La riforma dell’università , contestata da studenti, ricercatori e opposizioni, sembra ormai l’ultima bandiera di un governo in difficoltà. Ma richiede decine di decreti attuativi e tempi lunghi per la sua applicazione. E dunque, se approvata, finirà per aggiungere un’ulteriore dose di incertezza nel mondo universitario. Intanto, sui finanziamenti per l’anno in corso e per il futuro regna la confusione, i concorsi sono bloccati e la valutazione della ricerca è ferma al 2001-2003.
La riforma universitaria procede zoppicando il cammino parlamentare, mentre studenti e ricercatori salgono sui monumenti storici e sui tetti delle università . Alcuni punti qualificanti della proposta del ministro Gelmini (come l’ingresso di persone esterne nei consigli di amministrazione delle università , l’immissione in ruolo dei nuovi professori, gli avanzamenti di carriera dei docenti) diventano oggetto di compromesso tra le diverse componenti della maggioranza di governo. In assenza di correzione complessiva della riduzione dei finanziamenti all’università , l’opposizione sta attuando resistenza al cammino parlamentare, arrivando a invocare l’istanza di incostituzionalità per via del contemporaneo dibattimento della legge di stabilità .
QUESTIONE DI FONDI. E NON SOLO
Nel frattempo ancora oggi le università statali attendono di conoscere l’entità dei finanziamenti attribuiti per il 2010 (non avete letto male: si tratta della distribuzione del Fondo di finanziamento ordinario relativo all’anno in corso!). I fondi per la ricerca sono bloccati: a maggio 2010 sono state presentate domande per un bando di finanziamento pubblico della ricerca, ironicamente denominato “bando Prin 2009” per il quale si attende ancora la nomina definitiva della commissione di garanti che dia avvio al processo di valutazione. In assenza di normativa di riferimento non è possibile bandire alcun tipo di concorsi. E ovviamente incombe la riduzione dei fondi per l’università per il 2011 (un miliardo e 350 milioni di euro). Si dice che ciò sia parzialmente attenuato dall’emendamento alla legge di stabilità (che riassegna per il prossimo anno 800 milioni di euro, senza rivedere il taglio relativo al 2012), ma non è chiaro in quale forma e con quali vincoli questo finanziamento verrà distribuito.
Non sono state predisposte le infrastrutture necessarie per l’attuazione della riforma. La valutazione della ricerca è ferma al 2001-03, e in assenza di nuovi dati ogni ripartizione dei fondi tra gli atenei sulla base del merito ha perso qualsiasi riferimento credibile. La nuova agenzia di valutazione della ricerca (Anvur) non è ancora operativa: non sono stati ancora nominati i componenti del consiglio direttivo e ci vorranno anni prima che la nuova agenzia sia in grado di produrre i primi risultati. È
UN FUTURO PIÙ INCERTO
Ci domandiamo se questo sia il contesto adeguato per introdurre riforme strutturali della portata di quelle proposte nell’originale disegno di legge. Quella che doveva essere una riforma bipartisan della governance universitaria e delle carriere si è trasformata in un rantolo agonico di un governo che deve necessariamente ottenere qualche risultato da sventolare nell’imminente campagna elettorale.
Tutto ciò non ha senso. La nuova legge richiede decine di decreti attuativi (sulla governance, sui concorsi universitari, sui fondi per il merito, e su molto altro) e tempi lunghi per la sua applicazione. Solo un governo nella pienezza dei poteri, oppure decisioni condivise, garantiscono che poi la riforma sia davvero applicata e non venga invece rinviata sine die nelle paludi dei regolamenti attuativi o modificata dal prossimo governo. Non si può aggiungere quest’ulteriore dose di incertezza nel mondo universitario. Citiamo solo un ultimo fatto. La decisione sulla modalità di avanzamento di carriera dell’attuale generazione di ricercatori è di importanza strategica e ha valenza pluriennale (oseremmo dire pluri-decennale), perché modifica gli incentivi delle generazioni future che decideranno di entrare nel mondo della ricerca e incide sulla distribuzione per età del futuro personale docente. Per programmare la propria vita i giovani dottorandi e ricercatori hanno diritto di conoscere all’inizio della carriera regole del gioco stabili e durature. Non è possibile che gli avanzamenti di carriera diventino invece il panem che viene gettato alla piazza arrabbiata, sventolando prima 12mila nuove assunzioni, poi ridotte a 6mila, di cui solo i tre quarti con copertura, in futuro chissà. Non è così che si governa seriamente, né l’università e neppure il paese.
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Federico Biagi
Concordo in pieno con l’aritcolo di Checchi e Jappelli. Mi azzardo a fare un previsione (non molto difficile): il decreto sul FFO verrà firmato (è pronto da settembre ed è già stato valutato dal CUN) immediatamente dopo l’approvazione (o ritiro) della riforma. In sostanza, secondo me, il MIUR non vuole rivelare quanto soldi spettano alle diverse Università (per il 2010: ma vi rendete conto!) semplicemente per evitare che il taglio operato in passato divenga pienamente visibile e quindi incrementi il malumore già così diffuso.
Marcello Romagnoli
Non voglio entrare nel merito del ddl Gelmini che personalmente, dopo attenta lettura, non condivido. La cosa più importante è già stata fatta ovvero il taglio reiterato dei fondi che porterà allo strangolamento di molti atenei italiani. Molti commentatori si affannano a dire che i nostri atenei sono squalificati, le classifiche ci vedono sempre più in basso, una percentuale sempre più grande dei finanziamenti vanno per stipendi, ma non vogliono vedere che ciò non è dovuto alle persone che lavorano nelle università, ma alle loro scelte che poi vogliono fare pagare a altri. Tagliare i fondi vuol dire avere un numero di docenti sempre minore e sempre più vecchio dunque questo fa alzare il rapporto studenti per docente, uno dei parametri di valutazione delle classifiche, già oggi a circo 19 mentre la media europea è 15. Meno soldi meno ricerca e dunque meno pubblicazioni (anche se siamo tra i più efficienti al mondo!).
Paolo
Abbiamo troppi atenei, troppi corsi di laurea, troppi docenti ordinari che guadagnano troppo, troppe facoltà inutili, troppi laureati inutili, troppi studenti fuori corso, troppi dipendenti amministrativi che scaldano la sedia, troppi sprechi. I fondi probabilmente sarebbero sufficienti se venissero divisi tra poche università (al massimo 2 per regione).
marco
Sprechiamo pure l’occasione di dare corpo ad una riforma più che decente. In odio al governo buttiamo a mare tutto che poi tanto ci torneremo sopra fra qualche anno o qualche lustro! Mi sembra proprio che si applichi il "muoia Sansone con tutti i filistei". Ma non sarebbe stato meglio collaborare a migliorarla? Lo stato dell’Università non preoccupa? Ma che razza di sinistra abbiamo? Filobaroni, filoparenti, filo ricercatori che non producono? L’argomento della mancanza di finanziamenti non mi pare corretto, in un contesto di crisi economica, cominciamo a tagliare su sprechi e inefficienze, quanto risparmiato si può investire.
Giancarlo Fichera
Si parla tanto di riforma universitaria in termini di risorse finanziarie, mai nessuno, neppure gli studenti, dice che un corso universitario di normale durata si svolge in sole 60 ore!Eppure i libri che si devono studiare per superare quell’esame sono spesso composti di 800-1000 pagine. Ma si può spiegare un argomento che richiede 1000 pagine di testo in sole 60 ore? Un docente, poi, che svolge queste 60 ore nel primo semestre (che normalmente finisce il 15 dicembre, quindi, in realtà è un trimestre), per il resto dei mesi fino a giugno non si vede più in facoltà (salvo per le sessioni di esami, bontà sua) e pensa solo ai fatti suoi, cioè a far soldi con l’autorità che nella sua professione gli dà la sua posizione di accademico! Prima, perciò, dico che bisogna riformare la mentalità degli accademici!
Guido Meak
Buongiorno e grazie a tutta lavoce.info per l’opera di informazione che fate. Nel vostro chiarissimo e super-condiviso articolo del dicembre 2009, mi pare che evidenziate degli elementi positivi del ddl Gelmini e degli elementi negativi. Leggendo quell’articolo direi che il ddl Gelmini, seppure imperfetto, sia comunque un passo avanti. In questo del 26 novembre, voi stessi espandete le critiche su incertezza data dalla complicazione e assenza di chiarezza sui finanziamenti. Mi resta la domanda: il ddl Gelmini peggiora lo status quo o comunque lo migliora anche solo marginalmente? Riformulo la domanda: in un Paese in cui non si riescono a fare le grandi riforme lungimiranti, non è meglio comunque fare anche solo un microbico passo avanti (se poi di questo si tratta) piuttosto che stare fermi ad aspettare una riforma fatta meglio, magari da un prossimo parlamento, o magari mai più da nessuno? Io non ho una risposta chiara. Forse potete aiutarmi. Grazie.
Gianfranco Salvioli
La riforma è contestata da tutti anche se sporadicamente si legge che non è male. Certo la composizione dei docenti (pochi giovani e troppi baroni) e l’eccessiva burocratizzazione (quanti sono gli amministrativi?) sono da correggere con urgenza. Le università devrebbero essere finalmente in grado di collaborare con l’industria come succede un po’ ovunque.
bob
Non entro nel merito della protesta, ma la cosa positiva è che da Torino a Palermo si protesta. Contro una banda che da 20 anni ha fatto di questo Paese una accozzaglia di localismi e politica da condominio, condito da un sottosviluppo culturale che non ha precedenti. Sono un imprenditore piccolo a scanso di equivoci. Ma la parte sana e attiva di questo Paese deve venire fuori e questa protesta è un segnale importante.
lucio sepede
Per una regione o per un’altra l’unica cosa che sta veramente a cuore a molte persone tra le quali gli autori dell’articolo è che l’università rimanga così come è. Sembra che le università italiane siano tra le più qualificate del mondo mentre invece tutti sanno e gli autori dell’articolo anche che sono collocate agli ultimi posti nelle classifiche internazionali. Buon senso vorrebbe che venisse incoraggiata qualsiasi riforma decente e quella della Gelmini non mi sembra che peggiorerebbe l’attuale drammatica situazione.
Massimiliano Rak
Trovandomi in molte delle affermazioni dell’articolo, rispondo a Paolo: Secondo gli accordi di Lisbona tutti i paesi si sono impegnati ad arrivare ad utilizzare il 3% del Pil su educazione e ricerca. Gli altri paesi europei sono attorno al 2 in crescita. L’italia supera di poco l’uno, in calo. (Questi dati sono reperibili ovunque ormai). Il numero di docenti per studente in Italia è inferiore alla media europea. Il decreto Gelmini parifica alcune università telematiche (ad esempio e-campus di CEPU), assegnando loro un FFO (e quindi i pochi soldi adesso li diamo anche ai privati). La riforma dell’università è un problema complesso, non risolvibile con affermazioni semplicistiche o proposte banali, necessità di tempo, investimento e volontà (politica e dell’università).
Paolo Garlasco
Non mi pare, onestamente, che dare grandi poteri a un CdA composto da un rettore, qualche ordinario e almeno tre esterni possa contribuire a una migliore gestione attenta alla missione formativa dell’università: didattica e ricerca. Di fronte a chi sarebbe responsabile questo CdA, il cui unico vincolo nelle scelte (anche strategiche) è un vincolo di bilancio? Senza contare l’imbarazzante precarizzazione del percorso accademico. Se è consentito fare fino a 18 anni di precariato (12 di assegni e borse e 3+3 da ricercatore precario) senza contare il blocco degli scatti stipendiali, chi pensate farà ancora ricerca? Oppure parliamo di lotta ai baroni quando le commissioni per i concorsi rimangono in mano esclusivamente ai professori ordinari. E parliamo di merito senza considerare il diritto allo studio (si veda l’art.4 del Ddl). Considerare queste norme come un miglioramento significa davvero non prendersi la briga di leggere e studiare. Si cominci davvero a discutere seriamente, invece che cercando di approvare questo ddl a tappe forzate.
AM
Alcuni commenti hanno riguardato i cambiamenti apportati alla normativa nei concorsi universitari. A mio avviso sono piccoli miglioramenti, ma non vi è ancora una vera garanzia di equità dei giudizi che rimedi alla posizione di inferiorità di chi si presenta al concorso con validi titoli, ma da isolato, senza padrini e non inserito in cordate organizzate di vario titpo e ispirazione. Infine ritengo del tutto ingiustificata la critica alle commissioni composte solo da professori ordinari. Chi conosce il funzionamento dei concorsi è in grado di comprendere la posizione scomoda dei commissari di livello accademico inferiore. L’obiettivo principale di questi commissari è spesso quello di non inimicarsi i baroni che potranno essere il loro valutatori in futuro.
Armando Rosal
Chiunque abbia fatto un po’ di lavoro di analisi dell’università, scoprirà che un problema dell’università italiana è la "provincializzazione" data da alcune scelte politiche e dalla presenza delle elite locali amiche dei baroni. Gli effetti si sono visti con le sedi decentrate e l’ope legis* di fine anni 90. Rafforzare il potere dei rettori, i quali andrebbero a sceglierisi circa il 30% del CdA, sarebbe unna mossa assurda, conoscendo le colpe degli ordinari, perché sappiamo di vivere in Italia e a nessuno interessa il bene pubblico. Oppure i P.O. manterrebbero il potere di reclutare chi vogliono. Quindi il problema non mi sembra neanche ridotto. Una proposta interessante sarebbe quella del ruolo unico abbinata alla cooptazione. Almeno qualcuno risponderebbe direttamente delle scelte, esse sarebbe trasparenti e lo strapotere dei baroni verrebbe ridotto in senato accademico ed in CdA.
Salvatore Rapisarda
La scelta del Governo non è casuale. Istruzione, scuola e università non sono necessarie per una società che deve tendere ad azzerare il costo del lavoro per "competere" con i paesi più poveri del mondo anzi sono un evidente impiccio. La precarizzazione del lavoro è necessaria a creare nuovi schiavi che hanno bisogno di protettorato politico e devono tollerare questi politici, mentre la meritocrazia per i poveri ed i disgraziati non è altro che un modello per rendere perennemente schiavi e ricattabili e quindi per non rendere meritocratifca la classe politica. La politica non fa altro che usare in continuazione "cavalli di Troia" per conquistare nuove cittadelle e ottenere nuove clientele. Ai ministri il merito di contribuire a fermare la fuga dei cervelli fermandone la produzione.
rosario nicoletti
L’articolo di Checchi e Jappelli centra il problema. La parte buona del DDL sarà realizzata forse e chi sa quando. La parte che peggiora l’esistente – la governance ed il reclutamento – sono invece di immediata attuazione. I tre "laici" nei CdA non cambieranno un bel niente, così come erano solo decorativi i due o tre estranei (rappresentante del Ministero P.I. e dell’Intendenza di Finanza) nei CdA presenti prima della "autonomia". Specie quando la loro scelta è lasciata agli Statuti. Il reclutamento perpetuerà orrori ed errori dei concorsi locali: l’idoneità non sarà negata ad alcuno, e la scelta sarà degli atenei.
Gemma Menigatti
Mio genero dopo 10 anni di precariato, vedendo vincere i concorsi dai parenti o amici dei "baroni", ha vinto il concorso per ricercatore a tempo indeterminato, solo perché la "protetta" di turno non si è presentata all’orale. Era contento, ma ora questa maledetta riforma lo ha ripiombato nell’incertezza. L’intento del ministro non era di "ringiovanire" il corpo docente? A queste condizioni si diventerà professori già vecchi.
Alberto Rotondi
Per trasformare lUniversità occorrono nuove scelte, molto più drastiche di quelle presenti timidamente nella nuova legge: 1) Individuare i centri di eccellenza e sostenerli economicamente. 2) Dare ai dipartimenti e ai gruppi di ricerca libertà nella assunzione del personale. 3) Rivalutare il merito non con i complicati meccanismi concorsuali attuali o con quelli previsti dalla nuova legge, ma legando in modo chiaro finanziamenti, posizioni accademiche e stipendi alla qualità dei risultati ottenuti dal docente nellinsegnamento e nella ricerca. 4) Abolire i concorsi, almeno nella maggior parte dei casi e sostituirli con la cooptazione dei giovani migliori da parte dei gruppi di ricerca e dipartimenti. Infatti, in questo sistema, chi non assume i migliori è inevitabilmente condannato al declino professionale, accademico e stipendiale. 5) Obbligare o incentivare fortemente ad assumere ricercatori e docenti provenienti da sedi esterne. Questa, ad esempio, è la regola in Germania: chi vuole un posto deve cercarlo fuori dallUniversità dove si trova. 6) Riservare una quota di posti esclusivamente a ricercatori stranieri.