, delle risorse già esistenti: piuttosto, si poteva pensare a spendere in modo razionale ed efficace quelle risorse addizionali che la Commissione europea intendeva chiedere al Consiglio.
Il resto è storia recente, con i paesi contribuenti netti del bilancio comunitario, Regno Unito, Olanda e Germania non solo contrari a qualsiasi incremento, ma addirittura a reclamare un’ulteriore riduzione dall’1,26 all’1,04 per cento del Pil europeo. Naturale che a farne le spese sia stata proprio la ricerca, dove non solo le pressioni nazionali e corporative sono più deboli, ma dove spesso si sospettano annidarsi sprechi e distrazioni.
Spetta allora a Mathias Dewatripont, dell’Universitè Libre de Bruxelles, e presidente della European Economic Association, spezzare una lancia a favore della ricerca europea, ricordando la recentissima istituzione del European Research Council (Erc), nel cui board per le scienze sociali siede lo stesso Dewatripont, in compagnia del sociologo delle reti Manuel Castells, di Salvatore Settis, storico dell’arte direttore della Normale di Pisa, del sinologo francese Alain Peyraube, direttore del Cnrs e del Ehess, e della sociologa austriaca Helga Nowotny (i nomi di tutti i membri del Council sono sul sito http://www.crui.it/7pq/link/?ID=2348).
Anche Andreu Mas-Colell, tra i fondatori dell’Universitat Pompeu Fabra e a lungo responsabile della ricerca e università per la Generalitat de Catalunya, sottolinea la straordinaria potenzialità del neonato e tanto atteso European Research Council. È vero che nasce con un finanziamento di circa 1,5 miliardi di euro che sfigura rispetto alla dotazione della Nsf, il suo modello dichiarato d’oltreoceano. I fondi, tuttavia, non solo sono destinati ad aumentare nei prossimi anni, ma soprattutto sono un ottimo punto di partenza se gestiti in modo razionale ed efficace. La ricetta per il successo dell’Erc, per Mas-Colell è semplice: basta solo copiare in tutto e per tutto la Nsf.
Se i fondi europei fossero distribuiti tra le varie discipline secondo le stesse proporzioni dell’agenzia federale americana, agli economisti spetterebbero quasi 6 milioni di euro all’anno. Tuttavia, come sottolineato da Mas-Colell, la ricerca economica soffre di un peculiare problema di immagine.

Da un lato, gli scienziati naturali spesso sottovalutano lo stretto rigore metodologico, l’esteso utilizzo dei più sofisticati strumenti di analisi quantitativa, matematica e statistica, l’approccio genuinamente empirico e l’impatto macroscopico della ricerca economica contemporanea.
Dall’altra, gli economisti europei devono imparare a diventare migliori politici. Non tanto nel senso di tendere a esprimere compattamente la loro opinione sui temi caldi di politica economica, il che risulta spesso impossibile per le inevitabili divergenze di opinione scientifiche, ma soprattutto culturali e politiche. Piuttosto nell’imparare l’arte di suscitare interesse e apprezzamento da parte di un pubblico ampio e non tecnico, di utilizzare sapientemente i mezzi di informazione e le tecniche di comunicazione e, di riuscire a sollecitare quella amplissima domanda, pubblica e privata, di conoscenza dei fatti economici che è in gran parte ancora latente.

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