I porti italiani puntano tutto sul traffico container. Si tratta di un atteggiamento sbagliato: la crescita media annua dei contenitori non è molto elevata, mentre l’ammodernamento continuo delle infrastrutture richiede ingenti risorse. E non è così che si aiutano le esportazioni.
Traffico marittimo e traffico portuale
Il container non può essere preso come unico riferimento per una programmazione portuale di ambito nazionale, perché tale logica sarebbe limitativa rispetto a quanto avviene oggi nel mondo. E proprio per questo è particolarmente importante distinguere tra traffico marittimo e traffico portuale.
Il traffico marittimo rappresenta la quantità di merce effettivamente trasportata via mare, mentre il traffico portuale è quanto viene movimentato in imbarco o in sbarco nel singolo porto o nei porti.
Secondo il rapporto annuale dell’Unctad (United Nations conference on trade and development) “Review of Maritime Transport”, l’andamento storico del traffico marittimo è rappresentato nella figura seguente.
Figura 1
La crescita media annua del traffico marittimo mondiale, nel periodo 2005-2013, è stata del 3,8 per cento. I container sono aumentati del 5,8 per cento, le cinque principali rinfuse solide (cioè, minerale di ferro, grano, carbone, bauxite/allumina, fosfati) del 6,9 per cento. Ancora più accentuato risulta essere il divario tra rinfuse solide e container se si esamina il periodo post crisi 2010-2013: 7,7 per cento per le prime, 6 per cento per i contenitori.
La tabella 3 riportata in fondo rappresenta l’andamento di tutti i paesi dell’UE-28 dal 2000 al 2013.
Da una analisi svolta secondo le diverse modalità di condizionamento, emerge come in Europa nel 2013 soltanto il 20 per cento del traffico portuale sia stato di merce in container.
La tabella seguente (dati: migliaia di tonnellate) mostra l’andamento dei contenitori movimentati in Italia nel periodo 2000-2013 suddividendo i porti cosiddetti gateway da quelli cosiddetti di puro transhipment (sono Gioia Tauro, Cagliari e Taranto).
Vale la pena segnalare come una certa quota di traffico transhipment sia “fisiologicamente” riscontrabile anche in quasi tutti i porti gateway nazionali, pur con valori mediamente inferiori al 10 per cento. Per esempio, Genova, che è il più importante porto italiano gateway, nel 2014 ha dichiarato il 9,7 per cento.
Tabella 1
Come si evince dall’analisi dei dati, fatta salva qualche annualità, il movimentato nei porti gateway supera costantemente i quantitativi relativi ai porti di transhipment. Il record per questi ultimi è stato di 43 milioni di tonnellate nel 2010, mentre quello dei porti gateway è stato di 47 milioni di tonnellate, ottenuto nel 2013. Complessivamente, il risultato del 2013 è ancora inferiore a quanto registrato nel 2007.
Nel periodo 2007-2013, tuttavia, la componente gateway dei contenitori, in un contesto nazionale caratterizzato da una significativa diminuzione dei traffici, è l’unica a presentare una crescita media annua positiva (anche se di poco) tra tutte le modalità di condizionamento, come si evince dalla tabella 2 sotto riportata e dalla tabella 4.
Tabella 2
Infrastrutture costose per i container
L’Italia è un paese di trasformazione ed è la seconda manifattura d’Europa.
Il traffico portuale è fortemente differenziato tra importazioni (soprattutto prodotti energetici e materie prime) ed esportazioni, il 32 per cento delle quali è avvenuto attraverso container nel 2013. Lo sbilanciamento dei flussi in ingresso e in uscita dal nostro paese rappresenta quindi una caratteristica peculiare del sistema industriale e di consumo italiano.
L’obiezione comunemente mossa è che, proprio dalla volontà di sostenere il nostro export, derivi la necessità di un indirizzo programmatico fortemente incentrato sulla modalità del contenitore.
Il ragionamento, tuttavia, è soltanto parziale, nonché foriero di conseguenze molto pesanti in termini di finanza pubblica qualora la programmazione teorica venga declinata in ottica di interventi infrastrutturali.
Se si analizzano infatti i dati della tabella seguente in cui sono riportati, per il periodo 2000-2013, i quantitativi di merce movimentati nei porti gateway italiani sia in imbarco che in sbarco (in migliaia di tonnellate), si evince infatti come a beneficiare maggiormente degli investimenti infrastrutturali (portuali e di ultimo miglio) e dei servizi offerti (di linea e intermodali) siano state soprattutto le merci in importazione.
Tabella 3
La crescita media annua del periodo, infatti, è pari a 4,9 per cento per le merci in import e a 1,9 per cento per le merci in export.
Negli anni, i porti italiani hanno beneficiato di ingenti risorse (leggi 413/98, 166/2002 e seguenti) per potenziare la componente infrastrutturale, in particolare quella relativa ai container: la corsa verso il “gigantismo navale”, infatti, si è acuita nell’ultimo decennio costringendo i porti a effettuare e progettare continui interventi di escavo dei fondali. Ma paradossalmente questi investimenti hanno finito per facilitare l’ingresso delle merci estere sul mercato nazionale, anziché il contrario.
Proseguire su questa strada sarebbe non solo dannoso, ma deleterio (considerati i 2,1mila miliardi di debito pubblico.
Tabella 4 – Traffico portuale europeo (migliaia tonnellate)
Fonte: Eurostat
Tabella 5 – Traffico portuale italiano (migliaia tonnellate)
Fonte: elaborazione dati Istat
L’autore ringrazia per Sandra Bini e Massimiliano Dumini per la collaborazione
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sandogar
Mi chiedo: gli sbarchi di container riguardano solo merci importate in Italia o anche sbarchi con destinazione terrestre finale diversa? In tal caso si sarebbe intercettata una quota di lavoro aggiuntiva.
Franco Vittorini
Condivido l’approccio dell’autore che ha utilizzato i quantitativi espressi in tonnellate anzichè in TEUs che possono essere fuorvianti sia per il peso del transhipment che per quanto rigaurda l’impatto sull’economia in generale. Il contenitore è soltanto una modalità di condizionamento. Per il sistema economico complessivo del Paese occorre ragionare in termini di volumi di traffico, di consumi interni, di import/export, di competitività delle imprese italiane. Che poi avvenga con un numero più o meno grande di contenitori è questione da lasciare ai terminalisti, agli spedzionieri, ai lavoratori dei porti e della filiera del trasporto ma è un elemento marginale nella discussione di sistema.
Condivido anche il riferimento alla necessità di maggiore avvedutezza nell’impiego di capitali pubblici per gli investimenti infrastrutturali.
Sergio Fabiani
Porti gateway e transhipment esattamente cosa vuol dire?
Grazie.
Sergio
Luca Antonellini
Per Sergio Fabiani.
I porti gateway sono porti di destinazione finale . Il principale porto italiano per questa funzione è Genova. Oltre alla parte marittima hanno anche una componente terrestre (magari i contenitori vengono da Milano oppure vanno a Torino).
I porti di transhipment, invece, sono quelli dove il contenitore viene movimentato da una nave ad una altra nave (tocca terra solo per il tempo di sosta). E’ un modello (cd hub and spoke) usato molto negli aeroporti. Ad esempio per andare da Bologna a Miami (non essendoci un volo diretto) transito per Malpensa. Ecco, Malpensa è un polo di trashipment.
Luca Antonellini
Per Sergio Fabiani.
I porti gateway sono porti di destinazione finale . Il principale porto italiano per questa funzione è Genova. Oltre alla parte marittima hanno anche una componente terrestre (magari i contenitori vengono da Milano oppure vanno a Torino).
I porti di transhipment, invece, sono quelli dove il contenitore viene movimentato da una nave ad una altra nave (tocca terra solo per il tempo di sosta). E’ un modello (c.d. hub and spoke) usato molto negli aeroporti. Ad esempio per andare da Bologna a Miami (non essendoci un volo diretto) transito per Malpensa. Ecco, Malpensa è un polo di trashipment.
Per sandogar.
Gli sbarchi di container (ma ciò vale anche per gli imbarchi), riguardano quasi esclusivamente destinzioni (o origini() nazionali.
Fanno esclusione Trieste è, in piccolissima parte, Genova e La Spezia ma con numeri, per il momento, molto ridotti rispetto ai quantitativi movimentati.
Qualcuno sostiene che la sfida sia appunto quella di “allaregare” il bacino di influenza dei porti italiani alle aree/Pesi limitrofi (es. Svizzera, Austria, Baviera). Personalmnte sono convinto che in linea teorica il ragionamento è condivisibile ma che per attuarlo occorrerebbero una pluralità di interventi di cui la parte infrastrutturale avrebbe un costo molto elevato per la finanza pubblica. Non crdo che valga la pena correre un simile rischio sapendo che i coimpeitor, per le aree sopra indicate, sono i porti del Nord Europa sono stati strutturati per mantenere tali business
bob
Ingegnere io credo che il porto rappresenti più di ogni altra infrastruttura il sistema-Paese, quindi senza sistema non si va da nessuna parte. “..i fondali adeguati hanno facilitato l’ingresso delle importazioni innvece che facilitare le esportazioni” Ma i Paesi facilitati sono prima di tutto economie di sistema. Per i porti è successo la stessa cosa folle che si è fatta per gli aereoporti “ognun per se” senza la minima valutazione di fattibilità. La Lega Nord aveva chiesto di fare areporto civile a Vicenza con Bergamo, Brescia, Verona, Venezia e Treviso già attivi.questo rispecchia da chi siamo stati “governati” negli ultimi anni gli anni del declino reale. Non sono un esperto ma credo che si doveva attuare una politica di porti commerciali e porti turistici ma questo non doveva lasciare intendere che ognuno si poteva fare il porto sotto casa, ci doveva essere un piano nazionale che individuava la potenzialità di determinati luoghi . Invece alla fattibilità di sistema il “politico” ha preferito il ritorno elettorale locale in nome della più grande truffa chiamata “federalismo”. Il porto andava, se vogliamo parlare di esportare, progettato valutando il distretto industriale e la sinergia con il sitema stradale-ferroviario..ma per fare questo c’è bisogno di un Governo e di un Paese e non di bande e Signorie varie
Luca Antonellini
Gentile bob, in altri contesti ho più volte scritto che l’assenza di una politica nazionale sui porti (come su molte altre questioni), unita ad un campanilismo esasperato, ha facilitato la moltiplicazioni dei desiderata locali e quindi dei centri di spesa senza una “regia” o, quanto meno, un controllo, unitario. Ed in un Paese dove ci sono 144 porti (24 sede di Autorità Portuale) è stato un errore enorme che ha portato l’Italia, non solo a non disporre di nodi efficaci per il sistema di approvvigionamento/vendita/distribuzione delle proprie imprese, ma ad impiegare ingenti quantitativi di risorse pubbliche per inseguire “sogni” di qualche notabile locale (in un crescendo di incontinenza progettuale) o per creare doppioni ed inutili sovrapposizioni. Non è un caso se i traffici attuali dei porti italiani siano inferiori a quelli di 20 anni fa mentre nel mondo il trasporto marittimo è cresciuto considerevolmente. Inoltre, al merito ed alla redditività dei progetti si è sempre preferito il finanziamento a pioggia, al più garanzia di consenso. Ora, al più si potrà porre qualche rimedio a questa situazione e vedrà comunque quante resistenze ci saranno anche al più piccolo cambiamento (ammesso che qualcuno desideri veramente provarci).
Alessandro Panaro
sono parzialmente d’accordo con l’analisi comunque interessante. Specie quando l’autore dice che i porti sono stati costretti a effettuare e progettare continui interventi di escavo dei fondali. I fondali non vengono dragati per niente, infatti, è proprio questo uno dei problemi dei nostri porti. Il container rappresenta ancora l’elemento di maggiore competitività del commercio mondiale via mare e non a caso Rotterdam e Amburgo investono in nuovi terminal così come Port Said e Tanger med. E non a caso Doing Business della World Bank considera i costi e tempi di imbarco dei container una discriminante per la competitività. Dovremmo allora dire che tutti i porti europei e del Mediterraneo sbagliano. Il traffico rinfusiero (prevalentemente energetico e di merci varie) è quello a meno valore aggiunto e poco logisticizzabile, Visitando il porto di Amburgo e Tanger Med mi sono reso conto invece che la containerizzazione è un grande fenomeno ed i nostri porti devono attrezzarsi ad accogliere le grandi navi che generano lavoro e intermodalità. Tra l’altro aggiungo che Taranto (uno dei porti hub italiani più importanti) deve la sua crisi proprio all’abbandono del terminal da parte del principale vettore container e non certo rinfusiero. Con stima.
bob
Panaro lei da parte interessata descrive la problematica logistica, disinteressandosi di quella strategica-politica, inutile parlare se è meglio “rinfusiero” o “container” se a monte non c’è una strategia centrale e nazionale che detta linee guida e progetti lungimiranti. Cosa rifacciamo le Repubbliche marinare?
bob
144 porti non esistono neanche forse in USA . I cambiamenti Ingegnere sono frutto di una cultura acquisita e non di ipotetiche leggi. La cultura degli ultimi 35 anni è stata quella “localistica provinciale” il 70% della società di questo Paese è nata con questi concetti …e togliere il piatto da sotto la bocca di queste persone io la vedo dura se non impossibile..quindi non si tratta di “..qualche notabile locale” che ci è sempre stato, si tratta di un sub-strato di società che a malapena vede non oltre la porta di casa
Luca Antonellini
Gen.le Dott. Panaro,
conosco il suo lavoro e lo apprezzo. Credo che tutte le osservazioni da Lei sollevate facciano appunto parte del dibattito in corso per il (ri)lancio della portualità italiana. Personalmente, e soltanto per fare un esempio, credo di avere opinioni molto diverse dalle Sue sul futuro dei porti di transshipment dell’Italia meridionale. Penso tuttavia che non sia né agevole né, forse, opportuno, confrontarsi all’interno di una rubrica di commenti. Spero invece ci sia presto l’occasione per un scambio di opinioni diretto.
PS per bob: in Italia ci sono 39 porti che appartengono alla lista core e comprehensive delle Reti TEN-T (eppoi ci sono 2 Regioni isolane e tante piccole isole). Non è un dramma avere 144 porti.
bob
“Non è un dramma avere 144 porti.” D’ accordo! Non è un dramma se abbiniamo la costruzione di un porto ad una esigenza reale. Immagino che nei 144 porti siano compresi quelli di approdo turistico e ci potrebbe stare benissimo in un concetto di sviluppo di quel settore. Ma se un porto è fatto con fini elettoralistici locali la cosa è drammatica perchè non ha una progettualità nel tempo …ma termina con la campagna elettorale. Ritornando ai porti turistici c’era un progetto di pista ciclabile realizzabile sul vecchio tracciato ferroviario della linea Adriatica da Trieste fino alla Puglia ma non essendoci una regia nazionale è andata a finire nelle beghe di Comuni. Provincie e Regioni con i risultati che vi lascio immaginare. Quindi quello che sostengo che quando si realizza un opera del genere in automatico si valorizza anche il porto turistico ( vedete quello che in altri contesti fanno in Austria per esempio la pista ciclabile San Candido -Linz piena di ostelli e di alberghi ristoranti sul suo percorso). Ma quando si pensa al proprio orticello l’unico risultato è la corruzione , miseri interessi, degrado economico e culturale. Nel granaio fanno più danni 100 topi che mangiano un chicco di grano che un ladro in una notte
Luca Antonellini
Mi sono accorto di avere commesso un errore nella descrizione dei dati della Tabella 2.
In realtà, nel periodo 2007-2013, oltre alla componente gateway dei container, sono cresciuti, ed in misura molto maggiore, anche i traffici Ro-Ro.
Di ciò chiedo venia.