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QUEL MATRIMONIO DI INTERESSE TRA UNIVERSITÀ E IMPRESE *

Tra le cause della bassa crescita dell’Italia figura anche la scarsa spesa in ricerca delle imprese. Ma se il privato non fa abbastanza ricerca, perché non supplirvi con le università? Uno dei fattori che favorisce il trasferimento tecnologico tra atenei e imprese è la prossimità. Non solo quella fisica, però: occorre anche un certo grado di prossimità cognitivo-sociale. In altre parole, l’azienda deve essere capace di creare innovazione in proprio e l’università di produrre ricerca di qualità in campi rilevanti dal punto di vista dell’azienda. Anche un po’ di marketing aiuta.

Si fa un gran parlare dello stato deludente della ricerca in Italia, che si riflette sul ritardo di crescita e di competitività della nostra economia. Con un’incidenza sul prodotto dell’1,2 per cento nel 2008, la spesa in ricerca e sviluppo del paese è bassa, nel confronto con i nostri vicini europei, e non cresce. Resta poi inchiodata a un preoccupante 50 per cento la parte che fa capo alle imprese, riconosciuta come la più dinamica, contro valori anche superiori al 60 per cento altrove. La tenuta del sistema nazionale della R&S, quindi, è garantita dal settore pubblico e soprattutto dalle università.

A CHI SI APPLICA LA RICERCA?

I motivi sono stati ampiamente discussi: le nostre sono imprese piccole, a matrice familiare, capaci di un tipo di “innovazione senza ricerca”, che molto spesso non sfocia nella brevettazione; modello che sarebbe entrato in crisi per la concorrenza di nuovi esportatori e il diffondersi di nuove tecnologie. (1) Ma se il deficit di spesa si concentra nel privato, perché non lasciare che ciascuno faccia il mestiere che sa fare meglio? È plausibile cioè immaginare che le università e i centri di ricerca pubblici si sostituiscano alla (mancata) ricerca (non) condotta dalle imprese vendendo loro i propri prodotti della conoscenza? In fondo, come diceva Albert Einstein, la ricerca applicata non esiste: esistono soltanto le applicazioni della ricerca.
L’ipotesi della supplenza tra privato e pubblico ha una sua attrattiva e in un lavoro recente l’abbiamo sottoposta a indagine più approfondita. (2) La dimensione delle collaborazioni tra imprese e università nel nostro paese è stata rilevata dalla Banca d’Italia direttamente presso le aziende poco prima della crisi. Nel triennio 2005-07 le cooperazioni accademiche interessavano il 22,3 per cento delle aziende italiane, quota quasi doppia rispetto ai tre anni precedenti; ma soltanto nella metà dei casi si è trattato di una collaborazione con finalità di trasferimento tecnologico. Più diffuso tra le aziende maggiori, soprattutto nell’industria (figura 1a), una volta instaurato, il rapporto si è dimostrato stabile nel tempo. Esiste una certa evidenza empirica che le università traggano un vantaggio non solo economico dalla stipula di questi accordi, per allentare un vincolo di bilancio che si è fatto più stringente negli anni; anche la loro produttività, variamente misurata, ne risulterebbe incrementata. (3)

CI CAPIAMO: LA PROSSIMITÀ COGNITIVO-SOCIALE

Dal lato dell’impresa, invece, quali sono i fattori che influenzano la probabilità che stringa un rapporto di collaborazione con l’accademia? Un primo elemento è costituito da quello che potremmo chiamare saper parlare la stessa lingua: i rapporti con l’università sono più frequenti per le imprese dotate al proprio interno di un centro di ricerca, anche piccolo, pronte a recepire innovazione da diversi canali, come l’acquisto di macchinari o brevetti, e sufficientemente grandi da possedere le competenze necessarie per capire e sfruttare i risultati della ricerca. L’ipotesi di una sostituibilità pura e semplice tra ricerca pubblica e privata non sembra corretta: le collaborazioni con l’accademia sono più probabili se un’impresa sa fare innovazione con le proprie forze. L’idea sottostante è che i ricercatori accademici e quelli privati condividano un comune circolo di conoscenze (la cosiddetta prossimità cognitivo-sociale di Boschma), frequentino gli stessi convegni, leggano la medesima letteratura, instaurino relazioni anche informali da cui possono nascere occasioni di collaborazione. (4) Tuttavia, università e industria sono comunità solo parzialmente sovrapposte. Come è evidente dalla figura 1b, è ancora molto diffusa tra gli imprenditori la sensazione di una sostanziale distanza tra la ricerca accademica e le esigenze aziendali, orientate a un’innovazione pragmatica che non troverebbe interlocuzione nel mondo universitario.


STIAMO VICINI: LA PROSSIMITÀ GEOGRAFICA

Il secondo fattore che influenza la probabilità delle collaborazioni accademiche è la vicinanza fisica; non basta però che l’impresa sia vicina a un ateneo qualsiasi: occorre la prossimità a un’università in grado di produrre ricerca di alta qualità in un campo che gli imprenditori valutino rilevante per il business dell’azienda, in sostanza nelle materie tecnico-scientifiche.
L’ultimo esercizio di valutazione triennale della ricerca del ministero dell’Istruzione, università e ricerca del 2006 consente di selezionare gli atenei migliori nelle discipline che le aziende stesse considerano importanti per il proprio settore –individuati mediante un’inchiesta, la Carnegy Mellon Survey, direttamente rivolta ai responsabili delle strutture di ricerca e sviluppo delle imprese, realizzata negli Stati Uniti, ma utilizzata per approssimare la realtà manifatturiera anche di altri paesi. (5) La prossimità geografica gioca un ruolo particolarmente rilevante per la quasi totalità delle imprese, ma soprattutto per quelle piccole; quelle molto grandi, viceversa, stringono alleanze con le università preferite indipendentemente dalla localizzazione. Per loro, la prossimità cognitivo-sociale diventa prevalente e si sostituisce a quella fisica. Su di loro inoltre ha efficacia l’orientamento commerciale dei singoli atenei (il terzo driver), variamente attivi nelle politiche di valorizzazione della ricerca, che però non riescono ad attrarre efficacemente le imprese minori.
Per gettare un ponte tra il mondo dell’impresa e quello dell’accademia, i diversi fattori entrano in gioco in maniera congiunta. La vicinanza fisica di per sé non basta: né le imprese né le università possono semplicemente attendere di venir prescelte per il ballo dal vicino di casa. Le prime devono farsi carico di colmare il gap di conoscenza che le separa dalla comunità scientifica, anche agendo sulla dimensione; le seconde devono puntare a una ricerca di qualità elevata nei dipartimenti rilevanti, non disgiunta da una certa capacità di marketing. Anche l’intervento pubblico, se vuole sfruttare la sinergia tra imprese e università per aiutare a colmare il deficit di innovazione italiano, non può prescindere da questo.

* Le opinioni espresse dagli autori sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’istituzione di appartenenza.

(1) Si vedano in particolare A. Brandolini, M. Bugamelli (coord.) (2009) “Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano”, Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n.45. E A. Bonaccorsi e A. Granelli (2005), “L’intelligenza si industria. Creatività e innovazione per un nuovo modello di sviluppo”. Il Mulino Arel, Bologna.
(2) I risultati presentati si basano sul lavoro D. Fantino, A. Mori, D. Scalise (2011) “Geographic Proximity and Technological Transfer in Italy” Banca d’Italia, mimeo.
(3) E. Breno, G.A. Fava, V. Guardabasso e M. Stefanelli (2002), “La ricerca scientifica nella università italiane. Una prima analisi delle citazioni della banca dati Isi”, Crui, Roma.
(4) R.A. Boschma (2005) “Proximity and Innovation: a Critical Assessment”, Regional Studies 39, 61-74.  
(5) La Carnegy Mellon Survey è descritta in W. Cohen, R. Nelson e J. Walsh (2002), “Links and Impacts: the Influence of Public Research on industrial R&D”, Management Science, 48(1), 1-23. I rapporti Netval descrivono lo stato delle politiche di valorizzazione della ricerca delle università italiane, http://www.netval.it. 

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

12 commenti

  1. marco

    Sono perfettamente d’accordo con l’analisi, il pericolo che mondi troppo chiusi non vengano a incontrarsi è una costante della vita italiana persino di quella sociale; il problema però è studiare leggi e provvedimenti che favoriscano il matrimonio tra i due ambiti, ricerca pubblica e privata- Pensate voi che i passati governi dei tagli preliminari e dell’affossamento della scuola e della ricerca riescano a farlo? Può fare tutto Monti in un anno? Speriamo, ma sono un po’ scettico, alla fine dell’interregno torneranno i soliti maleffatori e pagliacci televisivi……..

  2. umberto

    In Germania esiste da qualche anno un’agenzia pubblica che gestisce con ottimi risultati la produzione di progetti innovativi di ricerca basati sulla collaborazione fra università, ricercatori,scienziati e imprese. Credo sia un ottimo modello da studiare ed eventalmente da ricopiare in Italia. Noi invece fino a poco fa puntavamo sui palazzinari e sul calcioscommesse.Oggi in piena crisi c’è chi si preoccupa più di salvare Cosentino che del debito pubblico. La Germania sarà pure rigida e dogmatica in materia finanziaria, ma ha parecchie cose da insegnarci in altri campi.

  3. alessia

    Mi sono laureata nel lontano 1993 e già allora si parlava della stessa cosa. Trascorsi vent’anni e con la crisi in corso non credo si possa neanche immaginare che questi due mondi possano avvicinarsi. L’articolo mi sembra davvero un esercizio retorico. Una domanda: chi scrive ha idea del livello culturale (nel senso di cultura imprenditoriale e manageriale) medio degli imprenditori italiani e di come si lavora nelle imprese italiane?

  4. Marcello Romagnoli

    La mia esperienza circa la collaborazione tra aziende e università, pur tra luci ed ombre, è positiva. Mi permette non solo di autofinanziarmi la ricerca, ma anche di migliorare la mia didattica portando reali problematiche nei miei corsi. Per favorire il contatto, cosa che entrambe i due mondi hanno assoluta necessità per diversi motivi, occorre creare le giuste condizioni. Sicuramente occorre una maggiore capacità di approcciarsi alla realtà industriale da parte degli atenei, ma anche una riduzione della burocrazia universitaria

  5. Vincesko

    Hanno ragione gli autori. Ma il problema è soprattutto di natura “culturale”. Nel 1986, ho contribuito allo sviluppo di uno “spin-off” in sinergia con la Facoltà d’Ingegneria chimico-alimentare dell’Università di Salerno. Successivamente, sono rimasto in contatto col docente che coinvolsi, poi, nel tempo, diventato preside, rettore e direttore di uno centri di competenza della ricerca messi su in Campania (dall’allora assessore regionale, poi ministro, Luigi Nicolais) e che lamentava una scarsa propensione degli imprenditori campani ad avvalersi della ricerca universitaria. In base alla mia esperienza esiste: a) una carenza dello “spirito giusto” di cui parla Musil che investe l’intero sistema-Paese; b) un’eccessiva “presunzione” dei docenti universitari; c) un deficit culturale degli imprenditori, che li fa essere conservativi e diffidenti; d) l’esigenza quindi di incidere profondamente e principalmente sui 2 pilastri dell’educazione: la famiglia e la scuola, anche per accrescere la propensione al rischio (talora carente anche nei nostri imprenditori); e) la necessità di incentivare lo studio delle materie scientifiche e disincentivare quello delle materie umanistiche; f) potenziare, come suggeriscono gli autori, l’orientamento al mercato dei Centri di ricerca.

  6. Giampaolo Vitali

    Un ricercatore non ha alcun incentivo a favorire il trasferimento tecnologico a favore delle imprese, in quanto questa attività non aumenta le sue pubblicazioni, soprattutto quelle internazionali. Chi ha lavorato con le imprese sa bene che le ricerca che esse richiedono non è particolarmente elevata e che quindi al termine del progetto non ci saranno dati o prototipi con cui redigere articoli internazionali. Al contrario, il ricercatore fa carriera solo se ha tante pubblicazioni su riviste con impact factor elevato. Fintanto che non cambiano gli incentivi mancherà il collegamento tra ricerca pubblica e imprese.

  7. Vincesko

    In merito al fattore R&S, sarebbe utile un’analisi comparativa tra l’Italia e la Germania. In Germania, operano 80 sedi dell’Istituto Max Planck, adeguatamente finanziate dallo Stato, che mettono gratuitamente a disposizione delle imprese i risultati delle loro ricerche. Altrettanto fa l’equivalente italiano, il Cnr. Perché i risultati sono diversi? E’ un problema di risorse, di organizzazione, di interazione inefficiente tra l’Ente e le imprese, di insufficiente orientamento all’innovazione delle imprese? In base alla mia limitatissima esperienza, un po’ tutti questi fattori, ma è soprattutto un problema “culturale”, che include la “propensione al rischio”, materia prima dell’attività imprenditoriale innovativa. La soluzione, quindi, è investire nell’educazione in famiglia (e nella scuola, ma dopo), innovando il paradigma educativo-culturale materno-femminile-protettivo-conservativo, influenzato storicamente e profondamente, almeno al Sud, dalla Chiesa cattolica.

  8. arianna visentini

    Concordo con chi dice che è ora di difendere chi produce (vedi Ricolfi). L’università gode di finanziamenti pubblici ovvero delle ns risorse ed è quindi istituzionalmente chiamata a far crescere il paese. E’ deputata a studiare e innovare e quindi si presuppone possegga le competenze e strumenti che gli imprenditori non hanno. Sono loro quindi che devono colmare il gap di competenze oltre che trovare strumenti per parlare al settore profit senza pregiudiziali. Molta della ricerca va tutelata nella sua libertà di spaziare oltre il mediocre scibile imprenditoriale ma una buona parte dovrebbe occuparsi di risolvere i problemi dello sviluppo.

  9. wolfango pirelli segretario generale cgil lecco

    Nel condividere l’analisi proposta segnalo che sul tema del trasferimento tecnologico dei risultati della ricerca c’è un rapporto interessante prodotto dal COTEC nel 2011 con particolare riguardo alle piccole imprese. Come Cgil di Lecco abbiamo fatto un convegno sul tema il 12 dicembre (gli atti sul sito http://www.cgil.lecco.it ) La nostra proposta è di sostenere delle figure o dei luoghi che possano svolgere un ruolo di facilitazione nel rapporto tra imprese e centri di ricerca superando cosi il gap.

  10. Maurizio

    Non credo che sia possibile favorire una reale collaborazione tra mondo delle imprese ed università senza mettere soldi sul tavolo. La struttura dei costi delle università italiane fa si che una PMI che chiede un supporto deve pagare prezzi fuori mercato. A me non risulta che vi siano università o cnr che mettono a disposizione delle imprese risultati gratuitamente, a meno che non consideriamo risultati le loro pubblicazioni. Quando il risultato è di qualche valore ed accade di rado, è vergognoso che ciò che si è ottenuto con soldi pubblici da ricercatori e professori venga poi sfruttato a loro personale vantaggio senza alcune ricaduta sul sistema produttivo nazionale. Secondo si continua a parlare di un mondo della ricerca italiana virtuale autoreferenziale senza considerare le reali esigenze del mondo produttivo tanto i prof/ricercatori hanno il posto garantito e mille altri rivoli di reddito (consulenze perizie ecc) non rendono conto a nessuno e dunque perché lavorare per le PMI?

  11. AZ

    E’ falsante riferirsi ad Einstein quando da circa 20 anni lo sviluppo scientifico-tecnologico e’ puramente incrementale, sia in campo accademico che in campo industriale. Tale tipologia di sviluppo e’ alla base di una crisi scientifica globale estesa a diversi settori di cui si parla soltanto tra addetti ai lavori, per ora (tra i sintomi significativi ci sono l’aumento della frode scientifica da un lato, e l’aumento delle ritrattazioni dall’altro: il fatto che retractionwatch sia un blog sempre piu’ citato e’ quantomeno indicativo). Questo panorama globale impatta tragicamente su un panorama della ricerca pubblica italiana gia’ in crisi, dove spesso si punta a far numero (di brevetti) nella totale impossibilità di procedere a sistemi della valutazione del merito. Situazione tipicamente inflattiva, dove la massa della cattiva ricerca abbassa il valore della buona ricerca, e dove quindi la maggioranza dell’impresa diffida dell’offerta academica mentre pochi furbi acquistano asset tecnologici da gruppi universitari valenti ma a secco di fondi per una manciata di lenticchie (che viene vista come manna dal cielo). Ma chi vuole sul serio una politica della qualità nel settore?

  12. SG

    La collaborazione tra università ed industria ha funzionato fin quando c’erano dei ruoli chiarì (università=conoscenza, industria=impresa) ed esisteva uno scambio di persone tra i due mondi (ad es. Natta). Quando l’università (ed i centri di ricerca – CdR, ma questa è un’altra storia…) ha fatto solo accademia, puntando alla “carriera scientifica” (leggi pubblicazioni) il rapporto si è affievolito, se non interrotto (ovviamente permanendo le consulenze private…). Da allora intorno alle università (e CdR) si trovano solo industrie (industrie?) interessate a prendere finanziamenti pubblici (nazionali ed europei), lavorando su programmi dettati dalla politica (attraverso i ministeri e l’UE), piuttosto che da reali interessi industriali. Quindi ad ognuno il suo mestiere: l’università formi le competenze e mantenga le conoscenze e l’industria individui i problemi e gli sviluppi del mercato. E la Politica non disperda i soldi pubblici nella sua propaganda.

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