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Un patriottismo non proprio economico

I politici hanno un atteggiamento ambivalente verso gli investimenti diretti dall’estero. Li apprezzano, ma vorrebbero fermarli quando significano la perdita di controllo su un’impresa ritenuta strategica. D’altra parte, spesso si attribuisce a questo dato troppa importanza. Soprattutto, se si guarda allo stock di investimenti e non al flusso. O se si prendono le cifre complessive senza considerare la loro composizione. Per esempio, misurati tenendo conto di questi elementi, gli Ide sembrano essere marginali e le posizioni di Francia e Germania si invertono.

Il più delle volte i politici europei si fanno concorrenza l’un l’altro per attrarre capitali stranieri offrendo incentivi di ogni tipo (tasse più basse o migliori infrastrutture, per esempio). E la competizione è particolarmente intensa quando si tratta di investimenti diretti dall’estero.

Gli investimenti dall’estero piacciono. Ma non sempre

Gli investimenti diretti dall’estero sono molto apprezzati perché sono considerati il modo migliore per accedere alla tecnologia e al know how stranieri. Ma l’altra faccia della medaglia è che comportano un controllo straniero sulle imprese. Se il primo aspetto è visto con favore, i politici tendono a sorvolare sul fatto che un investimento diretto dall’estero consiste nell’acquisizione di un’azienda nazionale. È un reticenza che diventa ostilità quando una società straniera minaccia di scalare un’azienda nazionale ritenuta strategica (il che spesso significa un’azienda con stretti legami politici). In questo caso, il capitale straniero non è più benaccetto.
La recente battaglia su Enel-Suez-Gas de France ha riportato ancora una volta in primo piano l’ambivalenza dei politici. In Francia, il Governo sta cercando di mantenere in mani francesi il controllo della società energetica, ma allo stesso tempo utilizza l’argomento dell’alto livello di investimenti diretti dall’estero per negare le accuse di protezionismo. Molti altri paesi si comportano nello stesso modo, sebbene lo facciano generalmente con maggior discrezione. Come dovremmo giudicare un comportamento apparentemente contraddittorio?
Analizziamo i due aspetti del dilemma.

La difesa dei campioni nazionali

Gli interventi della politica nelle operazioni di fusione e acquisizione molto spesso portano ad assumere posizioni che non riflettono gli interessi nazionali: accade sia quando i politici intervengono per far rimanere “nazionale” un’impresa, sia quando difendono i tentativi di società nazionali di formare un impero. In generale, le acquisizioni tendono a far perdere valore alla società che lancia l’offerta, ma a incrementare il valore di quella che la subisce. E infatti il prezzo delle azioni della società italiana (Enel) che ha lanciato l’offerta per il controllo di Suez è calato dopo l’annuncio dell’operazione. Il ministro italiano dell’Economia (lo Stato italiano ha una partecipazione importante nell’Enel) dovrebbe perciò essere interessato a veder fallire l’operazione. (E viceversa per il ministro francese). Ma quando la questione arriva a un livello politico, le considerazioni economiche escono di scena.
È sufficiente sostenere che il “patriottismo economico” è in ascesa? In molti dei casi recenti i politici sembrano aver reagito al fatto che specifici mercati (e società), che loro per lungo tempo hanno creduto protetti, sono ora soggetti a concorrenza. Tuttavia, anche se i politici possono impedire qualche acquisizione nel breve periodo, resta sempre la minaccia di una possibile scalata futura. Perciò anche i campioni nazionali dovranno comportarsi come i loro concorrenti e i politici potranno fare ben poco per mantenere posti di lavoro o canali di investimento all’interno di determinati settori.
Invece di lamentarci della rinascita del protezionismo in Europa, dovremmo chiederci qual è l’aspetto più importante dell’attuale boom di acquisizioni transnazionali nell’Unione Europea: il fatto che si lanciano quelle offerte, spesso ostili, o il fatto che i politici cerchino disperatamente di proteggere i loro campioni nazionali?

In gara per gli Ide: la classifica

In tempi normali i Governi fanno a gare per attrarre più investimenti diretti dall’estero. E il più delle volte, ai ministri dell’Economia piace presentare classifiche dei paesi che ne ricevono di più.
Queste classifiche si basano sui dati principali del Fondo monetario internazionale (o su quelli equivalenti di Eurostat). Se si guarda allo stock di investimenti diretti dall’estero della fine del 2004 la Francia ne ha in effetti ricevuti più della Germania. Lo stock di investimenti diretti dall’estero ricevuti quell’anno dalla Francia rappresentava il 46 per cento del Pil contro il 25 per cento del Pil della Germania e solo il 13 per cento dell’Italia. Questi dati sembrano suggerire che gli investimenti diretti dall’estero sono alquanto importanti per l’economia francese. Tuttavia, il dato di stock è fortemente distorto da alcune grandi operazioni concluse durante il boom delle telecomunicazioni del 1999-2000.
Un quadro completamente diverso emerge se guardiamo a dati più recenti sui flussi di investimenti diretti dall’estero. Negli ultimi tre anni per i quali i dati sono disponibili (2002-2004), i flussi di Ide sono stati piuttosto modesti, circa il 2,3 per cento del Pil per la Francia e circa l’1 per cento per l’Italia e la Germania. Il quadro cambia ancora di più se osserviamo la componente “core” degli investimenti diretti dall’estero , cioè al capitale (equity).
equity dovrebbe essere considerato l’elemento chiave degli investimenti diretti dall’estero perché rappresenta la quota di capitale proprio che l’investitore straniero rischia. Tuttavia, le cifre delle statistiche ufficiali registrano il valore complessivo, lordo, dell’operazione, che invece, spesso contiene anche un importante elemento di finanziamento attraverso il debito (prestiti intersocietari, eccetera). Generalmente, l’obiettivo di un finanziamento attraverso debito è spostare i profitti e così risparmiare sulle tasse.
Se guardiamo agli investimenti diretti dall’estero in termini di flussi cross border di capitale, il quadro cambia considerevolmente. Misurati così, gli Ide sembrano essere marginali (meno del 2 per cento del Pil) e le posizioni di Francia e Germania si invertono (1,5 per cento del Pil per la Germania contro l’1,2 per cento della Francia).
Le classifiche degli investimenti diretti dall’estero andrebbero perciò utilizzate con molta cautela quando si vuole confrontare il successo o il fallimento di un paese nell’attrarre capitali stranieri. Stock e flussi ne danno spesso un’impressione diversa e i flussi sono molto variabili. Inoltre, la loro composizione (in termini di patrimonio contro debito) è altrettanto importante della cifra nel suo complesso. Ricevere un più ampio ammontare di Ide non è necessariamente un segno di successo o di apertura.
In conclusione, l’importanza complessiva attribuita agli investimenti diretti dall’estero è qualche volta esagerata, sia quando i politici si vantano di riceverne molti, sia quando cercano di respingerli perché minacciano il controllo nazionale su determinate imprese.
Da un punto di vista strettamente economico, non è necessariamente “patriottico” attrarre una quota maggiore di Ide, difendere un’impresa nazionale o sostenere la scalata a una società straniera da parte di un’impresa nazionale. Dopo tutto, sostenere sempre e comunque il management di una società nazionale (sia quando lancia un’offerta sia quando si difende da una ostile che proviene dall’estero) è un gioco a somma zero all’interno dell’Europa.

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English version

Economic ‘patriotism’: Protecting national champions or competing to attract FDI?

Most of the time EU politicians are competing amongst each other to attract foreign capital by offering all sorts of incentives (e.g. lower taxes or better infrastructure). Such competition is particularly intense when it comes to FDI (Foreign Direct Investment).
FDI is particularly valued because it is considered the best way to gain access to foreign technology and know-how. The flipside is that it comes together with foreign control. But while the former aspect of FDI is welcome, politicians tend to gloss over the fact that FDI consists of the takeover of a domestic firm. This reticence changes into hostility when a foreign firm threatens to take over a domestic firm that is regarded as strategic (which often means also a firm with close political connections). Under these circumstances foreign capital is no longer welcome.
The ENEL-Suez-Gas de France takeover battle has once again brought this ambivalent attitude of politicians to the fore. The French government is trying to keep the French energy firm in domestic hands while at the same time using the argument of the high level of FDI to deny that France is protectionist. Many other governments display similar attitudes, albeit usually in a more discreet manner. How should we judge this seemingly inconsistent behaviour?
This note provides a brief snapshot of both sides of the dilemma.

Defending national champions

Political interference in mergers and acquisitions (M&A) very often leads to positions that do not reflect national interests – both when politicians step in to keep a company ‘national’ and when they defend the attempts by their own companies to forge an empire. Generally speaking, takeovers tend to destroy value for the bidding company but increase the value of the company that is being bid for. And indeed, the share price of the Italian company (ENEL) that bid for control of Suez has dropped since the bid was announced. The Italian finance minister [the Italian state has a large stake in ENEL] should therefore have an interest in seeing this bid fail [and vice-versa for the French finance minister]. But once the issue goes to the political level, economic considerations go out of the window.
Is this enough to argue that ‘economic patriotism’ is on the rise? In the most recent cases, politicians seem to have reacted to the fact that specific markets (and companies) which they long thought to be protected have become subject to competition.
However, even tough politicians may prevent some takeovers in the short run, the threat of a takeover some time in the future always remains. Therefore, even national champions will have to behave like their competitors and politicians will be able to do little to preserve jobs or channel investment into certain sectors.
Instead of just bemoaning the rise of protectionism in Europe, we should really be asking what is more important about the ongoing cross border M&A boom in the EU: the fact that (often hostile) bids are launched or that politicians are desperately trying to protect their national champions?

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Competing for FDI: the league table

In normal times governments actually compete against each other to attract more FDI. Most of the time ministers of finance like to present league tables showing which countries receive the most FDI.
These league tables are based on headline figures from the IMF (or the equivalent ones from Eurostat). Looking at the stock of FDI as of end-2004 France has indeed received more FDI than Germany. The stock of inward FDI to France in 2004 was 46% of GDP against 25% of GDP for Germany and only 13% for Italy. This data seems to suggest that FDI is rather important for the French economy. However, the stock data is heavily skewed by a few large transactions made during the telecommunications boom of 1999/2000.
A completely different picture emerges if we look at more recent data on FDI flows. Over the last three years for which data is available (2002-2004) FDI flows have been rather modest, around 2.3% of GDP for France and around 1% for Italy and Germany. The picture changes even more if we look at the core component of FDI, namely equity. Equity should be considered the key component of FDI because it represents the amount of own capital that the foreign investor puts at risk. However, the headline figures contained in the official statistics record the overall, gross value, of the deal, which often comprises an important element of debt financing. The purpose of this debt financing is usually to shift profits and thus save on taxes.
Looking at FDI in terms of the cross-border flows of equity changes the picture considerably. On this measure FDI seems to be marginal (less than 2% of GDP) and the ranking between France and Germany is inverted (1.5% of GDP for Germany, versus 1.2% for France).
We should thus be extremely careful in using FDI league tables to compare the success or failure of countries in attracting foreign capital. Stocks and flows often give different impressions and the flows are highly variable. Moreover, the composition (in terms of equity versus debt) is as important as the overall figure. Receiving a larger amount of FDI is not necessarily a sign of success or openness.
The conclusion should therefore be that the overall importance of FDI is sometime exaggerated, both when politicians boast about their country receiving a large amount of it and when they are trying to fend it off because it threatens national control over certain enterprises. From a strictly economic point of view it is not necessarily ‘patriotic’ to attract more FDI, to defend a domestic enterprise or to support a foreign takeover bid of a domestic enterprise. After all, always supporting the management of the domestic enterprise (whether it launches a takeover bid or is threatened by a hostile bid from abroad) is a zero sum game at the European level.

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Un percorso verso la stabilità

  1. Pierpaolo Sette

    Gentile Prof. Gros,
    Inizio prima di tutto nel farle i miei complimenti per i suoi studi e le ricerche, di cui ho avuto modo di consultarne alcune nel corso della stesura della mia tesi di laurea riguardante l’Allargamento dell Unione Monetaria Europea. Detto ciò, devo dirle che condivido il suo articolo.
    Spesso i politici oggi utilizzano il patriottismo a loro piacimento, soprattutto da un punto di vista economico. Gli IDE sono una risorsa fin quando non intaccano le forze nazionali. IL diuscorso è sbagiato, non vi è competiaione tra nazioni ma solo tra aziende,, ed ogni affermazione di questo tipo fa presagire ritorni al protezionismo.
    Spero che in futuro come detto da qualcuno l’economia in qualche forma possa esser liberata un pò dalla politica, lei cosa ne pensa?
    Cordiali saluti,
    Dr. Pierpaolo Sette

    • La redazione

      Grazie,
      Sarebbe difficile rispondere in dettaglio. Concordo che l’economia dovrebbe essere liberata dalla politica. Qui lo farà? In questi giorni i cittadini Italiani avranno l’occasione di scegliere il lore governo anche sotto questo punto di vista.
      Auguri,
      Daniel Gros

  2. cbonaccorso

    Caro prof. Gros,
    e se ammettessimo che – oggi più di ieri, nel Mezzogiorno più che al Nord – la nostra classe dirigente (PA e privati, poco cambia) avesse bisogno di un radicale rinnovamento e fosse incapace di autoriformarsi? forse il livello di attrattività dei territori assumerebbe criteri valoriali leggermente diversi. Forse, ma di questo ne sarà certo anche lei, aumentare l’attrattività del Paese (cioè rendere più “normali” le nostre aziende e l'”intelligenza” delle nostre istituzioni) avrebbe già valore in sè, cioè il Paese tutto.

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