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Occupazione: i limiti dei dati mese per mese

I dati mensili dell’Istat su occupati e disoccupati si limitano a pochissimi indicatori. Per evitare spiegazioni congiunturali di dubbia tenuta, è opportuno analizzarli in una prospettiva temporale più lunga. Ed è utile metterli a confronto con i numeri sulle unità di lavoro.
LA PROSPETTIVA DI MEDIO PERIODO
Da quando l’Istat, conformandosi a prescrizioni europee, ha iniziato a diffondere dati mensili sui principali aggregati del mercato del lavoro, ogni mese ascoltiamo commenti sui numeri di occupati e disoccupati che cercano, ricorrendo a supposizioni più o meno plausibili o ardite, di spiegare le variazioni congiunturali di brevissimo periodo. In realtà, i dati mensili resi disponibili dall’Istat si limitano a pochissimi indicatori e nulla ci dicono sulle dinamiche settoriali, contrattuali o orarie che possano giustificarne o spiegarne le variazioni. Per questo, e per la natura campionaria della fonte, è elevatissimo il rischio di gioire (inutilmente) un mese per il miglioramento e di soffrire (altrettanto inutilmente) quello successivo per il peggioramento, scambiando per trend piccole oscillazioni statistiche del tutto compatibili con gli inevitabili problemi di misura. Per evitare spiegazioni congiunturali di dubbia tenuta, è sempre opportuno analizzare i dati mensili collocandoli in una più consistente prospettiva temporale.
Il grafico 1 riporta i dati mensili sugli occupati in Italia per mese dal 2004 a oggi. Emergono nette le due fasi di caduta dell’occupazione, la prima tra ottobre 2008 e marzo 2010 (all’indomani della crisi finanziaria esplosa con il fallimento Lehmann Brothers) con la perdita di circa 600mila occupati, la seconda tra la primavera 2012 e il settembre 2013, con la crisi caratterizzata dai problemi dovuti alla gestione dei debiti sovrani europei e con altri 600mila occupati in meno. Poi l’occupazione ha avvertito, tra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014, un modestissimo rimbalzo (può aver contribuito anche il decreto Poletti), mentre successivamente, a partire dalla fine della primavera, è rimasta sostanzialmente piatta, senza evidenziare nuovi peggioramenti, ma anche senza mostrare di aver imboccato la via del recupero. Per la dinamica dell’occupazione totale questo è ciò che di solido si può sostenere. Per capire se e come, all’interno del dato complessivo, sia cambiata la composizione settoriale e contrattuale, occorre attendere che vengano resi disponibili sia i dati trimestrali dettagliati della medesima indagine sia i dati amministrativi che consentono di valutare anche i movimenti marginali del mercato del lavoro.
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LA DINAMICA DELLE UNITÀ DI LAVORO
Rimanendo quindi al dato totale, per valutare l’entità della perdita occupazionale (circa un milione di occupati in meno tra il primo semestre 2008 e la fine del 2014) è utile il confronto – con i dati disponibili fino al terzo trimestre 2014 – con la dinamica delle unità di lavoro, vale a dire con il dato sull’input di lavoro utilizzato per la contabilità nazionale (grafico 2).
 
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Ciò che emerge è una caduta ben più consistente: oltre un milione di unità di lavoro in meno tra il 2008 e il 2010 e un’ulteriore perdita di 700mila unità tra il 2011 e il 2013, cosicché la quantità effettiva di lavoro utilizzato nel sistema risulta a fine 2014 nettamente inferiore a quella del 2003-2004. Il trend degli occupati è dunque molto meno negativo di quello osservato sulle unità di lavoro perché fornisce un’informazione “sulle teste” che, per definizione, non dà peso alle diverse pratiche di labour hoarding (cassa integrazione, passaggi a part time, riduzione dell’orario di lavoro) attivate dalle imprese e agevolate dal sistema politico per ridurre l’impatto della crisi sui livelli occupazionali.
 

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  1. GIORGIO PADOAN

    I dati mensili a mio modesto parere sono indispensabili ma debbono essere “completi”
    cioè non basta dare solo i disoccupati ma sempre anche il numero degli occupati. il tutto confrontato con i dati del miglior paese in Europa, la Germania.. solo in questo modo si vivono i numeri per il peso che hanno

  2. Giovanni Teofilatto

    La massa monetaria di espansione delle economie tecnologiche esigono una distribuzione solidaristica del capitale umano. In altre parole la nuova occupazione, pieno impiego, è attualizzata da un reddito di Stato per le generazioni in contrasto con l’efficienza produttiva data la tecnologia è crescita economica.

  3. Due osservazioni. La prima per segnalare un banale errore. Fino all’inizio del 2014 era in carica il Governo Letta, quindi il contributo positivo all’occupazione derivava semmai dagli interventi dei ministri precedenti a Poletti. Il secondo punto è una richiesta di chiarimento. Come mai le Unità di lavoro, che dovrebbero indicare la quantità di lavoro necessaria a tempo pieno per produrre il Pil, indicano costantemente una cifra superiore agli Occupati che come sappiamo comprendono anche il lavoro part time? Non dovrebbe essere il contrario? Grazie

    • blokkkkko

      Rispetto alla seconda domanda: le serie mostrate sugli occupati differiscono anche perché le fonti su cui si basano hanno come riferimento due popolazioni diverse. La prima ha come riferimento la popolazione interna, ossia sono gli occupati residenti in Italia, i quali possono essere occupati anche fuori dall’Italia… nella seconda il riferimento è nazionale, ossia sono tutti gli occupati in italia indipendentemente da dove risiedano.

    • bruno anastasia

      Qualche commento ai commenti.
      Le ragioni delle differenze tra serie occupati e serie unità di lavoro sono diverse. Gli occupati sono tratti dall’indagine mensile sulle forze di lavoro, le unità di lavoro dai dati di contabilità nazionale che includono una stima robusta anche del lavoro sommerso/irregolare. Anche a parità di universo comunque i valori esposti possono risultare divergenti: se i doppi lavori e gli straordinari sono più diffusi del part time avremo che le unità di lavoro superano gli occupati, l’opposto accade nel caso contrario. Quanto ai numeri citati nel dibattito pubblico (dal premier come dai TG): in genere non si fa riferimento né alle posizioni di lavoro (contratti, posti di lavoro) né alle unità di lavoro ma agli occupati (teste) perché sono la grandezza rilevata dall’Istat con l’indagine sulle forze di lavoro, l’unica disponibile a livello mensile. Non c’è dunque nessun imbroglio, solo che i dati mensili consentono indicazioni di massima e per scavare dentro le evoluzioni del mercato del lavoro servono anche altre analisi e altre informazioni, indisponibili però con la medesima tempestività.

  4. Franco Bianco

    E’ opportuno chiarire la differenza fra “posizione lavorativa” e “unità di lavoro”. La prima: “E’ definita come un contratto di lavoro, esplicito o implicito, tra una persona e un’unità produttiva residente finalizzato allo svolgimento di una prestazione lavorativa contro corrispettivo di un compenso”. La seconda: “Le posizioni lavorative a tempo parziale (principali e secondarie) sono trasformate in unità di lavoro tramite coefficienti ottenuti dal rapporto tra le ore effettivamente lavorate in una posizione lavorativa non a tempo pieno e le ore lavorate nella stessa branca in una posizione a tempo pieno”. L’imbroglio che viene sfruttato (per esempio, da Renzi e dai suoi sodali) è quello di citare i dati dell’occupazione utilizzando le “posizioni lavorative”, per cui quattro persone che lavorano due ore al giorno figurano come quattro occupati, mentre invece essi, tutti insieme, realizzano una sola “unità di lavoro”. Vedere GLOSSARIO ISTAT a http://www3.istat.it/dati/dataset/20110620_00/glossario.pdf

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