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SARÀ RECESSIONE. E SARÀ GRAVE

Le regole europee impongono deflazione nei paesi squilibrati e i programmi di austerità la realizzano. L’applicazione di stime Fmi al consolidamento fiscale italiano mostra che l’assenza del cambio e la simultaneità dell’aggiustamento europeo rendono molto più gravoso l’impatto recessivo rispetto all’esperienza del 1992, quando si adottò una manovra simile. Solo un intervento della Bce, volto a sradicare le aspettative sfavorevoli dei mercati, orienterebbe in senso positivo un percorso altrimenti autodistruttivo. 

L’interrogarsi sull’impatto più o meno depressivo della manovra di finanza pubblica ha qualcosa di curioso. Sembra sfuggire che la manovra deve essere recessiva. Se non lo fosse o se, grazie a una magia delle aspettative, avesse addirittura effetti espansivi sulla domanda per consumi e investimenti sarebbe un problema. Si dovrebbero mettere in campo nuove misure fiscali di restrizione. Non è un paradosso. È il meccanismo di riequilibrio vigente nell’euro che comanda recessione. L’aggiustamento degli squilibri intra-area è esclusivamente a carico dei paesi in deficit di competitività e indebitati. E si deve espletare attraverso la contrazione della loro domanda interna e l’abbassamento delle dinamiche di prezzi e salari sotto quelle dei paesi “virtuosi”. Null’altro viene prescritto, men che meno per le economie in surplus che sono state concausa degli sbilanci intra-area. (1) Perché si fatica a prenderne atto? L’applicazione della regola europea, ribadita al vertice del 9 dicembre col progetto di una Unione fiscale di stabilità, si incardina su politiche deflative.

L’AMPIEZZA DELLA RECESSIONE

Se recessione da austerità ha da essere, la determinazione di quanto sarà profonda è, tuttavia, soggetta a un alto grado di incertezza per la situazione senza precedenti in cui ci si trova. Francesco Daveri, (https://www.lavoce.info/articoli/pagina1002713.html), propone un interessante confronto con l’altra grande manovra adottata dall’Italia un ventennio fa, quella di Giuliano Amato del settembre 1992 che fu di portata comparabile, nei valori assoluti attualizzati, con quelle cumulatesi dalla scorsa estate. Ma a parte la consonanza di cifre, sussistono differenze rispetto ad allora. Due sono fondamentali: non abbiamo più a disposizione il cambio, che nel 1992-93 si svalutò fortemente sostenendo le esportazioni; non siamo gli unici a stringere in Europa, anzi ci si trova nella pericolosa condizione, imposta dalle regole europee, di una deflazione praticamente coordinata, senza alcuna compensazione di stimolo altrove nell’area.
Per cercare di avere ordini di grandezza dei possibili effetti, tenendo conto delle differenze rispetto al 1992, si può ricorrere alle stime dell’Fmi che ha studiato oltre 170 episodi di aggiustamento fiscale di 17 paesi avanzati nel periodo 1980-2009. (2)
La domanda a cui risponde il Fondo è: quanto è stato, in media nel panel esaminato, l’effetto sul Pil reale di una correzione di bilancio pari all’1 per cento di prodotto interno lordo? L’Fmi fornisce, quindi, delle elasticità di risposta che possono essere utilmente applicate al caso del consolidamento italiano. Procedendo in questo modo si suppone che il Pil dell’Italia reagirà nei prossimi anni all’azione di contenimento della finanza pubblica in modo simile a quanto si è osservato, in media, nelle 17 economie durante l’ultimo trentennio. (3)
La tabella 1 mostra nelle prime righe il valore delle manovre di riduzione dell’indebitamento netto della Pa decise tra luglio e dicembre (le due di Berlusconi e quella di Monti). L’aggiustamento, del 4,8 per cento a regime nel 2014, si modula in correzioni del 3 per cento il prossimo anno, dell’1,6 per cento nel 2013 e dello 0,3 per cento nel 2014. Applicando le elasticità stimate dall’Fmi nella simulazione base (caso A), l’effetto sul Pil italiano è di una perdita cumulata di 2,7 punti percentuali nel periodo 2012-14, concentrata nel 2012 e nel 2013 (quasi 1 punto all’anno) quando maggiore sarà lo sforzo di consolidamento. (4) Tali valutazioni sembrano compatibili con il limite minimo dell’impatto stimato in audizione dal Governatore di Banca d’Italia con riferimento alla sola manovra Monti (ammontante all’1,3 per cento del Pil): almeno lo 0,5 per cento di Pil in meno nell’arco del biennio 2012-13. (5)

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SE NON SI PUÒ AGIRE SUL CAMBIO

Ma è questo il caso rilevante per la situazione italiana? Forse per l’Italia del 1992-93, non per quella di oggi. Le simulazioni dell’Fmi includono esperienze di consolidamento fiscale tipicamente accompagnate da stimolo monetario e deprezzamento del cambio. Il primo ha consentito di contenere la flessione della domanda interna, il secondo ha sospinto le esportazioni nette. Entrambi questi canali di compensazione sono, però, assenti nelle attuali condizioni. Sul fronte dei tassi d’interesse, la politica monetaria ha perso efficacia nella trasmissione degli stimoli al sistema bancario e il rischio più che concreto è semmai quello di un credit crunch che si sommerebbe alla restrizione fiscale. Per il cambio, la svalutazione non può avere luogo per la porzione di interscambio dell’Italia (45 per cento) intrattenuta con i paesi euro, che è quella rilevante per il riequilibrio all’interno dell’area.
Sembrano quindi più vicine all’odierna situazione italiana le elasticità stimate dall’Fmi in assenza di deprezzamento del cambio (e senza, quindi, risposta delle esportazioni nette). Adottando queste valutazioni, il costo del consolidamento fiscale dell’Italia in termini di minore output si amplifica sensibilmente, risultando pari a poco meno di 5 punti percentuali nell’arco del triennio 2012-14; la flessione sarebbe più consistente nel prossimo biennio (-2 per cento all’anno nel 2012-13) e tenderebbe a estendersi al 2014. L’assenza della svalutazione ha dunque un’influenza fondamentale nell’inasprire l’impatto del consolidamento: solo per questo motivo ci si può attendere un’incidenza sul Pil all’incirca doppia rispetto a quanto sperimentato venti anni fa.
Ma anche tali quantificazioni non vanno del tutto bene. Non considerano il fatto che l’Italia non è sola nell’implementare severe misure di risanamento. L’austerità fiscale è perseguita praticamente dappertutto in Europa, anche dalla Germania. Gli effetti sul Pil quando molti paesi adottano contemporaneamente provvedimenti di austerità si accrescono. E ciò è particolarmente vero nel caso europeo dove gli intensi legami commerciali non fanno che amplificare la trasmissione tra le economie di interventi simultanei volti a comprimere le domande nazionali. Ma anche la possibilità di dolorose “svalutazioni interne” viene a essere preclusa nell’attuale contesto europeo: è impossibile che tutti i paesi riescano ad abbassare, allo stesso tempo e nella misura necessaria per il riequilibrio, i loro prezzi e costi rispetto a tutti gli altri partner.
Le simulazioni dell’Fmi, ottenute con una metodologia diversa dalle precedenti, consentono di avere un’idea dell’inasprimento dell’impatto restrittivo di azioni simultanee. (6) Delle varianti analizzate dal Fondo si considera quella in cui l’autorità monetaria non ha spazi per stimoli monetari, più vicina all’attuale condizione europea. Applicando le stime di elasticità al consolidamento italiano (caso C) la perdita di prodotto conseguente all’austerità fiscale si commisurerebbe in circa 8 punti percentuali nel prossimo triennio, con una caduta più forte concentrata nel biennio 2012-13 seguita da un parziale rimbalzo. È possibile che questo effetto risulti sovrastimato nella situazione italiana per il fatto che altrove, fuori dall’Europa, la corsa al consolidamento fiscale non è la regola. Tuttavia è lecito attendersi dalla simultaneità degli aggiustamenti europei un sostanziale rafforzamento dell’impatto depressivo rispetto al caso, più simile all’esperienza del 1992, in cui l’Italia sia la sola a risanare e non benefici di maggiori esportazioni nette.
Qualunque sia lo scenario di base a cui i vari sviluppi presi in considerazione vengono applicati, la prospettiva che ne scaturisce è di una recessione significativa, in particolare se si considera la condizione di “deflazione coordinata” vigente in Europa; in quest’ultimo caso la perdita di prodotto potrebbe essere tale da mettere a rischio la riduzione del rapporto deficit/Pil. Soprattutto la recessione interviene non al picco di un ciclo espansivo, ma quando sono ancora aperte le ferite della flessione precedente. L’output gap è pressoché ovunque ampiamente negativo, i tassi di disoccupazione si situano ben al di sopra dei valori di equilibrio. Anche in un paese come l’Italia, affetto da bassa crescita di lungo periodo, la condizione attuale è quella di una economia che ha carenza di domanda, non di offerta. Le misure di austerità sottraggono ulteriormente domanda aggregata e conducono a un peggioramento del mercato del lavoro. Le misure di inclusione di giovani e donne e la prospettata riforma del mercato del lavoro perdono gran parte della loro efficacia in condizioni di disoccupazione di tipo keynesiano. Si è detto all’inizio che questa è la conseguenza dell’applicazione della regola europea. Essa è resa vieppiù cieca in tempi di crisi del debito: il risanamento deve realizzarsi subito indipendentemente dal ciclo, una prescrizione da anni Trenta. Certo si può sostenere che sono i mercati a imporlo. Ma questo è vero solo nell’attuale modus operandi di regole e rapporti di forza europei. È possibile immaginare, sono tanti a farlo, gestioni diverse della crisi meno costellate da errori e in cui un ruolo attivo, massiccio e convincente della Bce, nell’ambito degli attuali Trattati, riduca i timori degli investitori e allontani la prospettiva di avvitamento autodistruttivo delle economie europee.

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(1) In realtà più di una concausa; sull’emergere di uno squilibrio interno tedesco con un settore manifatturiero ipertrofico, la mancata correzione e le ripercussioni che ne sono conseguite per le tensioni intra-area si rimanda all’articolo https://www.lavoce.info/articoli/pagina1001966-351.html.
(2) L’Fmi ha fornito nell’ultimo biennio un contribuito fondamentale allo studio delle ripercussioni dei consolidamenti fiscali; cfr. Will it hurt? Macroeconomic Effects of Fiscal Consolidation, capitol 3 del World Economic Outlook di ottobre 2010; Guajardo, Leigh e Pescatori (2011), Expansionary Austerity: New International Evidence IMF Working Paper 11/58; Devries, Guajardo, Leigh e Pescatori (2011), A New Action-Based Dataset of Fiscal Consolidation, IMF Working Paper 11/128. La metodologia seguita negli studi del Fondo si basa su una attenta identificazione degli effettivi episodi di aggiustamento fiscale e su una stima panel della risposta media dell’output all’impulso dell’azione di consolidamento attraverso modelli autoregressivi nei tassi di crescita del Pil. In questo articolo faccio riferimento alle stime delle elasticità riportate nel World Economic Outlook di ottobre 2010.
(3) L’Italia è presente nel panel studiato dall’Fmi con 11 episodi di consolidamento fiscale, di cui 4 di grandi dimensioni (superiori o uguali all’1,5 per cento del Pil).
(4) Le elasticità riportate dall’Fmi sono riferite all’effetto cumulato in un biennio. L’identificazione dell’impatto annuale è qui ottenuta dall’evidenza grafica contenuta nel World Economic Outlook.
(5) Vedi http://www.bancaditalia.it/interventi/integov
(6) Le stime degli effetti di consolidamenti adottati simultaneamente da molti paesi sono ottenute sulla base di un modello di equilibrio generale dinamico multi-country.

(1)     Il dato include la parte di manovra che impatta sugli ultimi mesi del 2011 pari a 2,8 miliardi di euro, ovvero 0,2 per cento del Pil

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28 commenti

  1. Carmine La Mura

    Articolo molto interessante, un’analisi molto chiara della situazione attuale e degli sviluppi futuri. Umilmente chiedo se, considerati questi presupposti e fermo restando la politica di risanamento obbligata del debito pubblico italiana, non è il caso di valutare un uscita controllata dall’euro. Questo consentirebbe di attuare un risanamento progressivo e con un impatto minore sull’economia, di sfruttare una svalutazione competitiva che coniugata a serie riforme strutturali in campo sociale ed economico portino alla crescita dell’economia italiana ed allo sviluppo e quindi alla ricchezza futura dei ns. figli. Analisti economici stranieri puntualizzano che le riforme attuali e quelle attuate congiuntamente in Europa non favoriranno la crescita, inoltre, ci sono seri rischi, come anche evidenziato nel lucidissimo intervento di Sergio De Nardis, di un peggioramento futuro del rapporto Debito /Pil. Mi chiedo allora, Perchè tutto questo? Esiste un’altra via? Non è che stiamo favorendo solo la Germania che vanta notevoli esportazioni nell’area Euro? Le Politiche economiche determinano la ricchezza e la povertà delle nazioni, mi auguro che la strada intrapresa sia quella giusta..

    • La redazione

      E’ un esercizio quasi impossibile quantificare gli effetti di una spaccatura della moneta unica. Esistono valutazioni (per esempio di UBS) sulle conseguenze di una rottura dell’euro che tengono conto dei benefici della svalutazione. Queste stime mostrano costi netti molto, molto grandi per tutti i paesi membri. Anche scontando programmi post-disintegrazione di risanamento progressivo quanto più seri possibili, sarebbe ben difficile riuscire a convincere i mercati della loro realizzazione.

  2. Alessio Calcagno

    La crescita la si crea con liberalizzazioni e non con interventi Keynesiani anni 30. Altrimenti che facciamo, arriviamo ad un debito di quanto? 3, 4, 5 Trillion? La manovrà è recessiva perchè aumenta le tasse al posto di tagliare le spese. Se un popolo spende più di quello che produce è giusto che si dia una regolata. Ma secondo lei, professor De Nardis, io spendo il doppio del mio stipendio ogni mese chiedendo soldi in prestito? Se un popolo vuole spendere di più deve produrre di più. Per produrre di più servono le liberalizzazioni. Non aumentare il debito!

    • La redazione

      La crescita di lungo periodo si crea con le liberalizzazioni. L’esperienza dell’ultimo quindicennio di tassi di sviluppo bassi indica che ne abbiamo bisogno: andavano fatte da tempo. Ma le liberalizzazioni sono misure di offerta. Oggi, anche nell’Italia della bassa crescita, abbiamo un problema di mancanza di domanda. E’ un problema di breve periodo. Ma breve periodo non significa secondario. Il breve periodo può durare molto, risultare doloroso e compromettere anche le dinamiche di lungo periodo. Le liberalizzazioni possono aiutare la domanda nel breve periodo? Solo se migliorano le aspettative di imprese e consumatori circa i livelli di produttività e ricchezza futuri. Tali anticipazioni potrebbero condurre a decisioni di spesa più robuste nel momento attuale. Nella situazione economica attuale non vedo però questo effetto virtuoso alle porte.

  3. Luigi Bernardi

    Finalmente una stima non edulcorata degli effetti recessivi determinati dagli interventi di stabilizzazione della finanza pubblica in Italia. Un punto non mi è chiaro: perché la deflazione sarebbe auspicabile (conti pubblici a parte?). Non mi sembra che aiuti né la produttività nè il rinnovo tecnologico. Le varie”riforme” è proposte per la crescita hanno effetti di offerta limitati, incerti e lontani. Giustamente Sergio ricorda gli anni ’30 (1937!) ma oggi sono in pochi a farlo, anche se in compagnia di due premi Nobel (Krugman e Stiglitz). A breve-medio termine resta solo l’espansione della domanda. Come con il bilancio in pareggio (3%?, 0,5% nominale?, 0,5% strutturale?). Vanno invece percorse altre due strade. Primo aumentare la propensione alla spesa di imprese e famiglie, ad esempio detassando gli investimenti e/o obbligando innovazioni tecnologiche, per l’ambiente in particolare. Secondo, redistribuire il reddito ai soggetti con più alta propensione al consumo, ad esempio rimodulando opportunamente la progressività dell’Irpef, a gettito invariato. Gli interventi su pensioni e immobili, in sé giustificati, non mi sembra che vadano in questa direzione.

    • La redazione

      Condivido le preoccupazioni di Luigi Bernardi. La deflazione non la ritengo auspicabile e non migliora produttività e tecnologia. Anzi può depauperare il capitale umano (e quindi la produttività). Un effetto messo in luce dal FMI, non considerato nel mio articolo, è che i consolidamenti fiscali hanno impatti ineguali. Aumentano la disoccupazione, ma in modo sperequato: cresce in misura maggiore la disoccupazione di lunga durata (superiore a sei mesi) che impiega poi un periodo più lungo (5 anni) rispetto alle altre forme di disoccupazione per tornare ai livelli pre-shock; ciò mette in moto dispersioni permanenti di conoscenze. L’ineguaglianza riguarda anche la distribuzione del reddito che va a danno di coloro che hanno una più alta propensione al consumo: la perdita di attività economica dovuta all’austerità si traduce, nelle stime del FMI, in una flessione delle retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti più intensa di quella che sperimentano profitti e rendite reali. Quindi la deflazione indotta da consolidamenti generalizzati ha effetti depressivi su più fronti. Rimane il discorso della strada obbligata e del persistere di una possibilità in prospettiva che la giustificherebbe e ne attenurerebbe gli effetti. La possibilità è che essa rappresenti l’obolo da pagare in una sequenza di mosse che alla fine porterebbero al visto tedesco per un intervento Bce di salvataggio dell’euro e a sostegno al ciclo europeo (azzeramento del credit crunch). Quante probabilità ha questo esito, alla luce di dichiarazioni ufficiali tutte in senso contrario, non saprei dirlo. Subito dopo la definizione della manovra sembrava un percorso quasi possibile, salutato anche dai mercati con riduzioni di spread; oggi, a distanza di qualche settimana, non sembra più così.

  4. Alessandro Pagliara

    Gentile Prof. condivido in pieno la sua analisi. Le sottopongo due questioni: – Sarebbe interessante vedere gli effetti di queste manovre sulla Germania che nonostante tutto ha aumentato notevolmente il debito in termini assoluti. Che convenienza ha ad imporre queste condizioni all’Europa? A me questo proprio non è chiaro. Oppure quando gli effetti arriveranno anche da loro inizieranno a dire che Sarkozy e Cameron in maniera diversa avevano ragione? – La cassazione ha scritto che in Italia girano 42 miliardi di mazzette. Appalti a costi stratosferici, licenze come quelle delle tv o dell’NTV di Montezemolo date gratis. Ok, un aggiustamento strutturale delle pensioni. Ma secondo Lei Mediaset rinuncerebbe a fare TV solo se dovesse pagare le licenze? Stessa cosa per l’NTV: è brutto pensarlo, ma dopo l’uscita di Passera che difende senza ma e senza se l’alta velocità anche auspicando una chiusura degli aeroporti… Siamo proprio sicuri che il corporativismo sia solo nel settore delle farmacie e dei taxi? Inizio a pensare che nonostante i prof. al governo siamo inaggiustabili senza un grosso fattore esterno. De Gasperi arrivò dopo la guerra, non prima!

  5. bob

    “La crescita la si crea con liberalizzazioni”. Magari come quella di Autostrade Spa o delle edicole? Ma mi faccia il piacere!

    • La redazione

      La crescita di lungo periodo si crea con le liberalizzazioni. L’esperienza dell’ultimo quindicennio di tassi di sviluppo bassi indica che ne abbiamo bisogno: andavano fatte da tempo. Ma le liberalizzazioni sono misure di offerta. Oggi, anche nell’Italia della bassa crescita, abbiamo un problema di mancanza di domanda. E’ un problema di breve periodo. Ma breve periodo non significa secondario. Il breve periodo può durare molto, risultare doloroso e compromettere anche le dinamiche di lungo periodo. Le liberalizzazioni possono aiutare la domanda nel breve periodo? Solo se migliorano le aspettative di imprese e consumatori circa i livelli di produttività e ricchezza futuri. Tali anticipazioni potrebbero condurre a decisioni di spesa più robuste nel momento attuale. Nella situazione economica attuale non vedo però questo effetto virtuoso alle porte.

  6. federico

    Bellissimo articolo: circostanziato e tecnico.

  7. Piero

    E’ chiaro che se si vuole eseguire la lezione tedesca, valuta forte per non importare inflazione, paesi piu’ competitivi, occorre diminuire il consumo interno a favore del consumo esterno, quindi piu’ esportazioni, cio’ vuole dire che gli italiano devono rivedere le loro abitudini. In alternativa a cio’ una politica monetaria espansiva tramite la monetizzazione in un decennio, che importa inflazione e permette la svalutazione dell’euro, i consumi in apparenza rimangono gli stessi, pero’ l’inflazione redistribuira’ la ricchezza dalle rendite finanziarie ai lavoratori ed imprese, a questa politica non solo si oppone la Germania ma anche i burocrati bancari, le lobby finanziarie che non potranno fare piu’ affari sulle spalle dell’economia reale. In sintesi sarà’ una grave recessione se si adotta la politica tedesca e delle lobby finanziari, sara’ recessione strisciante se si adotta una politica monetaria espansiva. In ultimo l’idea di fare da prestatori di ultima istanza per i debiti sovrani e’ una pessima idea che spero non venga accolta dalle banche italiane, perche’ sarebbe un’ulteriore mazzata all’economia reale.

    • La redazione

      Tenuto conto della situazione di debolezza in cui già si trova l’economia (e il mercato del lavoro), una recessione, come dice lei, strisciante è preferibile a una  profonda. Il ruolo di prestatore di ultima istanza può essere solo in testa alla Banca centrale.

  8. Andrea Zhok

    L’analisi di cui sopra è lucida e, per quanto l’entità dell’impulso recessivo possa essere oggetto di qualche discussione, il meccanismo che ci porterà in recessione è macroeconomicamente evidente. Che in questa fase, opportunità politiche a parte, l’Italia non sia nelle condizioni di fare un’operazione espansiva anticiclica a debito è ovvio: lo spread impazzirebbe. Liberalizzare certi settori potrebbe consentire di cogliere meglio la ripresa, se e quando si verificasse, ma non può certo crearla. L’unica via d’uscita resta un’operazione espansiva europea, a carico della BCE, con produzione di inflazione. Ciò avrebbe il duplice effetto di svalutare l’euro (facilitando esportazioni) e di rimettere in moto la domanda europea di beni intraeuropei. Il problema tuttavia è dato dal monetarismo spinto dei vertici europei e tedeschi in particolare: secondo De Nardis chi e come potrebbe essere convinta la Merkel? Forse Monti potrebbe, brandendo la nostra debolezza come forza? Dopo tutto nessuno ne uscirebbe bene da un default dell’Italia, neppure la Germania…

    • La redazione

      L’argomento che un default italiano sarebbe molto doloroso per la Germania e quindi alla fine verrà il momento che Merkel…ha del vero, ma vi è insito anche un grande rischio. Si presuppone un capacità di dominare gli eventi da parte dei politici che nella realtà non c’è. Il primo obiettivo di Merkel è la rielezione. La rincorsa di un elettorato ostile a ipotesi di intervento potrebbe portare a perdere di vista il muro verso cui va a scontrarsi col default italiano. L’azione di Monti (che si aggiunge alle precedenti manovre) forse può essere interpretata nel senso di aiutare Merkel a vedere per tempo quel muro. Si fanno i compiti a casa non tanto per tranquillizzare i mercati, che nella crisi euro non ritengono sufficienti gli sforzi dei singoli paesi, ma per convincere la Germania che stiamo pagando per i nostri peccati, che non facciamo azzardo morale (Monti è molto più credibile di Berlusconi) e che quindi può dare il via libera, prima dell’impatto, a interventi europei.

  9. marco

    Articolo illuminante, ma mi chiedo, sarebbe possibile tentare un confronto fra due visioni alternative dell’Italia diciamo fra 5 anni? La prima nell’ipotesi di restare nell’euro, dopo la drastica deflazione ipotizzata, e in compagnia di altri partner euro in analoghe condizioni. La seconda in ipotesi di uscita dall’euro, svalutazione, recessione temporanea seguita da recupero della produzione e esportazioni in un mercato mondiale e in condizioni di vantaggio rispetto agli ex-partner euro che non avranno svalutato.

    • La redazione

      E’ un esercizio quasi impossibile quantificare gli effetti di una spaccatura della moneta unica. Esistono valutazioni (per esempio di UBS) sulle conseguenze di una rottura dell’euro che tengono conto dei benefici della svalutazione. Queste stime mostrano costi netti molto, molto grandi per tutti i paesi membri. Anche scontando programmi post-disintegrazione di risanamento progressivo quanto più seri possibili, sarebbe ben difficile riuscire a convincere i mercati della loro realizzazione.

  10. Roberto A

    A me certe conclusioni come quella della perdita di 8 punti di PIL cumulata e recessione per 3 anni mi sembrano campata per aria e notevolmente esagerate. Forse vorrebbe dirci che la manovra Prodi del 2007 di 15 miliardi avrebbe impattato – prendendo in esame il secondo caso – per uno 0,7 nel 2007,uno 0,4 nel 2008? Quindi,nel 2007 invece dell’1,9 avremmo avuto un 2,6 di crescita? E quindi avremmo avuto una crescita del PIL nominale nel 2007 intorno al 5%, senza quella manovra da 15 miliardi (1 punto di PIL)? Oppure che nel 2010,senza la manovra Tremonti del 2008 di giugno, avremmo avuto invece di una crescita all’1,5, almeno al 2 di PIL reale? Io direi che le cose sono un po’ piu’ complesse e ancora di piu’ nel caso Italia che andrebbero affrontate in maniera un po’ piu’ seria.

    • La redazione

      La manovra Prodi sul 2007 (1% del PIL) è in effetti inclusa nel Panel di episodi su cui il FMI effettua le sue stime di elasticità, quella di Tremonti no.
      Nel 2007 il PIL è aumentato in volume dell’1,7%. Tenendo conto che le condizioni del sistema bancario erano allora più favorevoli delle attuali (le conseguenze del crack di Lehman arrivarono nell’ultimo trimestre), ritengo accettabile la stima che, in assenza degli effetti di contrazione della manovra, il PIL sarebbe aumentato del 2,2-2,4%. Il grande debito pubblico italiano incide sulla crescita anche attraverso le manovre di contenimento fiscale che le esigenze di rientro hanno ripetutamente imposto negli anni.

  11. Lorenzo Lusignoli

    Articolo senz’altro interessante che mette il dito nella piaga: le manovre di risanamento sono recessive ed è proprio questo che ci chiede oggi l’Europa. Allora a me pare che l’Italia si sia infilata in un tombino piuttosto stretto. Monti ne è consapevole quando auspica a seguito della manovra un forte aiuto dell’Europa (politiche economiche e cambio). Il problema è che l’Europa continua a seguire pedissequamente le indicazioni tedesche e che queste ci portano dritte dritte verso una grande depressione. Ne sono ben consapevoli anche gli USA che infatti non perdono occasione per sollecitare inversioni di tendenza. Il paradosso è che oggi le politiche indicate dalla Germania sembrano eccessivamente ortodosse perfino al FMI, che ha mostrato maggiore duttilità dopo la crisi del biennio 2008-2009. Le elezioni tedesche potrebbero arrivare troppo tardi per la tenuta dell’euro. Forse occorre auspicare in un riequilibrio geopolitico a nostro favore nella primavera francese. A prescindere dalle considerazioni sulla manovra, speriamo dunque che gli occhiali di Hollande e quelli di Monti siano adeguatamente graduati per farci uscire da questo permanente stato di miopia.

    • La redazione

      Condivido le considerazioni di Lusignoli, anche sugli sviluppi politici in Germania (il 2013 sembra molto lontano rispetto ai tempi della crisi) e in Francia (qualche possibilità di smuovere gli equilibri con le elezioni del 2012). Una precisazione riguardo al fatto che l’Italia si è “infilata in un tobino”; non c’era possibilità di scelta, la stada era obbligata nella vigente regola europea.

  12. piero

    Come può Monti puntare i piedi se è stato messo a capo del governo italiano dall’accoppiata Merkel/Draghi, a mio avviso si deve andare a votare a primavera e il nuovo governo che viene fuori dal nuovo parlamento farà la scelta giusta, che non sarà altro che fare pressione sulla Merke altrimenti usciamo da questa gabbia monetaria che non è altro che l’euro

  13. maria di falco

    Ma anche rivalutazione di quel che resta delle imprese pubbliche (ad esempio, Finmeccanica). Per rivalutazione del pubblico intendo una gestione delle imprese (penso alle municipalizzate che gestiscono l’acqua e i trasporti) da persone capaci, efficienti ed oneste e non strapagate. Non tutto si può risolvere con il concetto di “mercato”, questo moderno idolo, che poco ci dice ! Il bene pubblico è un bene economico in sè e non c’è alcun bisogno che i dirigenti prendano stipendi alti, non c’è alcun bisogno di liberalizzare i prezzi dell’acqua per valutare l’importanza economica della risorsa acqua. Questo versante e cioè la riqualificazione della gestione delle aziende pubbliche è molto trascurato e tutto viene affidato al mercato. Ma in un modo di 7 miliardi di persone, ce lo vogliamo mettere in testa che la gestione di risorse fondamentali o è pubblica ed efficiente o non è ?

  14. Salvatore

    Se il costo per rimanere nell’area Euro deve essere:
    a) una pressione fiscale del 55% e più per ripagare gli interessi sul debito e quindi ingrossare le casse di finanziatori stranieri
    b) continui fallimenti di aziende che devono sopportare costi del capitale più alti di quelli francesi e tedeschi
    c) Una totale flessibilità del lavoro con conseguente impoverimento della popolazione italiana per consentire alle aziende di scaricare i costi aumentati del capitale sui costi del lavoro d) La vaporizzazione dell’industria italiana venduta a prezzi scontati alle multinazionali estere
    e) Il dissipamento del patrimonio immobiliare pubblico allora ci saranno sufficienti incentivi per noi per dichiarare un Default controllato.
    Questo è un messaggio che Mario Monti deve fornire in modo forte ai partner Europei. I compiti a casa li abbiamo fatti, adesso ci aiutino altrimenti non ci faremo spennare. In questa fase per rendere ancora più credibile il messaggio oltre che per aumentare il PIL incrementerei la spesa militare con una commessa importante a Finmeccanica.

  15. Pierluca Meregalli

    Finora, visto che l’eccedenza della bilancia commerciale Tedesca per il 60% si ha con i paesi Ue,pare che lo sviluppo Tedesco sia avvenuto a spese degli altri paesi Ue. Altro che locomotiva! Adesso che il problema è il debito sovrano,dato l’esito recessivo inevitabile degli aggiustamenti necessari, visto che i mercati credono più alla Germania che agli altri paesi Ue fra i quali noi,forse una azione espansiva sul mercato Tedesco, riducendo l’eccedenza della bilancia commerciale,aumenterebbe la domanda carente negli altri paesi Ue. Altrimenti anche liberalizzando tutto il liberalizzabile saranno lacrime e sangue

  16. Andrea Manera

    Al di là di forzate considerazioni sulla governance europea e su quanto si sarebbe potuto fare sui mercati finanziari, l’effetto di un abbassamento dello spread e delle politiche intraprese dalla BCE a sostegno delle banche, non aiuteranno a frenare almeno un poco la recessione? Non è da considerare il costo-opportunità e l’utilità di una facilitazione del credito che potrebbe in parte stimolare nel breve termine, evitando insolvenze dal grave impatto anche sull’occupazione?

  17. Andrea

    La discesa dello spread e dei costi di finanziamento delle banche, evitando pericolose insolvenze e conseguenti drammatici effetti sull’occupazione non sono da considerare? L’incoerenza temporale non può esserci in tali situazioni per le banche, senza le quali non si può riavviare la crescita. Non sono da tenere in conto i futuri interventi della BCE grazie a una situazione stabilizzata in Italia? Non sarebbe altrimenti peggiore la recessione?

  18. Precario2

    Nel 1992 in effetti Amato fece una manovra molto simile a quella che in questi giorni ha varato il governo Monti. Allora si tassarono le casa (ICI), si presero i soldi dai conti correnti con un prelievo forzoso (oggi sostituito con una più equa tassa di bollo), si modificò il sistema pensionistico. Si può dire che cambiano i musicisti, ma la musica resta la stessa.. Ed a pagare di più sono sempre gli “spettatori” che hanno meno. Detto ciò andiamo al concreto: la crisi finanzaria si è trasformata in crisi reale e, se è vero che è una crisi da debito è altrettanto vero, come dimostrano i dati sui consumi natalizi, che si tratta anche di una crisi da domanda. In passato alle crisi di domanda si rispondeva con politiche keynesiane, ma queste aumentano il debito, cosa proprio non possibile ora. E quindi? Se aumentare la torta non è possibile, l’ottima efficienza Paretiana di dare più utilità ad almeno un soggetto economo senza toccare quella degli altri è ben lontano, in quanto occorre recedere, almeno concentriamosi sull’altro versante dell’economia: l’equità. Redistribuire meglio la torta è a mio avviso imperativo.

  19. Marcello Tava

    È un esercizio un po’ stucchevole questo delle accuse incrociate in mezzo alla tempesta: da una parte i paesi disciplinati rinfacciano ai PIIGS la malgestione fiscale; dall’altra nei paesi viziosi si levano sempre più alte le voci di chi indica nella fissazione per il pareggio di bilancio di Bundsbank e Merkel (ma non va dimenticata la corte costituzionale tedesca) il vero freno per la ripresa economica. Recentemente tra le personalità più note di questo secondo gruppo è emerso Prodi (fondatore di Nomisma, di cui de Nardis è Chief Economist), con un attivismo mediatico sorprendente dopo il letargo degli ultimi anni. Ciò che non convice di quanti intonano il mantra “disciplina=recessione” è che poche volte esso è accompagnato da concrete proposte di sviluppo. I tassi della BCE (1%) indicano che il problema non è (solo) di liquidità ma di politica economica. Allora: se ci fossero i soldi, quale politica economica andrebbe realizzata in Italia? Vorrei sapere quali riforme (escludendo quelle a costo zero) l’autore proporrebbe per convincere i partner a un bail-out. Magari cominciando da un utilizzo più effciente dei finanziamenti UE che l’Italia annualmente si vede revocare.

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