L’Unione Europea è intenzionata a ridurre lo squilibrio tra domanda e offerta di vino agendo sui diritti d’impianto e reimpianto e premiando l’estirpazione dei vigneti. Non stiamo però parlando di un’economia chiusa e oltretutto l’Europa non detiene più l’esclusiva nella produzione di vino. Il problema principale risiede nel calo strutturale dei consumi domestici e nella crescente concorrenza dei paesi del cosiddetto Nuovo Mondo. La spesa per incentivare l’estirpazione dei vigneti ammonta a oltre un miliardo di euro. Ma sarà del tutto inutile.
In un periodo di drammatiche turbolenze, l’Europa cerca di muoversi verso regole di spesa più rigorose e controlli più efficienti ma, purtroppo, continua a impiegare le proprie risorse in modo inutile, se non dannoso. L’agricoltura, in particolare, rimane un settore in cui gli interventi comunitari sembrano spesso il frutto di pressioni lobbistiche piuttosto che di misure finalizzate ad aumentare l’efficienza.
UN REGOLAMENTO PER IL VINO
Il regolamento Ce 479/2008 relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo persegue l’ambizioso obiettivo di ridurre gli sprechi e uniformare il mercato europeo del vino, rendendolo più efficiente, trasparente e competitivo. (1)
Le misure intraprese sono molteplici, alcune delle quali lodevoli, altre, invece, assai più discutibili. Tra le prime, annoveriamo l’eliminazione dei sussidi destinati alla distruzione delle eccedenze, il sostegno agli investimenti delle aziende, la verifica del rispetto dei disciplinari di produzione affidata non più ai consorzi bensì a soggetti terzi e le misure volte a garantire la tracciabilità del prodotto. (2)
Tra quelle negative figurano, il nuovo sistema di classificazione Vdt/Igp/Dop, nonché la normativa sui diritti d’impianto, reimpianto ed estirpazione dei vigneti che limita fortemente l’impianto di nuovi vigneti e fornisce premi per estirpare quelli già esistenti. (3) L’intera normativa spinge verso un contenimento della produzione con l’obiettivo di aumentare il livello medio dei prezzi e sostenere il reddito degli agricoltori, come riportato chiaramente nel regolamento. (4)
Anche volendo condividere, e non lo facciamo, gli obiettivi delle misure, che tralasciano totalmente di considerare il benessere dei consumatori, il problema risiede nel fatto che l’Unione Europea non è un’economia chiusa e non ha più l’esclusiva della produzione del vino. Nuovi produttori (in primis, Australia, Cile, Sud Africa, Argentina e Stati Uniti) stanno invadendo con i loro prodotti i mercati mondiali, il che tende a vanificare gli effetti della strategia comunitaria di contenimento della produzione in ambito europeo. Il tutto nonostante il costo considerevole sopportato dall’Unione che ha stanziato più di un miliardo di euro per il triennio 2009-2011 per incentivare l’estirpazione di vigneti spesso improduttivi.
Non sarebbe meglio lasciar funzionare il mercato? Col tempo i produttori peggiori uscirebbero spontaneamente dal mercato e vi sarebbero maggiori risorse da destinare all’innovazione delle aziende più competitive e desiderose di puntare sulla qualità. Il tentativo del legislatore comunitario di riequilibrare d’ufficio domanda e offerta in un’economia ormai globalizzata appare costoso e inutile.
SOLUZIONI SEMPRE ATTUALI
Nonostante il sistema economico stia cambiando velocemente, i problemi, e le relative soluzioni, non sembrano mutare in modo sostanziale nel corso del tempo. In un articolo apparso sull’Economic Journal, Charles Gide analizzava in modo lucido e puntuale le cause della crisi del mercato vitivinicolo francese. L’autore rilevava come, secondo molti economisti, la causa principale del crollo del prezzo del vino fosse l’eccesso di produzione, e non esiste allora soluzione migliore che affidarsi all’antica legge della domanda e dell’offerta: il calo dei prezzi indurrà alcuni agricoltori ad abbandonare la coltivazione della vite e ciò porterà a un riequilibrio tra domanda ed offerta.
Secondo l’autore, però, la vera radice del problema non era l’eccesso di produzione, bensì la carenza di domanda, questione ben più seria. (5) Si può, infatti, limitare per legge la produzione di vino, ma non si può certo imporre ai singoli individui di incrementare il consumo di bevande alcoliche. Secondo Gide, per ristabilire un equilibrio tra domanda e offerta, i viticoltori avrebbero dovuto restringere spontaneamente la propria produzione, puntando sulla qualità e non sulla quantità. Ebbene, l’articolo di Gide è stato pubblicato nel 1907..(6)
A cent’anni di distanza, alcuni osservatori restano dell’opinione che si debba offrire una via d’uscita agli imprenditori che non riescono più a essere competitivi, aiutandoli a riconvertire la produzione. In realtà, l’entità degli incentivi per ettaro (da 1.740 a 14.760 euro una tantum a seconda della resa) non sembra essere tale da spingere un imprenditore ad abbandonare la propria attività a meno che questa non sia fortemente in perdita, nel qual caso l’estirpazione avverrebbe anche senza alcun incentivo monetario.
In sostanza, abbiamo l’ennesimo aiuto di stato alla lobby degli agricoltori nell’ambito di una politica agricola comune (Pac) che da oltre cinquant’anni persegue quale obiettivo principale il sostegno dei redditi degli agricoltori a scapito dei consumatori e assorbe metà del bilancio dell’Unione Europea, sottraendo risorse preziose ad altri investimenti più strategici.
Ad ogni modo, è inutile illuderci: in un contesto caratterizzato dal costante calo dei consumi domestici e dalla crescente concorrenza internazionale, non saranno certo le restrizioni all’offerta e i premi all’estirpazione a risolvere l’annoso problema dello squilibrio tra domanda e offerta. Dopo oltre cento anni, ne dovremmo quantomeno prendere atto.
(1) Gli obiettivi dichiarati nel regolamento 479/2008 sono migliorare la competitività dei produttori di vino comunitari; rafforzare la notorietà dei vini comunitari di qualità come i migliori vini del mondo; recuperare vecchi mercati e conquistarne di nuovi all’interno della Comunità europea e ovunque nel mondo; istituire un regime vitivinicolo basato su regole chiare, semplici ed efficaci, che permettano di equilibrare la domanda e l’offerta; istituire un regime vitivinicolo in grado di salvaguardare le migliori tradizioni della produzione vitivinicola comunitaria, di rafforzare il tessuto sociale di molte zone rurali e di garantire che tutta la produzione sia realizzata nel rispetto dell’ambiente (articolo 5).
(2) I sussidi riservati al comparto vitivinicolo europeo venivano destinati per oltre il 75 per cento alla distruzione delle eccedenze, spesso prodotte appositamente per questo scopo.
(3) Gli articoli 91 e 92 stabiliscono i criteri per poter impiantare e reimpiantare vigneti mentre l’articolo 100 quelli per poter beneficiare dei premi all’estirpazione. Il premio è stato articolato in otto fasce variabili in base alla produzione accertata. Si va da 1.740 per un ettaro con resa di 20 hl/ha a 14.760 per un ettaro con resa di 160 hl/ha. Per le due campagne, successive a quella iniziale del 2008/2009, gli importi diminuiranno gradualmente (si veda l’allegato XV del Reg. Ce 555/2008). Il limite massimo all’estirpazione è pari al 10 per cento della superficie totale vitata regionale.
(4) Pagina 2, comma 2 del Reg. 479/2008.
(5) Il consumo pro-capite di vino in Italia, che nel 1970 era superiore a 110 litri, è crollato negli ultimi anni sotto la soglia di 50. Alcuni osservatori ritengono verosimile che il consumo pro-capite sia destinato a stabilizzarsi, in futuro, intorno a 25 litri.
(6) Gide, Charles (1907), The Wine Crisis in Southern France, The Economic Journal, Vol. 17, No. 67, pp. 370-375.
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ANDREA ARALDI
Non potrebbe essere possibile una "tassa sulla bottiglia" di due euro al litro, la potremmo chiamare "il diritto di tappo dell’unione" 🙂 ? Tale tassa potrebbe immediatamente e direttamente essere utilizzata per sostenere i produttori Ue (che potrebbero quindi avere un costo di produzione inferiore e uscire sul mercato a prezzi leggermente più bassi) , incentivando magari i processi di aggregazione che permetterebbero economie di scala a maggiore gestione manageriale, Per una quota (il 20 % della tassa) le entrate potrbbero essere invece girate ai Servizi Sanitari Nazionali (che sopportano l’onere delle cure legate al consumo non responsabile di alcool)! Una "tassa sulla bottiglia" spingerebbe il mercato verso i vini di qualità più alta (2 euro a bottiglia incidono di più su i vini a basso prezzo che non su quelli a alto prezzo).
Confucius
Ma la Comunità Europea non ha il libero mercato come faro che indica la rotta da seguire? Da quando in qua il libero mercato si serve di distorsioni quali tasse sul tappo o quote di produzione (per il latte o per la pesca del sugarello nell’area XYZ da parte di pescherecci battenti bandiera lussembughese)? Chi utilizzava questo criterio di pianificazione ed indirizzo del libero mercato era l’Unione Sovietica, dove il libero mercato non esisteva affatto. Un pò di coerenza: non si può predicare il liberismo e ricorrere poi a cavilli legali per avvantaggiare o mantenere in vita un settore produttivo rispetto ad un altro. Lasciamo che il libero mercato L decida quale produttore merita di sopravvivere perchè più efficiente o di maggiore qualiltà e quale merita di soccombere, senza estorcere denaro al consumatore mantenendo artificialmente alti i prezzi al dettaglio (salvo poi regalare burro alla Russia e polli al Medio Oriente, distorcendo il libero mercato anche oltre i confini dell’Unione Europea).
giovanni stefanecchia
E questa sarebbe la liberale Europa? L’Europa dei consumatori?E’ una vergogna! Questa è economia pianificata (leggi socialista!).In un libero mercato ogni attore si assume la responsabilità delle proprie scelte, rischiando anche i propri capitali se si sbagliano gli investimenti. Questa è l’Europa di una burocrazia ormai in metastasi, dell’assenza della politica e a favore dei contributi ai furbetti.
Mario
Ho letto i commenti dei lettori e sono completamente d’accordo. Ma non è così con quasi tutti i settori dell’agricoltura? A me sembra che l’intera Pac persegua quale obiettivo il reddito degli agricoltori, non certo il benessere dei consumatori. Il tutto con quote (come nel caso del latte), diritti di reimpianto e quantaltro. Possibile che la lobby degli agricoltori sia ancora così forte nel 2010?
Lorenzo Monticone
Da molti anni ormai gli economisti in generale e il mondo universitario in particolare guardano con occhio molto critico al supporto comunitario per l’agricoltura, sostenendo, di fatto, che l’agricoltura è un settore economico come tutti gli altri e che deve soggiacere alle regole del libero mercato. Bisognerebbe però ricordarsi che la produzione agricola, tanto più se, come quella vinicola, spesso legata a realtà produttive piccole e locali, porta con sè valori culturali non commerciabili: chi parla di "più debole" che soccombe nel meccanismo del libero mercato lo fa in astratto. In agricoltura, nella nostra agricoltura, il più debole speso non è il peggiore e per questo va difeso. Perché chiudere un azienda agricola non è come chiudere una fabbrica. Non resta un capannone vuoto: resta un pezzo di terra incolta, e spesso una famiglia in meno a presidiare il territorio. E quelli che discettano di libero mercato, opposti a ipotetiche norme "sovietiche", dove andranno la domenica a fare la loro gita fuori porta? In un bel terreno incolto? Meditate, gente, meditate…
Gregorio Galli
In realtà gli unici veri beneficiari dell’attuale sistema PAC sono: 1) Gli squali che speculano vendendo e comprando quote, titoli e altri pezzi di carta, con la complicità di Stati e UE; 2) Tutta la "filiera lunga" che termina con le più inefficienti (e onerose) di tutte le imprese conosciute: le catene di supermercati. In tutto questo gli agricoltori, quelli tradizionali, riescono a vendere uva, grano o uova solo AL DI SOTTO del costo di produzione. Parlare di "lobby degli agricoltori" è quindi irresponsabile, dato che oggi l’agricoltore medio (da 50 a 300 ha, con produzioni in filiera lunga) fa la fame. Al contrario sono molti quelli che, come il sottoscritto (agricoltore di medie dimensioni e piccolo viticoltore), credono fermamente nell’abolizione della PAC come è oggi e in una VERA liberalizzazione del mercato, che avrebbe l’effetto di porre il consumatore (e la grande distribuzione) di fronte a un secco dilemma: voglio prodotti di alta qualità? Se sì, allora devo pagarne il costo reale, altrimenti mi bevo vino industriale e pollo molliccio.
Nicola Matarazzo
La questione è molto più complessa di quanto riportato e rileva un pregiudizio, la diversa posizione di interesse tra produzione e consumo, dicotomia da superare, in quanto gli interessi di chi produce sono interconnessi con quelli di chi consuma, in un ecosistema limitato. Immagino che quando si parla di lobby si faccia riferimento allagricoltura industriale (perfetto ossimoro dellepoca moderna) e non sicuramente ai vitivinicoltori che hanno sempre subito, ma guarda caso sono ancora lossatura della produzione vitivinicola dei paesi più tradizionali, La nuova regolamentazione europea non mi sembra apporti modifiche sostanziali e/o limitanti alle nostre denominazioni, se non quelle di riportarle nellalveo della regolamentazione più generale delle denominazione previste per tutti i prodotti alimentari nellUE. Infatti la nostra suddivisione rimane valida a tutti gli effetti con le menzioni tradizionali nazionali. Il problema è che disegna un percorso per corazzate del vino, in un mare dove forse sarebbe più opportuno avere dimensioni diverse (vedasi i vini varietali senza indicazione geografica). Ancora una volta, cui prodest?
Giordano Masini
L’unico effetto tangibile della contingentazione è stato quello di far lievitare i costi d’impianto (a causa della necessità di acquistare le "quote", a prezzi talora superiori a quelli degli stessi terreni). Una strenua difesa (protezionistica e corporativa) dell’esistente a cui hanno contribuito le certificazioni d’origine. Chissà se i viticoltori californiani avrebbero avuto lo stesso successo nel proporre al mercato mondiale vini di qualità a prezzi ragionevoli se la loro produzione fosse stata sottoposta a un sistema di vincoli così stringente. Chissà se avrebbero superato le resistenze dei consumatori di vino italiani e francesi se avessero ottenuto dal loro governo unetichetta con scritto vino buono pagandola con la libertà di fare il vino come pareva a loro, cioè ricercando il prodotto migliore al prezzo migliore. Ho provato a raccontare sul mio blog la mia esperienza di viticoltore mancato: http://lavalledelsiele.com/2010/02/02/terra-e-liberta/
Dario Civalleri
Credo che l’Unione Europea farebbe meglio a smetterla di falsare le dinamiche economiche, e, se insistesse, sarebbe il caso di costringerla.
Gianpaolo Paglia
Invece di mettere la testa sotto la sabbia, i produttori di vino italiani, tra i quali sono anche io, dovrebbero decidere di affrontare il mercato sapendo di poter disporre di buone carte, quali tradizione vinicola, varieta’ autoctone, una cultura alimentare importante, una immagine dei prodotti alimentari e della cucina che e’ seguita e amata in tutto il mondo. Invece, il solito difetto ci afflige: il mercato non tira? Cerchiamo di limitare l’offerta, la domanda seguira’. Come da voi chiaramente spiegato, nulla e’ piu’ ottuso che affidarsi a questa soluzione in un mercato globale: se il mio Morellino di Scansano costera’ piu’ del valore percepito dal consumatore, questi acquistera’ un altro prodotto. Tra le azioni di questo tipo adottate a livello nazionale, e della cui legalita’ avrei piu’ di un dubbio: blocco dell’impianto dei vigneti in una determinata Doc o Docg (nel Morellino l’albo dei vigneti e’ "chiuso" dal 2000); decurtazione obbligatoria del 20% delle rese, non per motivi di aumento di qualita’, ma per sostegno ai prezzi (Chianti Classico e ora Amarone); addirittura con la nuova legge 61, i Consorzi potrebbero imporre i prezzi minimi. Ricerca, promozione? Poco o nulla.