Alcuni dei rischi paventati dagli oppositori alla direttiva sono reali. Però, negli emendamenti proposti il principio del paese di origine è depotenziato radicalmente, privandolo di qualsiasi capacità di liberalizzazione dei mercati nazionali dei servizi. Mentre l’accordo tra popolari e socialisti europei addirittura lo cancella, sostituendolo con una nuova formulazione che si presta a due letture opposte. L’effettiva portata di una direttiva di tale rilevanza sarebbe alla fine affidata alla incensurabile interpretazione della Corte di giustizia.

Il 16 febbraio il Parlamento europeo è chiamato a esprimersi sulla proposta di direttiva di regolazione della prestazione dei servizi, ormai nota alle cronache come direttiva Bolkestein.

L’obiettivo della direttiva

Un’indagine della Commissione, conclusasi nel 2002, ha rilevato che, sebbene oggi la fornitura di servizi abbia un’importanza assolutamente primaria nel mercato europeo (70 per cento del Pil), il volume dei servizi cosiddetti “transfrontalieri” è ancora sensibilmente più contenuto di quello dei beni materiali scambiati tra i diversi Stati dell’Unione.
Il rapporto ha ravvisato nella persistenza di un’ampia differenziazione delle discipline giuridiche nazionali la principale barriera all’effettiva circolazione dei servizi nel mercato unico. Con l’eccezione di settori specifici armonizzati, il diritto comunitario garantisce infatti che le imprese stabilite in uno Stato membro (Home State) possano accedere al mercato di un diverso Stato membro (Host State) e prestarvi servizi in condizioni di parità di trattamento con le imprese “nazionali”, ma debbono comunque osservare la disciplina legale dettata dallo Stato ospitante, salvo le ipotesi in cui quest’ultima imponga una mera duplicazione di adempimenti rispetto a quelli previsti dal loro Stato di origine (principio del mutuo riconoscimento).
La proposta di direttiva avanzata dalla Commissione detta alcune disposizioni volte a razionalizzare e semplificare le procedure per lo stabilimento di un’impresa di servizi in uno Stato membro, ma la riforma più rilevante, e che fa maggiormente discutere, interessa gli scambi di servizi “transfrontalieri” con l’intento di abbattere o comprimere quanto più possibile l’effetto restrittivo/ostativo prodotto dalla barriera normativa.

Dal mutuo riconoscimento al principio del paese di origine

Nel testo proposto dalla Commissione la via prescelta per raggiungere quest’obiettivo è quella di elevare a diritto fondante della libertà di circolazione dei servizi nel mercato interno il principio del paese d’origine: ogni impresa dovrebbe esser legittimata a offrire servizi nei territori di tutti gli Stati membri alle medesime condizioni – di accesso e di esercizio – dettate dalla legislazione del paese in cui è stabilita e gli Stati membri ospitanti non potrebbero imporle il rispetto della loro regolazione nazionale (articolo16). La deroga all’applicazione del principio del paese di origine sarebbe prevista esclusivamente per quei servizi che nello Stato ospitante sono oggetto di un “divieto totale” o sono condizionati al possesso di “requisiti specifici” giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di salute pubblica (articolo 17).
È opportuno precisare che il principio del paese di origine troverebbe applicazione non già nel caso in cui un’impresa Unione Europea decida di prestare servizi in modo permanente e continuativo nel territorio di uno Stato membro, ma soltanto nel caso di fornitura di servizi “transfrontalieri”, cioè realizzati in uno Stato membro e forniti a un consumatore in un diverso Stato membro (Home base services) oppure realizzati direttamente nello Stato in cui risiede il consumatore inviando in loco dei dipendenti dell’impresa fornitrice solo per il tempo strettamente necessario alla prestazione del servizio (Local operation services). È pur vero che non è semplice distinguere in concreto l’ipotesi in cui l’impresa si avvalga del “diritto di stabilimento” in uno Stato membro da quella in cui si limiti a esercitare in via temporanea la fornitura di servizi in virtù della “libertà di circolazione”. Il diritto comunitario non detta un discrimine temporale; né la direttiva colmerebbe questa carenza. La giurisprudenza della Corte di giustizia, non senza incertezze, qualifica come esercizio della libertà di circolazione qualsiasi attività di servizio destinata ad avere necessariamente un termine prevedibile, indipendentemente da quello necessario per la prestazione del servizio. (1) La Corte ha inoltre affermato che l’apertura di una mera sede di rappresentanza volta alla promozione dell’impresa e all’informazione alla clientela non comporta l’esercizio del diritto di stabilimento, ma della sola libertà di circolazione. (2)

Chi è pro e chi è contro. E perché

La Commissione Barroso ha fatto integralmente propria la proposta di direttiva e si sta apertamente spendendo per la sua approvazione. Anche i nuovi dieci Stati membri vedono con favore la sua approvazione. Vi è stata, invece, una levata di scudi contro di essa nei vecchi Stati membri, con la significativa eccezione della Gran Bretagna. In particolare, si sono mobilitati i gestori (pubblici o concessionari privati) di servizi pubblici, le imprese oligopoliste in quei mercati di servizi formalmente libero-concorrenziali ma il cui accesso è tutt’oggi condizionato ad autorizzazioni di Autorità pubbliche nazionali, e le principali organizzazioni sindacali, soprattutto quelle rappresentative degli edili.
accusa mossa alla direttiva Bolkestein è di innescare un processo di progressiva concorrenza in senso deregolativo tra tutti gli ordinamenti nazionali; realizzando sì un’armonizzazione, ma solo in negativo. I nuovi Stati membri sarebbero indotti a colmare i gap di competitività nel mercato unico attraendo le imprese europee con l’offerta di una regolazione di maggior favore. E le imprese potrebbero avvalersene per continuare a fornire dal nuovo Stato di stabilimento servizi sia home base sia ricorrendo al distacco di lavoratori negli altri Stati membri (cosiddetto posting). A loro volta, questi ultimi non potrebbero trattenere le imprese nazionali se non adeguando il loro ordinamento giuridico agli standard più bassi, avviando così un’inevitabile gara al ribasso.

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Il timore di liberalizzazioni selvagge

Il processo deregolativo avrebbe inevitabilmente anche un effetto di liberalizzazione dei mercati nazionali dei servizi il cui accesso è ancora condizionato a procedure di concessione o di autorizzazione. Il principio del paese di origine, infatti, troverebbe applicazione a “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 50 del Trattato che consiste nel fornire una prestazione dietro un corrispettivo economico” (articolo 4). La direttiva esclude dal suo ambito di applicazione soltanto i “servizi di interesse generale” (Sig) che non hanno carattere economico, ma non anche i “servizi economici di interesse generale” (Sieg), cioè quelli che pur avendo natura economica possono essere sottratti dallo Stato (in modo parziale o totale) al libero mercato a norma dell’articolo 86 comma 2 Tce, laddove sussista un interesse pubblico che non possa esser soddisfatto altrimenti o in modo parimenti efficace dal libero mercato. Al di fuori di alcuni settori espressamente esclusi (servizi postali, distribuzione di gas, elettricità, acqua, sanità), la direttiva esporrebbe alla concorrenza delle imprese stabilite in Stati membri in cui quegli stessi servizi sono invece lasciati al libero mercato. Queste imprese potrebbero legittimamente offrire tali servizi ovunque nel mercato dell’Unione alle medesime condizioni applicate dal paese d’origine.
Ben si comprende quindi l’apprensione di monopolisti pubblici e oligopolisti privati.

Il timore di dumping sociale

Le organizzazioni sindacali dei vecchi Stati continentali sono invece preoccupate che i rilevanti differenziali del costo del lavoro e delle rigidità normative rispetto a molti dei nuovi Stati membri (in particolare Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia e Repubblica Slovacca) possano porre a rischio i posti dei lavoratori nazionali, o quantomeno, le attuali condizioni di lavoro loro praticate. Le imprese potrebbero infatti esser indotte a preservare la loro competitività praticando trattamenti inferiori,o qualora ciò non sia consentito dalla contrattazione collettiva o dalla legge nazionale, potrebbero stabilirsi esse stesse in quei paesi, al fine di avvalersi della disciplina giuridica più favorevole e prestare servizi in tutto il mercato interno distaccandovi lavoratori (cosiddetti posted workers). Ciò potrebbe accadere mediante un reale trasferimento della sede legale e operativa, oppure in modo “fraudolento”, aprendo una letterbox company per eleggervi soltanto la sede legale.
La direttiva prevede un’esclusione piuttosto ampia, ma certamente non completa, del diritto nazionale del lavoro dall’ambito di applicazione del principio del paese di origine. Sono escluse le “materie disciplinate dalla direttiva 96/71/Ce” (articolo 17) e cioè la regolazione nazionale (dettata dalla legge o da contratti collettivi con efficacia erga omnes) delle retribuzioni minime, dell’orario di lavoro, delle ferie retribuite, della somministrazione di lavoro, della sicurezza, salute e igiene sul lavoro, delle condizioni di lavoro gestanti o puerpere, bambini e giovani, nonché le condizioni di non discriminazione tra lavoratori. (3) Rimarrebbero quindi soggetti al principio del paese di origine il diritto di sciopero, gli oneri previdenziali, le condizioni di assunzione e di licenziamento, nonché le rispettive tutele giudiziali (reintegra e risarcimento), per citare gli istituti più significativi.
Infine, la direttiva vieterebbe allo Stato ospitante di imporre all’impresa straniera qualsiasi obbligo sia di notificazione preventiva, sia di conservazione presso la sede operativa di documenti comprovanti le condizioni applicate ai lavoratori, sia di redazione degli stessi documenti nella lingua del paese ospitante. Ai fini del controllo, lo Stato ospitante dovrebbe prevalentemente far affidamento sulla cooperazione di quello di origine dell’impresa.
Il rischio paventato dalle organizzazioni sindacali, dunque, non parrebbe totalmente infondato, specie per quei lavori che non richiedono elevate professionalità. Né è agevole stimare quale sarebbe nel breve termine l’effetto “compensativo” di creazione di nuovi posti di lavoro qualificati nei servizi liberalizzati.

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Gli emendamenti proposti dalla commissione per il Mercato interno

La commissione per il Mercato interno (Imco) del Parlamento europeo che ha preliminarmente esaminato la proposta di direttiva ha formulato ben 216 emendamenti, che ne modificherebbero profondamente l’impianto proprio per scongiurare questi timori.
In sostanza, l’Imco mantiene il principio del paese di origine, ma lo depotenzia in modo radicale privandolo di qualsiasi capacità di liberalizzazione dei mercati nazionali dei servizi. Propone, infatti, l’esclusione dall’ambito di applicazione del principio non solo dei Sig, rimettendo a ogni Stato membro persino il potere di decidere del tutto discrezionalmente quali debbano essere i servizi da qualificarsi come tali ai fini dell’applicazione della direttiva, ma anche dei Sieg, non offrendo alcuna precisazione circa i caratteri a cui questi ultimi debbano rispondere.
Gli emendamenti dell’Imco mirano anche a riconoscere piena sovranità a ciascun Stato membro nel decidere di applicare i propri trattamenti economici e normativi ai posted workers degli altri paesi, nonché di prevedere forme di controllo anche preventivo.
Gli emendamenti alla direttiva proposti dall’Imco mi paiono dunque peccare per eccesso.

L’accordo tra Pse e Pppe è la soluzione auspicabile?

Ancor più criticabile della proposta Imco appare, però, l’accordo raggiunto in extremis tra popolari e socialisti europei per l’approvazione nella seduta plenaria del 16 febbraio di un emendamento che cancelli il principio del paese di origine, sostituendolo con una previsione estremamente ambigua. La nuova formulazione proposta, infatti, si presta a due letture diametralmente divergenti: una secondo cui vi sarebbe una mera (e assolutamente inutile) riaffermazione del principio del mutuo riconoscimento; un’altra secondo cui si detterebbe un principio imperativo nei confronti di ogni Stato di liberalizzare i settori non armonizzati e rimuovere tutte le normative che comprimano i vantaggi (ma quali?) dei prestatori di servizi di altri Stati membri. (4) Si rimetterebbe così la determinazione dell’effettiva portata di una direttiva di tale rilevanza alla futura (e incensurabile) interpretazione che ne adotterà la Corte di giustizia.
Sarebbe forse opportuna una diversa (e meno incerta) soluzione compromissoria: approvare in parte gli emendamenti Imco, consentendo l’operatività del principio del paese di origine solo “in senso verticale”, e cioè ai rapporti pubblicistici tra pubblica amministrazione e imprese (concessioni, autorizzazioni, controlli, condizioni di esercizio), e non anche “in senso orizzontale”, e cioè alla regolazione dei rapporti “privatistici” tra imprese, tra imprese e lavoratori, tra imprese e consumatori.
Un testo di questo tenore produrrebbe effetti utili sul piano della liberalizzazione dei servizi di interesse economico senza però intervenire traumaticamente sulla regolazione giuridica nazionale dei rapporti inter-privati. Sembrerebbe, oltretutto, avere qualche chance in più di ottenere non solo l’approvazione del Parlamento, ma anche poi l’approvazione del Consiglio, alla quale è condizionata l’efficacia definitiva del testo che sarà partorito dal voto del Parlamento, secondo la procedura di decisione congiunta a norma dell’articolo 251 Tce.

(1) Corte di giustizia, sentenza 11.12.2003, C-215/01, Schnitzer.
(2) Corte di giustizia, sentenza 30.11.1995, C-55/94, Gebhar.
(3) I contratti collettivi italiani sono ricompresi soltanto per la determinazione dei minimi retributivi in virtù dell’efficacia generalizzata che gli viene attribuita dalla giurisprudenza quale parametro di retribuzione sufficiente e proporzionata a norma dell’art. 36 Costituzione.
(4) Le due letture sono state già (legittimamente) proposte rispettivamente da Il Sole-24Ore (9.2.2006 A. Cerretelli) e da Liberazione (9.2.2006 A. Milluzzi). Quest’ultimo quotidiano riporta la formulazione testuale del nuovo articolo 16 su cui è stato raggiunto l’accordo: “Gli Stati membri dovranno abolire ogni restrizione che proibisca o renda meno vantaggiose le attività di un prestatore di servizi di un altro Stato membro“.

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