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Palazzi più alti, prezzi più bassi

Il prezzo delle case dipende dal costo di costruzione e, nelle aree densamente popolate, da vincoli all’edificabilità che rialzano le rendite. La (ri)costruzione di edifici più alti ridurrebbe il peso delle rendite minimizzando il consumo di suolo e favorendo così le famiglie con redditi medio-bassi.
Rendite e disuguaglianze
È un’ovvietà economica che il prezzo di un bene, a parità di caratteristiche e di costi di produzione, cresca in proporzione alla sua scarsità, cioè ai vincoli posti alla sua disponibilità. Uno studio di Robert Shiller pubblicato sull’American Economic Review, per esempio, dimostra che i costi di produzione delle abitazioni sono rimasti pressoché costanti in termini reali, ma i prezzi sono cresciuti del 30 per cento negli scorsi 35 anni (eliminando le fluttuazioni cicliche). Inutile anche sottolineare che il problema è molto acuto in termini sociali, perché colpisce in proporzione maggiore i redditi più bassi, le nuove coppie e gli extracomunitari.
L’Economist dedica a questo fenomeno la copertina dell’ultimo numero e articoli di approfondimento (nella sezione “Briefing”), citando evidenze statistiche della correlazione stretta tra vincoli all’edificazione e crescita della rendita urbana. Questo fenomeno si era storicamente ridotto, e di molto, con l’avvento della motorizzazione privata, che aveva consentito un mercato delle case e dei terreni assai più competitivo, ma sembra essersi ripresentato con le “economie di agglomerazione” proprie nelle città caratterizzate dall’industria della conoscenza (valga per tutti la Silicon Valley, ma vengono citate anche Milano, Parigi e Bangalore). In particolare, si cita uno studio di Matt Rognlie del MIT che riporta addirittura alla dominanza di questo fenomeno la crescita “storica” delle diseguaglianze di reddito evidenziate da Thomas Piketty, ma confermate in moltissimi contesti specifici, anche nel nostro paese. Diseguaglianze di reddito che crescendo, per inciso ed in estrema sintesi, assumono anche in questa fase una connotazione pro-ciclica, data la minore propensione al consumo dei redditi più elevati.
Rendite e vincoli all’edificabilità
A livello microeconomico, vale la pena ricordare le analisi comparative di Wendell Cox, basate sul numero di annualità di reddito medio necessari per l’acquisto di una abitazione standard: anche in queste analisi emerge una stretta correlazione tra la “costosità relativa al reddito” (affordability) della casa ed i livelli di vincolo all’edificazione. I vincoli all’edificazione sono messi sotto accusa anche da Krugman, che li considera, come Cox, all’origine dell’alto prezzo delle case in alcune città americane (New York su tutte), con la conseguenza che pochi lavoratori sono in grado di muoversi verso tali città e vengono invece attratti verso città dove l’abitare costa meno, ma la produttività del lavoro e gli stipendi sono inferiori, con conseguente cattiva allocazione delle risorse ed effetti negativi sul tasso di crescita potenziale.
La Figura 1, fornita a titolo di esempio, è presa da una pubblicazione di Cox sul suo sito Demographia, che analizza diffusamente la correlazione tra affordability delle case in funzione del livello dei vincoli edificatori, e si deduce facilmente dai dati australiani e neozelandesi che non è certo la scarsità assoluta del suolo fattore dominante.
I valori minimi del costo delle case relativamente al reddito si registrano a Kansas City, celebre per avere vincoli pressoché nulli. L’Italia si colloca, insieme a tutta l’Europa, su valori medio-alti. Certo: la disponibilità di suolo del Kansas non è esattamente simile a quello italiano, come non è esattamente simile il valore paesaggistico dei due territori. Anzi, il valore paesaggistico di molte parti del territorio italiano è quello di un bene riconosciuto eccezionale a livello mondiale, fonte di rilevanti redditi turistici che si estendono nel futuro, ma costituisce anche un valore culturale irrinunciabile, non riconducibile a mere grandezze economiche. Tuttavia il problema sociale del prezzo delle abitazioni e della distribuzione del reddito permane, ed è accentuato dalla crisi.
boitani
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Come ridurre il peso delle rendite e salvaguardare il territorio
Si propone quindi, soprattutto per i paesi europei, un trade off tra due “beni” socialmente importanti: l’accesso all’abitazione a prezzi ragionevoli e la tutela del paesaggio e del territorio. Nel contesto europeo, dunque, non appare praticabile la soluzione predicata da Wendell Cox per le città americane: rimozione di tutti i vincoli, accentuazione senza limiti dello sprawl urbano e moltiplicazione delle infrastrutture stradali per garantire l’accesso in auto. Pur partendo dalla stessa diagnosi, l’Economist propone invece di accentuare in termini relativi la pressione fiscale sulle rendite urbane (era anche nel 1700 l’intuizione dell’illuminista Tom Payne), ma soprattutto di tassare in proporzione di più l’edificato non utilizzato e l’edificabile non edificato, al fine di aumentare l’offerta per questa via. Un’altra soluzione possibile è quella di ridurre i vincoli all’edificabilità in modo selettivo, favorendo la costruzione di edifici multipiano anche (ma non solo) in aree esterne, dove i prezzi delle abitazioni sarebbero inferiori (i fenomeni di rendita sono indissolubilmente connessi all’accessibilità e alla dotazione di servizi delle diverse aree). Oltre a incoraggiare la demolizione e ri-costruzione di vecchi edifici (di nuovo favorendo l’altezza). Ciò al fine di contenere, dove necessario, il consumo di suolo e di ripartire la rendita fondiaria su un maggiore volume di costruito, con conseguente riduzione del prezzo al metro quadro.
Il ricorso a modelli di edilizia sovvenzionata si scontrano invece, in Italia, da un lato con la scarsità di risorse pubbliche, dall’altro con una serie di esiti negativi dovuti a gestioni clientelari, disattente ai bisogni sociali reali (il diritto acquisito è “per sempre”, senza verifiche nel tempo dei redditi dei residenti, fenomeno unico in Europa), e ancor meno attente all’illegalità diffusa delle occupazioni abusive e al freno alla mobilità territoriale del lavoro generato dal diritto, faticosamente acquisito (o usurpato), a un alloggio sovvenzionato. Ma certo nulla vieta di tentare una seria riforma di questa strategia, importando dal Nord Europa le migliori pratiche e dimostrando che anche l’Italia si può cambiare: in meglio.

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Cronache digitali: partita a scacchi per la fibra

  1. Sergio Brenna

    L’attuale legislazione italiana sarebbe chiara e efficace, senza le deroghe neoliberiste degli anni ’80-’90: se con un piano attuativo ti puoi dotare di tutti spazi pubblici prescritti fai case alte o basse a piacimento, se no prevalgono densità e altezze del contesto. Piuttosto perché non usare la Corte Costituzionale n. 384/2007 che, per rilevanti finalità sociali (edilizia economico-popolare), riconosce possibili riduzioni all’esproprio di pubblica utilità a prezzi di mercato per abbattere la rendita fondiaria parassitaria?

  2. Sergio Brenna

    Boitani e Ponti dicono che permettere case più alte ne diminuirebbe il costo: non si rendono conto che in realtà stanno parlando di una maggior quantità e densità edificatoria, ma vaglielo a spiegare ai valenti economisti che se bevo una quantità smodata di alcol in bicchieri alti e stretti non per questo mi fa meno male!

  3. Luigi Musolla

    Per la situazione italiana la via più veloce per modificare l’attuale situazione è sicuramente (e prutroppo) quella fiscale:
    1. aliquote fortemente progressive alla crescita della rendita immobiliare (slegate da altri redditi)
    2. colpire con fiscalità ad hoc e penalizzante immobili sfitti (ovviamente con un primo periodo di esenzione) ed annullamento dell’edificabilità di un terreno dopo un periodo molto breve (con eventuale successiva ed onerosa richiesta di nuova autorizzazione)
    3. ancora maggiore facilitazione fiscale delle rendite dei proprietari quando affittano (con un tetto massimo però).
    Le altre soluzioni segnalate dagli autori sono a lungo (per l’Italia lunghissimo…) tempo.

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