La disciplina italiana delle operazioni con parti correlate si ispira a quella degli Stati Uniti. E tuttavia nel regolamento Consob, o almeno nella sua interpretazione, i piani procedurali e sostanziali appaiono confusi rispetto al modello statunitense. L’indipendenza di chi prende le decisioni.
LA DISCIPLINA ITALIANA E IL MODELLO AMERICANO
La disciplina delle operazioni con parti correlate è stata introdotta da parte della Consob più di quattro anni fa, e anche alla luce di alcuni eclatanti casi, si continua a discutere della sua efficacia: alcuni ne sottolineano l’importanza a tutela degli investitori, soprattutto in un sistema caratterizzato da frequenti intrecci azionari e potenziali conflitti di interessi; mentre altri evocano il rischio di over-enforcement, o quantomeno l’iniquità del fatto che non tutti i componenti gli organi societari sono soggetti alle sanzioni Consob.
Nella discussione viene spesso citato il sistema giuridico americano, e in particolare l’equilibrio tra discrezionalità manageriale e responsabilità degli amministratori, sintetizzato dalla formula della business judgment rule. Il paragone è certamente opportuno, se non altro per il fatto che la disciplina italiana delle operazioni con parti correlate è ispirata all’esperienza nordamericana. Tuttavia, tanto nella formulazione e applicazione delle regole italiane, quanto nelle analisi di studiosi e operatori, molti sono i malintesi circa il funzionamento del diritto americano.
Cominciamo dalla business judgment rule (Bjr). In America gli amministratori di società incorrono in responsabilità se, violando i propri doveri di diligenza, causano un danno alla società. Il problema è che se il rischio di responsabilità è troppo elevato, gli amministratori sono indotti a scelte eccessivamente prudenti, incompatibili con la natura per definizione rischiosa di qualunque attività imprenditoriale di successo. La disciplina deve quindi sanzionare gli abusi più significativi, senza tuttavia limitare eccessivamente la discrezionalità dei gestori.
Una delle strategie sviluppate dalle corti americane è appunto la business judgment rule. La più rigorosa definizione la descrive come la presunzione che, nello svolgimento dei propri compiti, gli amministratori hanno agito in modo informato, in buona fede e nell’interesse della società. Attenzione: si tratta, come dicono i giuristi, di una presunzione “relativa”, ovvero che gli attori possono superare, e ottenere il risarcimento dei danni, al ricorrere di diversi presupposti. Ad esempio, la Bjr non opera se gli amministratori hanno agito in conflitto di interessi. In questo caso sono loro a dover dimostrare l’assenza di responsabilità, ad esempio perché l’operazione contestata è “entirely fair” per la società, ossia non ha causato alcun danno, nemmeno in termini di lucro cessante. Un altro modo per vincere la presunzione della Bjr, per gli attori, è dimostrare che il procedimento attraverso il quale gli amministratori hanno assunto la decisione criticata è inadeguato (si parla di “procedural due care”), ad esempio perché non sono state raccolte sufficienti informazioni per giungere a una scelta ponderata.
Semplificando, si può quindi dire che per via della Bjr i giudici si astengono dal valutare il merito delle scelte gestionali degli amministratori, ma tale deferenza scompare quando gli attori dimostrano, ad esempio, la mala fede degli amministratori, o la presenza di vizi informativi o procedurali nella decisione.
QUANDO GLI AMMINISTRATORI SONO NEGLIGENTI
Luca Enriques, su questo sito, ha affermato che Smith v. Van Gorkom del 1985, è l’unico caso in cui una corte del Delaware ha “giudicato non sufficientemente informati gli amministratori riguardo a un’operazione straordinaria”; ricordandoci inoltre che dopo questa decisione il legislatore del Delaware, per proteggere gli amministratori, ha modificato la disciplina consentendo alle società di adottare “clausole statutarie che escludono la responsabilità degli amministratori per violazione del dovere di diligenza, salvo il caso del dolo”.
Entrambe queste affermazioni richiedono alcune precisazioni. Sebbene sia vero che raramente i giudici americani ritengono negligenti gli amministratori in quanto non sufficientemente informati, Smith v. Van Gorkom non è l’unico caso in cui una corte del Delaware ha ravvisato una violazione del dovere di diligenza per carenza di informazioni. Peraltro, il Delaware, per quanto rappresenti un’importante giurisdizione per il diritto societario, non è la sola, e anche in molti altri Stati si trovano norme e sentenze che collegano diligenza e agire informato. Non sono poi poche le decisioni in cui gli amministratori sono stati ritenuti negligenti per non aver sufficientemente controllato l’operato dei manager, condotta che può considerarsi anche una violazione del dovere di informarsi. Infine, gli amministratori possono essere considerati responsabili anche se sufficientemente informati e in buona fede, quando la decisione assunta, nel merito, risulta irrazionale: ne è un esempio Kamin v. American Express, degli anni Settanta a New York. Si tratta di decisioni rare, ma non impossibili. Per quanto invece riguarda la possibilità di escludere la responsabilità degli amministratori per negligenza in via statutaria, prevista dall’articolo 102(b)(7) della legge societaria del Delaware, non si può dimenticare, tra le altre limitazioni, che la norma protegge solo gli amministratori non esecutivi.
Insomma, la Bjr è una protezione molto importante per gli amministratori, ma non assoluta.
Il punto centrale sollevato da Enriques è però condivisibile: in termini di regole sostanziali, e almeno in teoria, lo standard per la responsabilità degli amministratori è, negli Usa e in Delaware in particolare, più protettivo di quanto sia in Italia, dove il teorema del “non poteva non sapere”, applicato con il senno del poi, può condurre a un eccesso di rigore, ingenerare eccessiva prudenza negli amministratori, se non addirittura determinare una selezione avversa nelle cariche di sindaco e amministratore. Ancora una volta, tuttavia, per completezza si deve anche ricordare che gli azionisti americani, a differenza di quelli europei, hanno a disposizione potentissimi strumenti processuali, dalla discovery (ossia il potere di ordinare alla controparte di fornire tutte le informazioni rilevanti per la controversia), alle class action, per agire contro gli amministratori.
Per quanto riguarda in particolare le operazioni con parti correlate, poi, è certamente condivisibile che le sanzioni dovrebbero concentrarsi (esclusivamente?) su violazioni dolose, non punendo il cosiddetto “honest error of judgment”. Il punto centrale, e che mostra il più importante malinteso sul diritto americano, tuttavia, è un altro.
CORRETTEZZA PROCEDIMENTALE E SOSTANZIALE
La funzione della disciplina delle operazioni con parti correlate è quella di prevenire o reprimere una particolare forma di conflitto di interessi, ossia quella che potrebbe condurre l’amministratore a favorire un soggetto legato alla società a scapito dei propri azionisti di minoranza. Ora, se vi è una stella fissa nel firmamento del diritto societario americano, è la seguente: in presenza di un conflitto di interessi, gli amministratori sono tenuti ad adottare determinate cautele procedimentali finalizzate ad assicurare che la decisione non sia influenzata dal conflitto. Le regole procedimentali sono semplici: la decisione deve essere assunta dai soli amministratori indipendenti, privi di conflitti, e pienamente informati sull’operazione; ovvero deve essere approvata dai soci, pure indipendenti e non in conflitto, e pure a fronte di una completa disclosure. Se queste regole procedimentali sono seguite, la decisione è protetta dalla Bjr. Solo se le cautele procedurali non sono rispettate si può esaminare la “entire fairness” dell’operazione (si legga: la “correttezza sostanziale”). Si noti, in altre parole, l’equazione del diritto americano: rispetto di regole procedimentali volte a neutralizzare il conflitto = impossibilità (o difficoltà) di mettere in dubbio il merito della decisione.
Nel regolamento Consob, o almeno nella sua interpretazione, i piani procedurali e sostanziali appaiono confusi, rispetto al modello statunitense. Per le operazioni di maggiore rilevanza, infatti, il regolamento richiede che siano approvate dal consiglio di amministrazione “previo motivato parere favorevole” di un comitato di amministratori indipendenti e non correlati, pienamente informato, che si deve esprimere “sull’interesse della società al compimento dell’operazione nonché sulla convenienza e sulla correttezza sostanziale delle relative condizioni”.
Ciò può significare, secondo alcuni, che l’approvazione di una decisione non corretta sostanzialmente (espressione, peraltro, intrinsecamente ambigua) rappresenti una violazione della disciplina. Il riferimento alla correttezza sostanziale nel parere degli amministratori indipendenti intreccia, almeno nella prassi, regole procedurali e merito della gestione: significa, di per sé, entrare nel merito delle scelte imprenditoriali.
Questo approccio solleva delicati problemi e può indurre giudici e autorità amministrative a sindacare il merito delle decisioni gestorie degli amministratori. Sarebbe decisamente preferibile un sistema “binario” che, come quello statunitense, escludesse una revisione del merito (ossia, della “correttezza sostanziale”) delle decisioni assunte in un modo idoneo a neutralizzare conflitti di interesse e interessi di parti correlate. Naturalmente le cautele procedimentali devono essere effettive: i decisori devono essere realmente e rigorosamente indipendenti e devono disporre di sufficienti informazioni. È chiaro che il confine tra correttezza procedurale e sostanziale, nella pratica, può risultare sfuggente. Sarebbe tuttavia coerente con esigenze di certezza del diritto e di tutela della discrezionalità imprenditoriale, e non meno protettiva degli investitori, una disciplina che distinguesse più chiaramente correttezza procedimentale e sostanziale, e che limitasse l’esame della seconda ai soli casi in cui non è stata rispettata la prima.
Ovviamente non è affatto detto che questo debba essere il modello di riferimento e si può ben sostenere che la realtà italiana richieda cautele maggiori e maggiore discrezionalità delle autorità amministrative e giudiziarie. Il modello americano, tuttavia, presenta indubbiamente una sua logica e una certa, per così dire, “pulizia” applicativa.
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Antonio Sechi
Condivido le osservazioni. La confusione generata dal riferimento alla valutazione della correttezza sostanziale dell’operazione ha due sole spiegazioni, a mio giudizio. Se non si tratta di un errore tecnico del legislatore, è un chiaro indizio della sua generica sfiducia circa la reale indipendenza degli amministratori indipendenti.Vale a dire, considerato che gli indipendenti non possono considerarsi realmente tali, è parso corretto al legislatore far condividere la responsabilità della decisione sull’operazione (in senso sostanziale, ossia in ottica propriamente gestoria) al comitato indipendenti (i cui membri, peraltro, saranno chiamati a votare in consiglio sull’operazione, se di competenza consiliare, con la relativa responsabilità). Altra confusione mi pare aggiunga il riferimento al coinvolgimento nella fase delle trattative, fase in cui mi pare possa rivelarsi piuttosto difficile instaurare un flusso informativo completo – e soprattutto tracciabile – con gli indipendenti.