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Calcio, il fuorigioco dell’Authority

Nella sua indagine conoscitiva sul calcio professionistico, l’Agcm individua la necessità di riforme ampiamente condivisibili. Ma segna anche un netto cambiamento di rotta rispetto a sue precedenti indicazioni, senza spiegarne adeguatamente le ragioni. La vicenda del calcio pone allora interrogativi profondi, perché se mancano trasparenza nelle decisioni e tempestività di intervento vengono meno due delle principali ragion d’essere di una autorità indipendente.

Nella corposa indagine conoscitiva sul calcio professionistico pubblicata nel gennaio scorso (1), l’Autorità garante della concorrenza e del mercato – che già si era espressa in materia nel luglio scorso, quando il nostro calcio viveva i suoi giorni più schizofrenici, diviso tra l’alloro mondiale e la retrocessione a tavolino del club più blasonato – va in profondità nel cercare le cause della crisi di un settore che, al di là del suo richiamo mediatico e dei suoi aspetti ludici, produce con il suo indotto un volume di affari di circa 5 miliardi di euro, assicurandosi così un posto di assoluto rilievo nell’economia nazionale.

Cinque aree di intervento

Nelle 170 pagine del rapporto si esaminano tutti gli aspetti che le vicende dei mesi scorsi, e forse più ancora la crisi strisciante degli ultimi anni, avevano già indicato tanto ai semplici appassionati quanto agli esperti del settore come meritevoli di riflessione e di riforma. L’Autorità indica dunque cinque aree di intervento, che così si possono sommariamente riepilogare:
– incentivare la ancora insufficiente diversificazione dei ricavi delle società calcistiche;
– riformare la disciplina (di legge e federale) dei contratti tra calciatori e società, al fine di assicurarne una maggiore stabilità;
– prevedere misure volte ad accrescere la concorrenza tra gli agenti dei calciatori;
– riformare in modo incisivo l’ordinamento di Figc e Lega, rivedendo di conseguenza l’attribuzione delle rispettive competenze (in particolare per quanto riguarda i compiti di ripartizione dei proventi da cessione dei diritti tv);
– tornare rapidamente a un sistema che preveda la vendita centralizzata dei diritti tv, prevedendo nuovi e più effettivi criteri di mutualità, “per garantire un campionato di calcio più combattuto”.

Si tratta di conclusioni ampiamente condivisibili, alcune delle quali erano state peraltro anticipate nei mesi scorsi da molti commentatori, anche su questo sito. Cruciali appaiono in particolare le ultime due.
L’inadeguatezza dell’assetto istituzionale dei vertici del calcio professionistico (minato in particolare dal conflitto di interessi implicito in una Lega che è al tempo stesso associazione di categoria ed ente di regolazione del mercato) e il crescente divario competitivo tra le squadre (2) avevano prodotto un intreccio perverso che ha avuto non poco rilievo nel creare le condizioni grazie alle quali Calciopoli è prosperata.

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Al di là del calcio

Ma l’aspetto sul quale conviene soffermarsi oggi è un altro, di carattere più generale e che in quanto tale esula dallo specifico del settore calcistico.
Quello che più colpisce dell’indagine sul calcio dell’Agcm è quanto in essa non è dato di trovare. L’Autorità dedica solo un fugace accenno al fatto che il passaggio alla contrattazione individuale, prima di ricevere sanzione legislativa (3), fu dovuto almeno in parte a un provvedimento della Autorità. (4) Oggi quella decisione, giunta a sua volta all’esito di una complessa disamina, viene liquidata in poche, imbarazzate righe. (5)
Ora, nessuno pensa di chiedere pubbliche abiure. In tempi di relativismo dilagante ciò, oltre che politicamente scorretto, sarebbe sterile e fuori luogo. Quello che invece è legittimo chiedere, in nome di elementari principi di trasparenza, è che vengano illustrate con particolare accuratezza le ragioni che hanno indotto a breve distanza di tempo un così netto cambiamento di rotta.
E dunque la riflessione si fa più ampia.
Perché quando l’Autorità condivisibilmente osserva oggi che “nell’indagine conoscitiva è emerso che, sotto un profilo antitrust, la natura di monopoli naturali delle competizioni sportive condiziona necessariamente la struttura organizzativa del sistema calcio”, afferma un fatto così lapalissiano da indurre a chiedersi con ancora maggiore forza come mai esso sia sfuggito nel 1999, determinando una situazione che è stata fonte di gravi pregiudizi per un settore che “rappresenta uno dei principali settori industriali” per il nostro paese. (6)
Se poi si osserva che in questa presa d’atto l’Antitrust è stata preceduta dalla politica, le perplessità sono destinate a crescere. (7)
E dunque la vicenda del calcio pone interrogativi profondi, perché se mancano trasparenza nelle decisioni e tempestività di intervento vengono meno due delle principali ragion d’essere di una autorità indipendente.


(1)
Cfr. Provv. n. 16280 del 21 dicembre 2006 – IC27, Settore del calcio professionistico, in Boll. n. 51-52/2006, disponibile al sito
www.agcm.it.
(2) Le “grandi” diventavano sempre più forti e le “provinciali” sempre più marginali, grazie alla insostenibile sperequazione nei ricavi da cessione da diritti tv, dovute appunto al fatto che ciascun team contrattava individualmente con le emittenti televisive.
(3) Il Dl 30 gennaio 1999, n. 15, nel disciplinare l’assetto del settore radio-televisivo, al fine di favorire la concorrenza nel mercato televisivo, all’art. 2 vieta “ai soggetti titolari di concessione o di autorizzazione per trasmissioni radiotelevisive anche da satellite o via cavo, (…) di acquisire (…) più del sessanta per cento dei diritti di trasmissione in esclusiva in forma codificata del campionato di calcio di serie A o, comunque, del torneo o campionato di maggior valore che si svolge o viene organizzato in Italia”. In sede di conversione (avvenuta con la legge 29 marzo 1999, n. 78), colmando una lacuna del testo originario, l’art. 2 viene modificato, disponendo, in aggiunta a quanto sopra riportato, che “ciascuna società di calcio di serie A e di serie B è titolare dei diritti di trasmissione televisiva in forma codificata”.
(4) Cfr. Provv. n. 6869 del 10 febbraio 1999 – I362, Vendita diritti televisivi, in Boll. n. 26/1999, di apertura dell’istruttoria, poi seguito dal Provv. 7340 dell’1 luglio 1999, che dichiarò l’illegittimità dell’allora vigente regolamento (poi modificato) della Lega calcio, avente ad oggetto la vendita collettiva dei diritti televisivi del campionato di calcio di Serie A e B e della Coppa Italia, relativamente ai periodi 1993/96, 1996/99 sino al gennaio 1999, in quanto diretto alla fissazione dei prezzi.
(5) Cfr. il citato Provv. n. 16280, par. 161 a pag. 53.
(6) Questa citazione, come la precedente, sono tratte dal comunicato stampa dell’Agcm del 5 gennaio 2007.
(7) Il ritorno alla contrattazione collettiva è previsto in un disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei ministri nel luglio scorso, proprio per far fronte agli squilibri emersi in occasione di Calciopoli.

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  1. daniel

    Credo che la vendita collettiva dei diritti tv attui una maggiore perequazione nella distribuzione delle risorse tra le squadre partecipanti al medesimo campionato, ma bisogna considerare un ulteriore aspetto della vicenda: le squadre più blasonate, che giocano le competizioni europee, saranno penalizzate dalla nuova pratica e potranno disporre di minori risorse per competere a livello europeo. si attua in questo modo una discriminazione delle squadre italiane rispetto a quelle europee che possono beneficiare della vendita individuale dei diritti tv. perchè non uniformare la materia a livello europeo?!

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