Senza un mercato integrato dei servizi l’Europa non potrà mai ambire a essere un’economia dinamica e competitiva come quella degli Stati Uniti. La direttiva Bolkestein cercava di far sì che le legislazioni dei paesi membri in questo campo diventassero rapidamente compatibili con le norme dei trattati europei. Ora, il compromesso raggiunto è il risultato di cedimenti progressivi agli interessi particolari di singoli paesi e categorie. E già si levano le voci in favore dell’esplicita introduzione del principio del “paese di destinazione”. Condannandoci a un lento declino.

A due anni dalla sua presentazione, la direttiva sui servizi sembra uno di quei poveri abeti che si trovano abbandonati agli angoli delle strade dopo Natale: non solo gli sono state tolte le decorazioni, ma sono caduti anche gli aghi, lasciando solo un tronco mezzo spelacchiato. C’è voluto un Consiglio dei ministri europeo, il no al referendum sulla costituzione in Francia e Olanda, mesi di discussioni in commissione parlamentare e ulteriori trattative prima del voto al Parlamento europeo per ridurre notevolmente la sua portata sul completamento del mercato interno.

Propositi semplici

Eppure, gli scopi della direttiva proposta dalla Commissione Prodi nel 2004 erano semplici. La direttiva partiva dalla triste constatazione che a quasi cinquanta anni dal Trattato di Roma e a più di dieci anni dal Mercato unico l’integrazione dei mercati europei era incompleta. (1) I servizi di mercato (esclusi cioè quelli offerti dal settore pubblico), che oggi rappresentano circa la metà del valore aggiunto e una quota analoga dell’occupazione delle economie europee, restavano in larga misura immuni dalle disposizioni dei trattati concernenti la libertà di stabilimento (articoli 43 e 48) e di commercio (articolo 49). A differenza dei beni prodotti dall’industria, una buona parte di questi servizi non può essere scambiata facilmente sui mercati internazionali. Perché, con la parziale eccezione dei trasporti, delle telecomunicazioni e dei servizi bancari, tutti oggetto di specifiche direttive di liberalizzazione e armonizzazione europee, questi servizi richiedono la prossimità tra il prestatario e il fruitore. Esempi notevoli sono le costruzioni, i servizi offerti dalle libere professioni (avvocati, notai, consulenti finanziari, agenti immobiliari, contabili, architetti, ingegneri, e così via), i servizi sanitari privati, la grande distribuzione. In tutti questi casi, i due modi principali attraverso i quali è possibile l’offerta transfrontaliera sono la creazione di società (o filiali) in paesi terzi o il distacco temporaneo di personale all’estero. Orbene, la pletora di regolazioni e norme nazionali che si applicano a queste due modalità è ancora tale che, nel migliore dei casi, comporta costi notevoli per le imprese che volessero offrire servizi in uno o più paesi dell’Unione e, nel peggiore dei casi, maschera un protezionismo di fatto dalla concorrenza estera.
Partendo da queste considerazioni, la direttiva tentava di far sì che le legislazioni dei paesi membri fossero rese rapidamente compatibili con le norme dei trattati europei che richiedevano una fluidità completa di questi due tipi di offerta transfrontaliera all’interno dell’Unione. La parola “rapidamente” è cruciale per capire le motivazioni originali della direttiva. Infatti, in considerazione del grande numero dei servizi in questione e delle caratteristiche specifiche che ciascuno di essi assume in ogni paese membro, era impensabile ricorrere alla via dell’armonizzazione “dall’alto”, come nel caso dei trasporti o delle telecomunicazioni. Era perciò necessario prendere altre strade, e la direttiva ne proponeva principalmente due.

Filiali e lavoratori distaccati

Per quanto riguarda la creazione d’imprese o filiali all’estero, si trattava di applicare integralmente le norme del Trattato. Non erano ammissibili ostacoli, di natura legale o amministrativa, allo stabilimento d’imprese estere nel territorio di un paese terzo che non fossero giustificati da (e proporzionati a) motivi d’interesse pubblico. A questo proposito, la direttiva stabiliva una “lista nera” delle richieste di autorizzazioni o licenze incompatibili con la sua applicazione e dava alle imprese che ritenessero di essere oggetto di discriminazione in paesi terzi la possibilità di ottenere l’eliminazione degli ostacoli ingiustificati sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia europea, con immediata applicazione su tutto il territorio dell’Unione. Inoltre, obbligava i paesi membri a stabilire degli “sportelli unici” (in rete) dove le imprese estere potessero trovare tutte le informazioni e i documenti utili per l’inizio della loro attività.
Per quanto riguarda il distacco di personale all’estero, la direttiva introduceva il famoso e controverso “principio del paese d’origine“. Ridotto all’osso, il principio prevedeva che l’offerta di servizi in paesi terzi non possa essere soggetta a restrizioni più severe di quelle vigenti nel paese di origine del prestatario (per esempio nel campo delle qualifiche richieste al prestatario, dei permessi di lavoro, eccetera). In caso contrario, il paese terzo avrebbe avviato, un riesame delle proprie restrizioni per allinearle su quelle del paese d’origine del prestatario. È questo un caso, però, in cui dall’osso non è facile risalire alle vere sembianze, per due motivi principali. In primo luogo perché la direttiva imponeva un grande numero di limiti e deroghe a questo principio, tra le quali:
– L’obbligo di compatibilità con la pre-esistente direttiva sui lavoratori in trasferta (posted workers directive) che impone, tra l’altro, il rispetto della legislazione del lavoro e dei contratti collettivi del paese ospite.
– L’esclusione dei servizi già coperti da precedenti direttive (per esempio, trasporti, telecomunicazioni e servizi finanziari), la non interferenza con le scelte nazionali in materia di organizzazione dei servizi di pubblica utilità, inclusi i servizi sanitari pubblici, eccetera.
– La deroga per le disposizioni che rispondono a motivi di interesse pubblico (tutela del consumatore, della salute pubblica, dell’ambiente).
In secondo luogo, perché la direttiva restava abbastanza vaga sul meccanismo attraverso il quale il paese ospite sarebbe stato indotto ad allineare le proprie norme su quelle del paese d’origine. Ciò nonostante, è proprio il principio del paese d’origine che è stato oggetto delle operazioni di disinformazione più clamorose e ha, perciò, cristallizzato le resistenze più forti all’adozione della direttiva. Per esempio, è al tempo stesso sintomatico e desolante che, ancora di recente, il presidente del Pse (Rasmussen) abbia affermato che questo principio mette in pericolo la “possibilità dei lavoratori di un paese europeo che volessero lavorare in un altro paese europeo di essere occupati con lo stesso salario e le stesse condizioni di lavoro che si applicano a un lavoratore locale”, ignorando che questo è già garantito dal rispetto della direttiva sui lavoratori in trasferta.

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Effetti positivi della Bolkestein

Ma perché, ci si può chiedere, la Commissione europea si accanisce a volere a tutti i costi l’integrazione dei mercati dei servizi nell’Unione? L’intuizione che il commissario Bolkestein ebbe nel 2004 era giusta: senza un mercato integrato dei servizi l’Europa non potrà mai ambire a essere un’economia dinamica e competitiva come quella degli Stati Uniti. Da questo punto di vista, l’integrazione del mercato dei servizi è un tassello fondamentale per la realizzazione dell’Agenda di Lisbona. I motivi  possono essere riassunti così: il differenziale di crescita tra Unione Europea e Stati Uniti, che si è progressivamente allargato nell’ultimo decennio, deriva principalmente da una minore crescita della produttività europea proprio in quei servizi nei quali l’integrazione è carente (grande distribuzione commerciale, servizi di consulenza finanziaria, eccetera). Le ragioni del ritardo sono l’impossibilità di sfruttare le economie di scala offerte dal grande mercato unico e le scarse pressioni per l’adozione delle nuove tecnologie e l’innovazione che derivano dalla parcellizzazione del mercato e dall’assenza di confronto concorrenziale con fornitori dei servizi in altri paesi. A ciò si aggiunga il fatto che il corrispondente sottosviluppo del settore dei servizi in molti paesi europei (tra i quali, in modo preminente, l’Italia) rallenta lo sviluppo occupazionale, frenando ulteriormente la crescita.
In questi ultimi anni, l’evidenza empirica che rivela l’influenza frenante dell’assenza di un mercato integrato dei servizi in Europa è andata aumentando esponenzialmente. Agli studi già citati nel mio precedente articolo, si sono aggiunti lavori che prevedono notevoli effetti positivi dell’applicazione della direttiva sui servizi sui flussi di commercio e investimento intraeuropei, sui consumi, sul reddito reale e sull’occupazione. (2) Per esempio, queste stime prevedono un aumento fino al 60 per cento dei flussi di commercio di servizi e intorno al 30 per cento dei flussi d’investimento all’interno dell’Unione, un aumento dell’occupazione di almeno 600mila unità e un aumento dei consumi e del reddito in termini reali di più di un punto percentuale rispetto ai valori attuali. Va sottolineato che queste stime non tengono conto degli effetti più durevoli che la direttiva avrebbe sulla crescita europea attraverso i canali discussi sopra.

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Una condanna al declino?

In parallelo, i legislatori europei si sono messi con zelo a spelacchiare la direttiva a colpi di ulteriori esenzioni ed eccezioni (la cui impressionante lista è fornita in un prospetto incluso in questo numero de lavoce), fino al colpo finale dell’accordo raggiunto il 9 febbraio tra i maggiori partiti rappresentati in Parlamento per eliminare il principio del paese d’origine, riducendo la direttiva appunto a un misero tronco. Fortunatamente, restano anche nella nuova versione ancora delle disposizioni che potranno contribuire a una maggiore integrazione del mercato dei servizi europei, seppur in modo molto più marginale di quanto avrebbe consentito la direttiva Bolkestein. Ad esempio, ai paesi membri si continua a chiedere di eliminare molte delle disposizioni vietate nella “lista nera” originaria (ad esempio, quella particolarmente onerosa che obbliga i prestatari di servizi di paesi terzi a stabilirsi nello Stato ospite). Tuttavia, non è affatto detto che la nuova direttiva passi il voto del parlamento e non è chiaro quindi quante di queste disposizioni sopravvivranno nella versione finale. Ognuno di questi “sfrondamenti” riduce l’impatto positivo che la direttiva potrà avere sull’economia europea. Per esempio, uno studio recente calcola che l’eliminazione del principio del paese d’origine ridurrà del 40 per cento i suoi effetti sulla crescita dei consumi e del Pil europei.
Il compromesso che il Parlamento presenta al voto il 16 febbraio e poi al vaglio della Commissione e del prossimo Consiglio dell’Unione è il risultato di cedimenti progressivi agli interessi particolari di singoli paesi europei (principalmente la Francia) che, a loro volta, riflettono cedimenti delle rispettive classi dirigenti nazionali agli interessi categorie particolari (liberi professionisti, campioni nazionali, e così via) e calcoli elettoralistici di breve periodo. Ma, come sempre in questi casi, la strategia del sacrificio del bene pubblico e di lungo periodo a interessi miopi e particolaristici è foriera di sviluppi ancora più nefasti: già si levano le voci in favore di ulteriori esenzioni (ad esempio per i cosiddetti “servizi d’interesse generale”) e, addirittura, dell’esplicita introduzione nella direttiva del principio del “paese di destinazione“, che suonerebbe definitivamente le campane a morte per la creazione di un vero mercato europeo dei servizi, condannando l’Europa a un lento declino.

(1) Commissione europea, 2002 “The state of the internal market for services. Report from the Commission to the Council and the European Parliament” COM(2002) 441
(2) Vedi per esempio de Bruijn et al., Copenhagen Economics  , e lo studio della presidenza austriaca della Ce Deepening the Lisbon Agenda, 2006.

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