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Troppi soldi per troppi partiti

La regolamentazione del finanziamento dei partiti presenta diverse criticità. Per esempio, nel 2005 i rimborsi per le elezioni regionali, nazionali, europee hanno riguardato ottantuno formazioni politiche, per un totale di 196 milioni di euro. Una possibile revisione della normativa passa per una maggiore coerenza tra soglie di sbarramento della legge elettorale e diritto al rimborso; criteri più rigorosi di trasparenza; maggiore concorso di “piccole contribuzioni” di privati; terzietà dei controlli anche sulla fissazione dei limiti di spesa.

La regolamentazione del finanziamento della politica si presta a essere esaminata secondo diversi criteri: effetti sul grado di frazionamento delle forze politiche; trasparenza; condizionamento sul contenuto delle leggi; mix delle fonti (pubblico e privato); destinatari del finanziamento (partiti o candidati); modalità ed efficacia dei controlli; efficienza (livelli di spesa in rapporto ai “servizi” resi).
Il quadro delle leggi del nostro paese presenta diverse criticità in ciascuno di questi aspetti, alcune delle quali esacerbate dagli interventi approvati dal Parlamento nelle ultime settimane, altre invece introdotte all’inizio della legislatura. Altre ancora, infine, risalgono allo scorso decennio.

Diritto al finanziamento e numero dei partiti

In Italia il finanziamento pubblico ai partiti è stato abrogato con il referendum del 1993, che si chiuse con una sorta di plebiscito: a favore della cancellazione si espresse il 90,3 per cento dei votanti, che furono il 65,8 per cento degli aventi diritto. Ma naturalmente il referendum non poteva azzerare il finanziamento pubblico dei partiti, che ha semplicemente assunto un’altra forma, quella dei fondi destinati con periodicità annuale al rimborso delle spese elettorali. Ciò conferma, tra l’altro, come l’antipolitica, di cui quel referendum fu uno dei frutti più rappresentativi, non aiuti a formare un sistema delle istituzioni politiche trasparente, effettivamente controllabile e ordinato.
La legge 156 del 2002 ha ridotto dal 4 all’1 per cento la soglia minima dei voti espressi in ambito nazionale per aver diritto al finanziamento. In tal modo si è rafforzato il contenuto proporzionalistico della regola, in qualche misura anticipando lo spirito della riforma elettorale. La conseguenza, come ben documentato in un recente volume di Cesare Salvi e Massimo Villone, è che i soldi pagati ai partiti si sono distribuiti nel 2005 su ben ottantuno formazioni politiche, a titolo di rimborsi per le elezioni regionali, nazionali, europee. (1)
Davanti a questo risultato, c’è da chiedersi se il meccanismo di rimborso non dovrebbe, al contrario di quanto è successo, disincentivare il frazionamento, che costituisce sicuramente una anomalia acuta del nostro sistema politico. Subordinare i rimborsi elettorali alla effettiva elezione nelle assemblee potrebbe apparire una misura un po’ draconiana, ma in realtà ciò già avviene in Italia per le elezioni regionali e per quelle europee; in Spagna, questa regola vale anche per il Parlamento nazionale. In ogni caso, un sistema come quello italiano, dove la soglia per ricevere i rimborsi elettorali è molto più bassa del livello di sbarramento previsto dalla legge elettorale, appare del tutto illogico.

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Trasparenza

Sul piano della trasparenza il sistema italiano, almeno sulla carta, non sfigura nel confronto internazionale. L’articolo 39 del “decreto milleproroghe” varato dal Governo nelle scorse settimane ha tuttavia aumentato drasticamente il limite oltre il quale scatta l’obbligo di dichiarazione congiunta di partito e soggetto donatore: da 6.614 a 50mila euro. In Gran Bretagna e in Germania il limite è molto più basso; ma ci sono anche paesi dove non vi è obbligo di trasparenza sul singolo contributo. Data la debolezza delle nostre istituzioni e le pratiche clientelari diffuse, la scelta della trasparenza massima sembra da raccomandare.

Limiti alle spese elettorali

Un susseguirsi di norme ha invece innalzato il tetto di spesa dei partiti, ottenuto moltiplicando il numero degli aventi diritti al voto per un certo importo, inizialmente 200 lire.
Prima si è alzato l’importo massimo di spesa per elettore dei partiti, che è stato infine portato nel 2002 a un euro. Poi, con il decreto del 25 gennaio scorso, è stato aumentato il tetto di spesa per il singolo candidato, che passa da poco meno di 40mila euro a 52mila euro. Inoltre, si è raddoppiato il parametro del tetto di spesa per elettore del singolo candidato: è stato portato a due centesimi di euro. Era di cento lire, quindi è raddoppiato. Stiamo dunque assistendo alla continua lievitazione dei costi e dei rimborsi.
È lecito domandarsi se sia cresciuto in proporzione il benessere dei cittadini, relativamente alla qualità dei servizi che i partiti svolgono: elaborazione delle politiche e loro realizzazione.
Nel 2005 i partiti hanno ricevuto 196 milioni di euro, cui vanno aggiunti i circa 90 milioni dei contributi ai gruppi parlamentari, a carico del bilancio delle Camere.

Alcune misure per migliorare il sistema

Il problema è che quando il Parlamento delibera in materia di finanziamento delle spese elettorali, non compie mediazioni tra interessi contrastanti: decide in causa propria, come dicono i giuristi; se si preferisce, decide in conflitto d’interesse. Si renderebbe allora necessario un controllo super partes, non solo sul rispetto della normativa, dove peraltro i controlli previsti non si presentano particolarmente efficaci, ma anche su eventuali modifiche ai limiti di spesa. Secondo quanto sottolineato in un rapporto dell’associazione Astrid di poco più di un anno fa, in Francia, Germania e Stati Uniti, le Corti costituzionali svolgono una funzione cruciale nelle decisioni sul finanziamento della politica, una sorta di terzo attore che affianca Parlamento e opinione pubblica. Le modalità di un eventuale coinvolgimento della Corte, un tema squisitamente giuridico, meriterebbero di essere approfondite.
Così come meriterebbe di essere affrontato il tema del concorso dei privati: anche un sistema a forte impronta pubblicistica, come quello tedesco, subordina la concessione dei fondi pubblici all’ottenimento di fondi privati (metodo dei matching funds). Insomma, il finanziamento dei privati, nel nostro sistema poco diffuso, andrebbe opportunamente incoraggiato, con il benefico effetto di allargare la partecipazione democratica alla politica.

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(1)
Cesare Salvi, Massimo Villone, Il costo della democrazia, Mondadori.

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  1. Stefano Mazzocchi

    Gent. Dott. Macchiati,
    la ringrazio per la sua riflessione su una questione di cui si parla poco ma che (come dimostra la storia di questo paese) e’ cruciale per una democrazia. Ho tuttavia alcune obiezioni:
    In primo luogo mi sembra poco corretto assumere l’equivalenza tra finanziamento della politica e finanziamento dei partiti, poiche’ nelle societa pluraliste (e perche’ no, bi o tri partitiche, e non bi o tri polari, che non vuol dire nulla) i partiti non hanno il monopolio della politica, ne dovrebbero.
    Lei invece da per scontato che “naturalmente il referendum non poteva azzerare il finanziamento pubblico dei partiti”. Credo di avere un concetto un po diverso di cio che e’ “naturale”, specie in politica.
    A me pare che il consenso e` qualcosa da cui una forza politica non puo` prescindere e tale consenso puo essere misurato non solo dai voti che ogni cinque anni si raccolgono, ma anche con il sostegno materiale e militante o finanziario (l’obolo, che e’ cosa nobilissima da dare e anche da chiedere – tranne per coloro che possono farne a meno rubando….).
    Ma su questo si puo discutere per ore. C’e’ un elemento tuttavia, che lei liquida troppo facilmente: l’esito di quel referendum; non vorrei che anche qui passasse la logica che le cose si possano fare a prescindere dal consenso. Ci fu un dibattito ampio ed aspro ed i cittadini decisero (e, di nuovo, la storia di questo paese ha mostrato che il finanziamento pubblico lungi dall’evitare fenomeni di corruzione, li incoraggia, proprio perché allenta il vincolo del partito dal consenso).

  2. Alessandro Russo

    Concordo in toto con il radicale (sbaglio?) Mazzocchi. Come amava ripetere l’ex Presidente Emerito della Corte Costituzionale Vincenzo Caianiello (scomparso ormai da quasi 4 anni), l’art. 49 è stato traslato di fatto dalla prima parte (relativa ai Principi Fondamentali) alla seconda parte (relativa all’Ordinamento della Repubblica) della Costituzione. In questo modo i partiti appartengono oggi a tutti gli effetti all’Ordinamento della Repubblica, alla pari del Parlamento o del Governo.
    Se non erro la legge sul finanziamento pubblico ai partiti era stata promulgata a metà degli anni ’70, proprio per scongiurare (questa la giustificazione addotta) quello che i giudici scoprirono (ma lo sapevano tutti!) non molti anni dopo, ossia Tangentopoli e i vari finanziamenti occulti e illeciti a tutti i partiti politici (o quasi, dal momento che almeno i radicali non furono coinvolti).
    Alessandro Russo

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