La svolta decisa dal governo per le infrastrutture medie e piccole dovrebbe essere adottata anche per quelle grandi, abbandonando così l’idea che le opere “strategiche” generino una forte domanda. Altrimenti, dovremo rassegnarci ai cantieri “stop and go”. E al moltiplicarsi dei costi.
Dalla “lista pesante” alla “valutazione leggera”
Il nuovo Programma delle infrastrutture strategiche allegato al Def 2015 contiene alcuni elementi innovativi che sembrano delineare un punto di rottura rispetto alla programmazione passata.
Due sono gli elementi che, a nostro avviso, meritano di essere evidenziati come positivi segnali di svolta:
1) la scomparsa della interminabile “lista della spesa” che da più di un decennio veniva riproposta (ogni anno con qualche appendice in più) e la previsione che le opere non incluse nel documento dovranno essere valutate “a valle di un approfondito confronto con le regioni” nella prossima nota di aggiornamento.
2) la “promessa” di un vero cambio di passo nel medio periodo contenuta nelle linee di indirizzo della prima parte del documento, nel quale si scrive che si vuole puntare (anche) su “investimenti “leggeri” a rapido ritorno (tecnologie, velocizzazioni e rimozione dei colli di bottiglia)”.
Molte, “benedette” e subito
È importante sottolineare come l’ultima indicazione sia in linea con quanto la stessa Rfi, gestore dell’infrastruttura ferroviaria nazionale, ha individuato nei suoi recenti Piani per migliorare la rete esistente e sfruttarla al meglio. Questi investimenti possono beneficiare in primo luogo la domanda esistente (in modo diffuso, praticamente su tutto il territorio italiano) e sono, dunque, assai diversi da opere che dovrebbero servire flussi di traffico che oggi sostanzialmente non esistono.
Come detto nel documento governativo, si tratta di interventi a costi relativamente contenuti, rapidamente cantierabili e con ritorni in tempi ridotti sul sistema economico, spesso ottenuti applicando le più recenti tecnologie (tra i punti forti dell’industria ferroviaria italiana, stimolandone, peraltro, la ricerca e sviluppo).
Una buona programmazione degli investimenti in questa fase storica dovrebbe infatti abbandonare il concetto di “grande opera” e privilegiare un complesso di interventi medi e piccoli e sull’esistente, capaci di

  1. incrementare la capacità della rete esistente nelle aree urbane (ai “nodi”) con interventi tecnologici e limitati interventi “fisici” puntuali;
  2. migliorare le prestazioni (in primis di velocità e regolarità, ma anche in taluni casi la capacità) della rete principale, ad esempio la linea Adriatica e le linee del Sud, potendo proporre collegamenti veloci anche verso territori troppo poco popolati per giustificare nuove linee alta velocità;
  3. incrementare le prestazioni per il traffico merci, che ha problematiche diverse rispetto a quello passeggeri, attraverso l’adeguamento delle sagome sulle linee merci principali non ancora abilitate e l’aumento della lunghezza massima dei convogli, permettendo treni più pesanti.
  4. migliorare “l’ultimo miglio”, cioè i collegamenti e le interconnessioni tra la rete esistente e i grandi attrattori/generatori, quali porti e interporti.
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In effetti, già nel Contratto di programma 2012-2016 tra Stato e Rfi (parte infrastrutture) erano previsti 12 miliardi (di cui 6 disponibili) di investimenti di questo tipo. Non è possibile valutarne qui singolarmente opportunità ed efficacia, ma certamente sono più in linea con i principi sopra richiamati e soprattutto richiedono risorse decisamente inferiori. Forse non a caso sono rimasti un po’ all’ombra della retorica sulle grandi opere, confermando come finora abbia avuto la meglio la prospettiva di massimizzare la spesa piuttosto che il ritorno degli investimenti.
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La pesante ombra del passato
Accanto agli elementi di novità positivi, il Def purtroppo contiene una pesante eredità del passato: vengono infatti riconfermate le sei grandi opere ferroviarie già presenti nelle precedenti versioni (tabella sotto), per un costo di 28 miliardi di euro, di cui 15 già disponibili (che non significa già spesi); e per due di esse – la galleria di base del Brennero e il “terzo valico” dei Giovi – vengono messi a disposizione per il prossimo triennio altri 2 miliardi.
Sembra dunque che si voglia imprimere un’accelerazione ai progetti più dispendiosi (costano ben più di tre volte quanto è costata l’esistente e onerosissima linea alta velocità Torino-Napoli, che però serve le relazioni più trafficate del paese) e la cui passata approvazione si è basata su analisi contestabili e spesso molto datate con previsioni di domanda del tutto irrealistiche e in assenza di qualsiasi analisi finanziaria oltre che di una valutazione comparativa tra di esse che consenta di individuare le priorità.
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Appare dunque assai auspicabile e urgente – per evitare un ulteriore aggravamento della prospettiva del “fatto compiuto” – che la svolta impressa dal governo per le infrastrutture medie e piccole venga adottata anche per quelle “grandi” e che venga abbandonata, per sempre, la malfondata idea che le opere “strategiche” generino copiosa domanda, inizialmente inesistente.
In un contesto di vincoli di spesa perduranti negli anni futuri, finanziamenti non “blindati” e non selettivi possono solo confermare la pessima tradizione dei cantieri “stop and go” che hanno molto contribuito in passato all’esplosione dei costi degli investimenti ferroviari.

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