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Perché non diremo addio all’euro

Due commenti del Financial Times predicono l’uscita dell’Italia dall’euro. Meritano una risposta.  Sono scenari che hanno bassissime probabilita’ di realizzarsi. Perché gli aggiustamenti di finanza pubblica che il nostro paese è chiamato a compiere sono alla nostra portata. E perché c’e’ sempre piu’ consapevolezza del fatto che i nostri problemi di competitività e di crescita si possono risolvere solo attraverso riforme strutturali. Nel lungo periodo, beneficeremo delle incisive riforme previdenziali varate negli anni ’90.

L’Italia è condannata a uscire dall’euro? Lo suggeriscono due scenari proposti dal Financial Times. Nel primo, delineato da Wolfgang Munchau il 17 aprile, un governo italiano populista decide unilateralmente di abbandonare l’euro. Nel secondo scenario, dipinto nella Lex Column del 20 aprile, sono i mercati a costringere l’Italia a uscire dalla moneta unica. Meritano una risposta.  Lo facciamo qui e, speriamo, presto anche sulle colonne del Financial Times.  La probabilità che uno di questi scenari si realizzi e’ molto, molto bassa, sia nel medio che nel lungo periodo. 

L’OPZIONE CHE NON C’E’

Innanzitutto, l’opzione di un semplice abbandono dell’euro non esiste. Non è stata concordata con l’Italia nessuna clausola in proposito, ma anche se una simile deroga potesse essere negoziata, i nostri principali partner commerciali – Germania, Francia e Spagna – non ci permetterebbero mai di rimanere nell’Unione Europea e allo stesso tempo di perseguire una politica di “svalutazioni competitive”. E nessun governo italiano, neanche il più populista, potrebbe prendere in considerazione l’idea di abbandonare del tutto l’Unione Europea, per le conseguenze devastanti che ciò avrebbe sull’economia italiana: i populisti possono essere stupidi, ma aspirano a essere rieletti.
È invece possibile che i mercati possano costringere un Governo italiano ad abbandonare l’euro, come sostiene
la Lex Column? Può accadere se i mercati si convincono che le condizioni di finanza pubblica dell’Italia non sono sostenibili e si profila il pericolo di un ripudio del debito. In effetti la combinazione di debito in aumento, economia piatta e tassi di cambio fissi puo’ evocare ad osservatori esteri preoccupanti paralleli con l’Argentina. Ma si tratta di situazioni molto diverse tra di loro.
È vero che il debito italiano è in crescita – per la prima volta dal 1994 – e che questo può aver provocato qualche brivido tra i nostri partner europei o finanziari. Tuttavia, i correttivi necessari per tornare a ridurre il debito sono relativamente contenuti. Anche se il tasso nominale medio di crescita è stato del 3 per cento (il che significa crescita reale al di sotto del potenziale) e il costo medio del debito è salito del 5 per cento, un avanzo primario del 2 per cento sarebbe sufficiente per stabilizzare il rapporto debito/Pil. Aggiustando per il ciclo, ma escludendo le manovre una tantum, l’avanzo primario nel 2005 è stato dell’1 per cento. Perché il debito torni a calare è dunque sufficiente un piccolo aggiustamento. Se il Governo della IV legislatura non avesse sperperato il surplus ereditato dalla legislatura precedente (3,2 per cento), l’Italia non si troverebbe ad affrontare questo problema.

LA CONSAPEVOLEZZA DEL DECLINO

Altrettanto rassicurante è il fatto che per ridare forza a competitività e crescita non si deve necessariamente passare per una svalutazione. L’euro ha solo messo a nudo una tendenza di lungo periodo alla perdita di competitivita’ del nostro paese.  L’export italiano ha perso quote di mercato sia negli anni in cui l’euro si deprezzava verso il dollaro sia quando l’euro si è rafforzato.
Il programma della coalizione che ha vinto le elezioni mostra consapevolezza del fatto che la competitività dell’Italia è indebolita da profondi e antichi problemi strutturali, che si possono risolvere solo attraverso una politica di liberalizzazione dei mercati e riforme strutturali. E prevede anche misure, come il taglio del cuneo fiscale, per rilanciare la competitività delle esportazioni italiane immediatamente, in attesa che gli effetti delle riforme strutturali si facciano sentire sulla produttività.
Certo, la risicata maggioranza di cui disporrà il Governo Prodi, potrebbe rendere tutto più difficile. Ma chi sostiene questa tesi, dimentica che strette fiscali e importanti riforme strutturali sono state avviate proprio in periodi di turbolenza politica, nel 1992-93 prima e nel 1995-97 poi. Ancora più importante, la coalizione uscita vincente dalle urne ha già pagato un pesante prezzo in termini di consenso elettorale per il suo esplicito impegno ad alzare le tasse, se ciò dovesse essere necessario dalla condizione di finanza pubblica.
E nel lungo periodo? I pessimisti potrebbero controbattere che l’Italia ha problemi di invecchiamento molto più acuti rispetto alla maggior parte degli altri paesi, eccetto forse il Giappone. Hanno ragione, ma non dovrebbero dimenticare che le riforme previdenziali realizzate in Italia sono molto più lungimiranti di quelle della media dei paesi dell’Unione Europea. Come è ben documentato dall’Ecofin, per il 2050 l’aumento di spesa pubblica dovuto all’invecchiamento è stimato per l’Italia intorno allo 0,5 per cento del Pil contro un oltre 4 per cento degli altri paesi dell’Eurozona. Le pensioni sono in Italia un problema di medio periodo, legato al processo di avvicinamento, certo troppo lento, al sistema sostenibile introdotto dalla riforma previdenziale del 1996. Nel lungo periodo, l’Italia ha minori problemi di sostenibilità dei conti pubblici.
Ciò non toglie che restano enormi le sfide che l’Italia deve affrontare. Ci sono alcuni segnali incoraggianti sul versante della ristrutturazione industriale, dove è in atto un processo di “distruzione creativa”.

IL RISCHIO DI PROFEZIE CHE SI AUTOALIMENTANO

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Tuttavia, i mercati potrebbero rivedere al ribasso le loro valutazioni sull’Italia e rendere così più difficile il lavoro del Governo. È fin troppo noto che le percezioni dei mercati possono cambiare rapidamente e spostare un’economia da un percorso sostenibile a uno non sostenibile: se tutti i correntisti si aspettano il fallimento di una banca, quella banca finisce inevitabilmente per fallire. Proprio per questo motivo, la situazione della finanza pubblica in Italia deve essere valutata solo dopo una attenta e profonda analisi. In passato, molti commentatori, compreso il Financial Times, avevano predetto che l’Italia non sarebbe riuscita a entrare nell’euro: ci sono molte buone ragioni per credere che abbiano torto anche questa volta.

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  1. Pietro Rizza

    Concordo largamente con gli autori. Il Financial Times sembra ispirarsi ad una certa letteratura economica sul ripudio del debito cui, tra gli altri, fece riferimento anche Roubini nell’iniziare questo dibattito. Tuttavia determinare il costo effettivo di una uscita dall’Euro e del ripudio del debito mi sembra alquanto difficile. Le stime fatte, pari di solito ad un 10 percento di PIL, mi sembrano troppo basse. Il “caos” generato da una simile scelta produrrebbe un abbassamento tale degli standard of living italiani da rendere politicamente “sostenibile” qualunque riforma per prevenire l’uscita.

  2. Roberto Furlanetto

    Nemmeno gli Argentini sono di per sè stupidi. Eppure l’Argentina è lì a dimostrare come si possano compiere scelte devastanti sul lungo termine nel campo della politica economica. In questo paese, oltre a mali antichi e recenti, stiamo aggiungendo un clima da Guerra civile fredda in cui tutto dventa purtroppo possibile. Delegittimazione reciproca, sospetti, mosse e contromosse, azioni di politica preventiva e totale irresponsabilità politica sul lungo periodo. Non ci vuole molto purtroppo a precipitare. In un clima di populismo sempre più acceso, con la classe politica costretta a ricercare soluzioni sempre più estremizzanti per placare una pubblica opinione scettica, sfiduciata, impoverita e incollerita, è possibile illudersi di uscire dall’Euro e di riavviare una politica economica fatta di svalutazioni competitive senza pagare un prezzo politico troppo alto.
    Non si può assolutamente escludere che si arrivi ad una situazione di questo tipo e non c’é da contare sugli anticorpi naturali della società italiana. Quella argentina non era molto peggiore negli anni 60 eppure…

  3. Marco D'Egidio

    Che il populismo si stia rafforzando, lo dimostra lo straordinario recupero di Berlusconi nelle ultime settimane elettorali. Mai parlare di tasse (all’insù) in campagna elettorale. Sono pienamente d’accordo con gli autori: il centrosinistra ha rischiato tantissimo con le sue proposte farraginose e confuse, ma è stato fortunato ed adesso, se dovesse attuare strette fiscali, può sempre dire di averlo messo in conto prima. Non è schiavo della massa, mentre chi la rincorre dopo ne rimane assoggettato. Credo che quindi Prodi sia avvantaggiato nel suo programma di riforme. Un buon motivo per dire che il populismo attecchisce, ma non sempre il mondo politico vi ricorre. Vedremo quanto durerà…

  4. Nicola Borri

    Leggendo Roubini prima e successivamente Muncaho sul Financial Times non ho mai avuto l’impressione che questi suggerissero un’uscita dell’Italia dall’Euro come soluzione alla crisi di competitività e al debito pubblico in crescita. Al contrario, il messaggio chiaro era: “Attenti, se le riforme strutturali non sono fatte al più presto nel lungo periodo l’opzione di uscita dall’Euro sarà l’unica a disposizione”.
    E mi sembra evidente come il problema non sia lo stock di debito (elevato, ma pur sempre di poco superiore al GDP dell’Italia .. molte famiglie si indebitano per somme ben superiori al proprio reddito annuale!) ma la sua sostenibilità.
    La perdita di competitività di molti nostri settori legati all’export (vuoi perché in competizione con l’export cinese ed indiano, vuoi perché il nostro tasso di cambio reale continua a peggiorare grazie alla maggiore inflazione rispetto ad altri paesi dell’area Euro) ci sta portando ad accumulare un forte deficit della bilancia commerciale. In altri termini, stiamo prendendo a prestito risorse dal resto del mondo. Per ripagare questo debito, prima o poi, sarà necessario invertire il deficit della bilancia commerciale. E qui entrano in gioco le riforme strutturali (mercato del lavoro; concorrenza; infrastrutture; giustizia; etc.) indispensabili per rendere il nostro export più appetibile.
    L’alternativa e’ quella di una forte contrazione dei consumi, ma quanto questa sia una alternativa politicamente accettabile e’ tutto da scoprire. Anche perché i lavoratori dipendenti sembrano avere – soprattutto nelle grandi città – redditi reali certamente bassi.
    Infine – in sede europea – bisognerebbe convincere paesi come la Germania a rilassare la politica di moderazione salariale in modo da dare respiro al nostro tasso di cambio reale (non a caso Bini Smaghi ha recentemente sollevato il problema in sede di board della Banca Centrale Europea).
    Il risultato elettorale incerto e la maggioranza risicata del futuro governo Prodi non fanno certo ben sperare in tema di riforme strutturali. Non e’ quindi sorprendente che molti commentatori inizino a paventare scenari cui non vorremo certo pensare.

  5. Massimo Castaldo

    La ragione principale per cui l’Italia non uscirà dall’Euro è politica: se uscisse uscirebbe anche dal cerchio delle potenze che decidono e dai loro vertici. E’ vero che quando siamo con l’acqua alla gola facciamo i sacrifici per tornare a galla, ma il problema è di risolvere i problemi strutturali e antichi che ci portano periodicamente a finire con l’acqua alla gola. Dalla fine degli anni sessanta abbiamo avuto vari governi di centro-sinistra che hanno incancrenito quei problemi. Sono pessimista

  6. giuseppe caffo

    Condivido l’analisi degli autori. Rispondo a Nicola Borri che la contrazione dei consumi mi sembra coerente. In italia si lavora poco e male, a discapito della produttività (esempio le inefficenze della amministrazione pubblica). Qundo l’incidenza del costo del lavoro per unità di prodotto o di servizio aumenterà ai livelli dei nostri competitori sarà realistico pensare a incrementi salariali che rilancino i consumi.

  7. Marco Boleo

    Devo dire un grazie a Boeri e Faini per la lucida analisi che hanno compiuto. D’altronde non poteva che essere così visto che sono anni che si occupano seriamente dello studio dei problemi dell’economia italiana. In proposito Faini ha scritto un bel paper pubblicato nel libro “Oltre il delino”, coautorato da Boeri, e nel quale sono pubblicati anche gli altri lavori di un convegno organizzato dalla fondazione Rodolfo De Benedetti. Insomma Boeri e Faini non sono dei commentatori improvvisati della realtà italiana come il giornalista del Financial Times o dello stesso Roubini che si basano troppo spesso su “favole” che circolano all’estero sul nostro paese. Comunque in merito a quello che hanno scritto sul debito pubblico vorrei chiedere ai due autori se avrebbe senso considerare per una nazione il debito totale dato dalla somma di quello pubblico e di quello privato (mutui, prestiti delle famiglie e delle imprese) in una analisi sulla situazione debitoria in rapporto al Pil. Questo perché paesi che hanno un debito pubblico elevato a volte sperimentano un debito privato più basso e viceversa. Insomma nei parametri di Maastricht non si potrebbe tener conto della situazione debitoria totale.Cordiali saluti
    Marco Boleo

  8. Franco Oriti

    Dopo l’11 settembre, i bond argentini, il crack Parmalat e l’aumento del petrolio, ho dei dubbi seri che la situazione economica di oggi in Italia sarebbe stata migliore se non avessimo adottato l’euro.
    Quindi grazie euro e grazie Unione Europea (Ue) che e’ stata per oltre 50 anni sinonimo di pace, democrazia e prosperita’.
    Auspico che l’Italia, paese fondatore dell’Europa comunitaria, sia nuovamente protagonista per permettere all’Ue di democratizzarsi maggiormente e per avviare l’ “approfondimento” delle sue istituzioni (quali, ad esempio, abolire il voto all’unanimita’ al suo interno, essere capace di reperire risorse economiche proprie per svincolarsi dalle beghe interne agli Stati membri, adottare una sola politica estera, ecc..).
    Ricordo che in Italia nel 1989, contemporaneamente alle elezioni europee del 18 giugno, si svolse un referendum propositivo (primo nella storia della Repubblica Italiana) per conferire il mandato costituente al Parlamento europeo ed il risultato definitivo sanci’ che l’88% degli elettori italiani erano favorevoli ad una Costituzione Europea.
    L’Ue dovra’ adottarsi di una vera Costituzione federale che conferisca ad un unico Governo europeo i pieni poteri esecutivi con l’obbligo di rispondere delle proprie azioni dinnanzi al Parlamento europeo e per continuare ad affrontare molte sfide (per esempio, disoccupazione, terrorismo, lavoro, migrazioni, inquinamento, ecc..).

  9. Pierpaolo Sette

    Gentili Professori,
    Condivido la vostra analisi. In realtà le previsioni del Financial Times si basano su uno scenario di previsione pessimistico e le cui conclusioni, come da voi giustamente ribadito, non possono secondo gli accordi realizzarsi.
    Credo che il vero timore sui nostri conti pubblici sia proprio nel timore delle aspettative, che seppur qualche economista non riconosce, hanno un valore importante nell’economia
    Il problema ora è controllare i conti, ma soprattutto far ripartire la crescita.
    Solo in questo modo si potranno allontanare le aspettative pessimistiche dei mercati che potrebbero portare ad effetti domino davvero negativi.
    Il periodo più brutto è forse alle spalle, ma per non tornare indietro il governo deve avere la forza di fare le riforme di cui il paese ha bisogno, e che voi avete sottolineato. Solo così, nel lungo periodo, il nostro paese uscirà davvero da questo periodo di stasi.
    E’ forse questo l’impegno più importante che il nuovo governo dovrà dimostrare di essere in grado di mettere in atto.
    Cordiali saluti,
    Pierpaolo Sette

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