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Quella globalizzazione che passa da Pomigliano

La discussione sulla vicenda della Fiat di Pomigliano ha fatto emergere una visione statica e troppo semplificata della globalizzazione. Che non lascia spazi all’iniziativa politica, se non per l’eventuale chiusura protezionistica. E così di fronte alla corsa al peggio nelle condizioni di lavoro non resterebbe altro che la rassegnazione. Invece l’alternativa esiste. E sono proprio i paesi emergenti a offrire esempi di buone politiche orientate al futuro con i massicci investimenti nell’educazione. Su questo, un paese in ripiegamento come l’Italia, farebbe bene a riflettere.

Le recenti polemiche sullo stabilimento Fiat di Pomigliano sono state l’’occasione per parlare di globalizzazione e dei vincoli che essa impone. Così, Luciano Gallino sviluppava su “Repubblica” alcune considerazioni su globalizzazione e lavoro, che ben rappresentano un diffuso modo di vedere. (1)
Secondo Gallino, la “globalizzazione, ormai senza veli (…) è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale” in base alla quale le imprese americane e europee “vanno a produrre nei paesi dove il costo del lavoro è più basso”, con il rischio di vedere “spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi, affinché si allineino a quelli dei paesi emergenti”.

AUTO E DEL COSTO DEL LAVORO

È vero che in quanto “integratore della frammentazione” l’’impresa multinazionale può sfruttare a proprio vantaggio la diversità dei mercati del lavoro, in fatto di sistemi giuridici e normativi, di politiche, di regimi salariali, e la stessa difficoltà per i sindacati a organizzarsi su scala multinazionale. Entro certi limiti, le multinazionali possono anche mettere in concorrenza stabilimenti di diversi paesi, in particolare quando si deve decidere dove localizzare un nuovo progetto produttivo. Tuttavia, il costo del lavoro non è tutto. Nell’’industria automobilistica, la sua incidenza sui costi totali di produzione è stimabile attorno al 7 per cento: rilevante certo, ma c’’è dell’’altro. Sui costi e sulla redditività aziendale incidono le economie di scala, i volumi di produzione; incidono la qualità e la produttività del lavoro, dunque il livello di istruzione e di formazione dei lavoratori, come pure l’’intensità di capitale fisso e l’’efficienza dei macchinari. La tecnologia, l’’innovazione e il design determinano la qualità del prodotto e il suo costo.
La globalizzazione non consiste soltanto in un mercato integrato, all’’interno del quale unicamente il costo del lavoro determina la competitività delle imprese e le loro scelte localizzative. Questa visione semplificata non spiega perché la fabbrica della Volkswagen a Wolfsburg, coeva e quasi gemella di Mirafiori, sia ancor oggi uno dei più grandi complessi produttivi di autoveicoli al mondo, con una produzione di 736mila veicoli nel 2009, nonostante i salari più elevati del pianeta. Non si spiegherebbe neppure quello che è avvenuto una decina di anni fa, dopo l’’associazione della Turchia alla spazio economico europeo: nonostante costi del lavoro otto volte più bassi di quelli europei, il mercato turco fu rapidamente invaso da veicoli europei, mentre i modelli locali, inclusi quelli Fiat e Renault, poco competitivi, perdevano rapidamente quote di mercato.

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EUROCENTRISMO MIOPE

Non è neanche vero che l’’industria dell’’auto sia drammaticamente colpita in tutto il mondo da un eccesso di capacità produttiva: se cerchiamo di andare al di là del nostro punto di vista eurocentrico, noteremo che il mercato cinese, il maggiore al mondo con 13,6 milioni di veicoli venduti nel 2009, sta crescendo a ritmi vertiginosi in questi mesi, e che l’’offerta non riesce ad adeguarsi al boom della domanda. Non solo: nelle ultime settimane è avvenuto sul mercato del lavoro cinese quanto è logico attendersi in una situazione di crescita rapida e prolungata. Si è aperta la strada a rivendicazioni salariali, si sono moltiplicati gli scioperi e i lavoratori cinesi hanno ottenuto rilevanti aumenti salariali , pari al 25 per cento nel caso della fabbrica Honda di cambi e trasmissioni di Foshan, nella ricca provincia costiera del Guangdong. In un’’altra fabbrica della Honda a Zhongshan, i dipendenti hanno eletto propri delegati al di fuori del sindacato ufficiale, controllato dal Partito, come riferisce l’’indipendente China Labor Bulletin di Hong Kong.
C’’è dunque anche un movimento opposto di crescita salariale e di miglioramento delle condizioni di lavoro che si annuncia nei paesi emergenti. E che non stupisce, se ripensiamo allo straordinario processo di crescita, anche salariale, di un paese come la Corea del Sud nell’’ultimo quarto di secolo.
Una visione statica e troppo semplificata della globalizzazione conduce a una conclusione pessimistica, che non lascia spazi all’’iniziativa politica al di fuori di un’’eventuale chiusura protezionistica, che sarebbe disastrosa, o della rassegnazione di fronte alla corsa al peggio nelle condizioni di lavoro. Invece l’’alternativa esiste: sul terreno della formazione, dell’’innovazione e della ricerca, dell’’investimento nella scienza e nella tecnologia. Proprio i paesi emergenti, di ieri e di oggi, investono massicciamente nell’’educazione primaria e secondaria, nella formazione professionale, nell’’università e nei centri pubblici di ricerca: offrendo esempi di buone politiche orientate al futuro, su cui forse un paese in ripiegamento, come è oggi l’’Italia, farebbe bene a riflettere.
(1) Luciano Gallino “La globalizzazione dell’operaio”, La Repubblica, 14 giugno 2010.

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La risposta ai commenti

16 commenti

  1. Fabio

    Lei dice " Sui costi e sulla redditività aziendale incidono le economie di scala, i volumi di produzione; incidono la qualità e la produttività del lavoro, dunque il livello di istruzione e di formazione dei lavoratori, come pure l’intensità di capitale fisso e l’efficienza dei macchinari. La tecnologia, l’innovazione e il design determinano la qualità del prodotto e il suo costo.". Tutto vero ma, anche se non nel breve periodo, economia di scala e quindi volumi possono essere "esportati" nello stabilimento polacco,brasiliano etc… per quanto riguarda poi il fattore qualità e produttività del lavoro nonché istruzione sinceramente non so quanto a Pomigliano e nel sud Italia in generale siano davanti ad altri stabilimenti esteri; comunque non ho dati ma sarebbe utile saperne di più. Ci rimane come grande vantaggio, il design, la capacità inventiva, l’esperienza, magra consolazione e credo fattore di scarso appeal per lasciare uno stabilimento dalle nostre parti.

  2. Alessio

    Mi piacerebbe integrare le considerazioni, assai condivisibili, espresse nell’articolo, con con un richiamo alle infrastrutture e alla capacità di gestire il futuro. Qualunque produzione non è fatta solo di materiale grezzo e di forza lavoro applicata. Quanto costa in termini di tempo e capitale muovere i materiali grezzi e i prodotti finiti da e per uno stabilimento? Quanto sono capaci politici, imprenditori e sindacati di agire con lungimirnza rispetto ai movimenti del mercato? Che l’auto fosse in sovracapacità produttiva lo si sapeva dalla fine degli anni novanta. Da allora, in certi stabilimenti oggi sulle prime pagine dei giornali, cosa si è fatto? Non c’è solo la formazione dei lavoratori, c’è la capacità di gestire il territorio con infrastrutture che lo servano e non lo devastino, con un credito funzionante, con prezzi dell’energia ragionevoli. Un’ultima cosa: non mi si parli di design. Basta con questa storia del design. Gli italiani hanno gusto, va bene, ma il gusto non è un monopolio italiano. Perché un’Audi attuale è enormemente più bella (mi limito a questo) di una Lancia attuale visto che gli italiani mangiano e vestono meglio dei tedeschi?

  3. Brubo

    Il costo del lavoro nell’industria automobilistica vale quanto la tapezzeria in una casa, circa? E fanno il diavolo a quattro (gli industriali) per un incremento salariale dello 1, 2% Però di fronte alla paga netta mensile in Italia di un operaio della Fiat (arrotondanto) 1.300€ e qualla del corrispettivo cinese 120 dollari, inglobando i recenti incrementi del 20 %. In Cina, quindi, il costo del lavoro per l’industri automobilistica sarebbe lo 0,7%, se in Italia vale il 7%, come riportato nell’articolo? Meno delle differenze inventariali o degli errori statistici di calcolo in un bilancio: stupefacente!

  4. PDC

    Aggiungerei che in generale (non mi riferisco specificamente al settore automotive) sulla decisione di investire in un paese piuttosto che in un altro incidono: 1) l’efficienza (o inefficienza) della burocrazia 2) i livelli di criminalità e corruzione 3) le politiche fiscali più o meno vantaggiose per le aziende 4) i sussidi diretti o indiretti ai comparti ritenuti strategici 5) la manipolazione delle valute 6) la forza (o debolezza) dei sindacati 7) le aspettative irrazionali Queste ultime riflettono il fatto che, alla fin fine, chi prende le decisioni è pur sempre un essere umano, soggetto a seguire le mode, ad essere irretito da prospettive di Eldoradi immaginari e così via.

  5. Giovanni

    La globalizzazione definita in termini di divisione internazionale del lavoro è garantita come "esportazione" del vantaggio comparato e quindi di specializzazione produttiva da parte del sistema Paese (vedi la Cina) con tutti gli standard qualitativi del lavoro come avviene anche nelle multinazionali.

  6. donty

    Sulla globalizzazione vista da qualcuno come irreversibile, come la corsa al peggio nelle condizioni di lavoro, dico solo una cosa: una volta che tutti gli stabilimenti mondiali fossero allineati sul basso con salari ridicoli e non proporzionati al costo locale della vita (i Polacchi prendono 400 € al mese, ma non credo proprio ne spendano 700 di affitto, tanto per fare un esempio), le automobili da 20.000 (o anche solo 10.000 €) chi le comprerebbe? Paperon de’ Paperoni? Si vede già da tempo in Italia l’effetto della delocalizzazione: tutti coloro che hanno perso il lavoro sono diventati dei "non clienti" di un bel po’ di beni: auto, elettrodomestici, cellulari, vacanze in hotel, e chi più ne ha, più ne metta. D’altronde, uno che non lavora non riesce neppure a mangiare, figuriamoci comprare beni più o meno voluttuari. E quindi? Tutti questi geni d’imprenditori che vanno solo alla ricerca del ribasso costi, dove se la mettono (e soprattutto metteranno, tra qualche anno) la sovrapproduzione? Non certo nei Paesi emergenti, a meno che i loro redditi non crescano in maniera consistente … ma allora siamo al punto di partenza, si sono solo invertite le fasce di popolazione abbiente.

  7. Maria Cristina Migliore

    Potremmo cominciare anche a parlare della formazione dei manager e non solo di quella dei lavoratori come fattore di produttività? Possiamo anche parlare di come viene organizzato il lavoro? Anni fa ho avuto modo di leggere il volumetto distribuito dalla Fiat sull’applicazione di "nuovi" metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, basati sul World Class Manufacturing. Sono rimasta impressionata dalla totale assenza di considerazione del fatto che i lavoratori e le lavoratrici siano persone che hanno bisogno di dare un senso a quello che fanno, per essere coinvolte e sentirsi partecipi della mission della loro azienda. Forse prima dei lavoratori, bisognerebbe pensare a quale formazione diamo ai futuri manager delle nostre imprese e a quelli attuali, legati ancora ad una profonda cultura fordista e tayloristica, in cui le persone sono solo fattori di produzione, senza interrogarsi che la ‘capacità di lavoro’ non è separabile dal resto, ovvero la persona nella sua interezza. A questo proposito si legga per esempio Brown, Green, Lauder, 2001 oppure la mia prossima tesi di PhD.

  8. Salvatore Bellino

    Quanto lei dice è fuori discussione, il problema è come venirne fuori. Seat ha la qualità VW a metà prezzo ma è da sempre fonte di perdite, Volvo ha un’immagine di grande affidabilità e sicurezza ed è praticamente scomparsa, Daimler ha perso una montagna di quattrini con Chrysler e così per tanti altri. I guai generalmente vengono da molto lontano; ricordo ancora ai tempi della prima crisi petrolifera VW che dichiarava di vendere partecipazioni per concentrarsi sul core business (già allora) auto mentre il nostro mago dell’epoca Umberto Agnelli (amministratore delegato: i CEO non c’erano ancora) che dichiarava che FIAT avrebbe cancellato tre modelli nuovi per risparmiare 1000 miliardi. Col bel risultato di finire gli anni settanta senza un minimo di gamma e sull’orlo della bancarotta, avendoli cominciati da leader europeo.

  9. GP Galimberti

    Trovo quantomeno una "forzatura" affermare che sia rilevante una incidenza del 7% del costo del lavoro sul totale dei costi di produzione, anche se confrontati con quelli cinesi che possono valere 1/10. Il costo del lavoro, anche con economie di scala ottimali, non potrà certo essere annullato, e quì siamo ormai arrivati a livelli importanti. Concordo con il fatto che la redditività di una azienda, la si debba trovare incidendo e operando su altre voci del conto economico, ovviamente più legate agli investimenti.

  10. Angelo

    Dopo aver letto l’articolo e anche i commenti la domanda è: perché Fiat vuole produrre la Panda a Pomigliano? (A maggior ragione dopo un referendum con risultati non soddisfacenti)

  11. Armando Pasquali

    In un suo libro degli anni ’90, Krugman lo definì proprio così. Di cosa si trattava? Del fatto che i costi del protezionismo sono molto più bassi di quello che si vuol fare credere per motivi "simbolici e politici. Ideologicamente, il libero scambio è un’importante pietra di paragone per i difensori dell’economia del libero mercato." ("Il silenzio dell’economia" pag. 111) In un altro libro di quel periodo Krugman negava che il libero scambio potesse danneggiare i lavoratori meno qualificati, salvo poi correggersi nel decennio seguente. Perché allora continuare a impostare il discorso su basi puramente ideologiche? Perché non andare a vedere il mondo reale? Perché non andare in aree in tempo floride, come la Brianza, e cercare di studiare e quantificare l’attuale sfacelo? Le teorizzazioni sulla globalizzazione, dunque, servono a poco o a nulla. Gli economisti devono cominciare a capire che distruggendo il sistema economico precedente hanno gettato le basi per l’attuale crisi sociale, politica e umana. Nel nuovo sistema economico, la politica e la società non esiste più, esistono solo soluzioni individuali: cercare di cavarsela quando tutto intorno frana.

  12. michele f

    Vorrei rispondere alla domanda su come fa la Volkswagen a continuare a produrre quasi un milionie di auto a Volksburg. Innanzitutto la VW produce e vende quantità che viaggiano su un altro livello rispetto a Fiat, e questo a proposito delle economie di scala. Inoltre evidentemente la produttività e l’efficienza di uno stabilimento tedesco sono ancora superiori a quelli di uno stabilimento in un altro Paese. Tra Italia e Polonia invece questa differenza non c’è più (ammesso che ci sia mai stata). Forse la gente si immagina la Polonia come un posto arretrato, mentre lo stabilimento di Tychy già anni fa partecipava e vinceva il WCM. Quindi per quanto marginale sia quel 7%, se delocalizzando produco meglio e spendo meno, perché dovrei stare a Pomigliano? Ah, la differenza di efficienza e produttività non la fanno gli operai, ma le persone che quegli stabilimenti gestiscono.

  13. sandro

    Con gli aiuti di Stato regalati alla Fiat in questi 50 anni, si potevano nazionalizzare tre case automobilistiche! E sarebbe costato molto meno avere una Fiat pubblica, come la Renault o una Wolkswagen in Francia e Germania, che una azienda privata che continuamente richiede incentivi di settore. invece abbiamo una società che è per il libero mercato, e che periodicamente batte cassa al Governo, minacciando chiusure di fabbriche e licenziamenti. E le pratiche che affondano il diritto del lavoro, partono proprio da una delle aziende italiane che maggiormente ha beneficiato di erogazioni pubbliche (dirette, o rivolte ai consumatori come incentivi di settore alla rottamazione). Basti a tutti ricordare la "gestione Valletta" negli anni ’30 con i trasferimenti di sede forzati, in "posti di confino" per gli attivisti sindacali e gli operai scomodi; o la marcia dei quadri che negli anni ’70 ha segnato un primo declino del movimento sindacale. Non sarà un caso che le più rilevanti iniziative o pratiche storiche avverso sindacato e lavoratori, partano da una delle più grandi aziende italiane, per lavoratori e fatturato. Eppure lo stesso fenomeno non si verifica a loro favore.

  14. francemer

    Vorrei integrare il commento di "Donty" perchè lo condivido in pieno. Smettiamo di tornare al passato agli incentivi della vecchia Fiat e così via, altrimenti non risolviamo il problema. La sfida vera è se l’Italia vuole continuare ad essere un paese produttivo e quindi di qualità, il cosiddetto "made in Italy" oppure vuole diventare qualcosa di diverso. Se vogliamo, come io spero, continuare a produrre beni di qualità bisogna rendere competitivo il tessuto italiano. L’operaio italiano non costa tanto, costa tanto la quota di tassazione sul lavoro. E’ inutile cercare di tagliare la pausa o il diritto di sciopero (torniamo indietro di 40 anni? Spero proprio di no) oppure chiedersi perchè la Fiat voglia andare in Polonia. Il vero problema è che le istituzioni devono diminuire i loro costi di gestione perchè oggi sono insostenibili. Se effettueranno questa cura dimagrante e sposteranno una parte della tassazione dal lavoro alla rendita, tornerà ad essere competitiva la produzione italiana. Costerà sempre un pò in più di quella cinese, ma la qualità sarà completamente diversa. Altrimenti andremo tutti a produrre all’estero però poi dovremo guidare autovetture scadenti.

  15. Carlo Turco

    A me sembra che quello che si sta pagando non sono soltanto i cosiddetti prezzi della globalizzazione, ma anche e soprattutto il prezzo di una carenza di lunga data di politica industriale degna di questo nome nel nostro paese. Politica industriale rivolta non tanto a concedere benefici e protezione a settori industriali maturi se non sulla via della vecchiaia, bensì a creare le condizioni infrastrutturali – intese in senso assai lato – capaci di favorire lo sviluppo di nuove attività produttive basate su innovazione, ricerca, sapere, ecc. Affermare, come mi sembra abbia fatto qualcuno, che le somme concesse in aiuti alla Fiat avrebbero consentito di creare un’industria pubblica dell’auto comparabile a Volkswagen o Renault, significa dimenticare completamente cos’era la pubblica Alfa Romeo! Attorno alla questione della produzione dell’auto in Italia mi sembrano prevalere posizioni meramente ideologiche, o di bandiera, che prescindono da una considerazione obiettiva o, più semplicemente, seria, della situazione, dei problemi, delle risposte contingenti e di più lungo termine e largo respiro da ricercare.

  16. Tommaso

    Finalmente una voce razionale e informata sul tema. Complimenti per l’articolo.

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