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Nella lotta alla povertà un ruolo per le fondazioni bancarie

La lotta alla povertà è finalmente entrata nell’agenda politica. Ma fa ancora troppo affidamento sull’aiuto economico, certo utile nell’emergenza, ma non risolutivo. La capacità di innovazione sociale delle fondazioni bancarie per realizzare programmi efficaci perché pensati con i beneficiari.

Le misure e risultati

La lotta alla povertà è entrata nell’agenda politica? Sì, anche se alcuni dubbi nascono dalle troppe misure settoriali utilizzate per dare aiuti economici, utili nell’emergenza, ma non per uscire dalla povertà. L’elenco delle sigle comprende ad esempio: Rmi (reddito minimo di inserimento), Rui (reddito di ultima istanza), Sc (Social card), Sia (sostegno per l’inclusione attiva). Le verifiche istituzionali realizzate negli anni si sono limitate a considerare i processi erogativi (ad esempio il numero di quelle effettuate rispetto a quelle previste) senza valutarne gli esiti. Cosicché le contraddizioni sono emerse soprattutto quando la stampa ha evidenziato i grandi ritardi delle erogazioni, per l’eccessiva burocratizzazione e l’insufficienza delle risorse professionali. Oggi possiamo sperare che in futuro non sarà così. Ma di “attivazione” degli aiutati si parla dal 1998, quando è stato introdotto il reddito minimo di inserimento e fin da allora è stata sottovalutata la necessità di una robusta infrastruttura professionale nei territori, che permetta di passare “dal dire al fare”, cioè di accompagnare realmente i percettori di sussidi verso l’uscita dalla povertà.

Le persone al centro

Chi è in condizioni di grave sofferenza sociale non può essere “assistito e lasciato solo”. Servono nuovi modi per lottare contro la povertà, ben oltre gli aiuti assistenziali, “con le persone”, in un’ottica di cittadinanza generativa. Sorprese positive potrebbero venire dal piano di lotta alla povertà educativa, se sarà pensato come azione strategica e non settoriale. La qualifica “educativa” non è infatti soltanto un aggettivo, ma un modo per qualificare un grande problema e poterlo affrontare nelle sue diverse dimensioni e condizioni esistenziali. E le dimensioni sono sconcertanti, perché i bambini e ragazzi in povertà assoluta sono più di 1 milione, il 10 per cento di quelli residenti in Italia, con un’incidenza di povertà assoluta superiore a quella della popolazione nel suo complesso (6,8 per cento). I valori sono quasi doppi rispetto al 2011 (quando erano 523 mila) e tripli rispetto al 2008 (375 mila). La quasi totalità dei minori in povertà assoluta ha genitori con istruzione non elevata (97 per cento dei casi con diploma di scuola media superiore) e un solo genitore occupato (il 60 per cento) con un basso profilo professionale (dati Istat). Nell’arco evolutivo dagli zero ai 18 anni si concentrano cioè tanti problemi per figli e genitori, che insieme vivono in condizioni di miseria, deprivazione, esclusione, mancanza del necessario per vivere. Tuttavia, non si può affrontare questa sfida con mezzi convenzionali, di tipo amministrativo o assistenziale. Negli ultimi decenni abbiamo visto trasportare “dalle istituzioni agli assistiti” grandi quantità di risorse economiche, che si sono rivelate del tutto inadeguate perché prive di una “logistica professionale delle capacità”. Le capacità sono infatti il bene primario per lottare contro la povertà “con i poveri”. Il “concorso al risultato” è infatti la condizione strategica per chi accetta un’evidenza elementare: “non posso aiutarti senza di te”: è – o meglio, dovrebbe essere – il mantra di ogni operatore, amministratore, istituzione, formatore, volontario o ricercatore. Non si può pensare di contrastare la povertà educativa, ad esempio, senza valorizzare le capacità e le potenzialità di ogni bambino (e genitore). Bisogna anzitutto dire dei “no” e dei “sì”. Dire “no” significa “non affidarsi” a chi in questi anni ha gestito grandi quantità di risorse senza risultati. Dire “sì” significa chiedere a quanti offrono risorse per lottare contro la povertà educativa di “esserci”, di mettere a disposizione la proprie capacità, di gestirle in concorso al risultato con i destinatari: bambini e genitori.

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Da costo a investimento

È quindi necessario superare le “gestioni a costo” della solidarietà fiscale per trasformarle in “gestioni a investimento”, misurando i risultati, gli esiti, il costo/efficacia. A questo scopo servono nuove “responsabilità sociali in concorso”, per ridare speranza a chi si affaccia alla vita con mezzi insufficienti e ingiusti. Dove altri non sono riusciti, possono farcela le fondazioni di origine bancaria, perché in questi anni si sono misurate con l’innovazione, mettendo in relazione gli investimenti con i risultati, impegnandosi a valutare gli esiti e l’impatto sociale. Ad esempio, tra il 2013 e il 2016 la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo ha destinato all’infanzia quasi 4,8 milioni di euro, con capacità incrementali. La Compagnia San Paolo nel biennio 2014-2015 per la fascia 0-6 anni ha investito 3,4 milioni di euro, che con il coinvolgimento di altri attori sono diventati 5,4 milioni. Sono dimostrazioni che “cercare” vuol dire mettersi nella condizione di poter “trovare”. Lo hanno riconosciuto molti esperti stranieri riuniti a Torino lo scorso febbraio per discutere dei tre anni di Transatlantic Forum on Inclusive Early Years (Tfiey Italia). Si è così potuto condividere quanto le fondazioni italiane hanno realizzato con pratiche innovative, valorizzando le condizioni giuridiche delineate dalla Costituzione all’articolo 118, quarto comma: chiede a tutti di contribuire al bene comune, con pratiche sussidiarie e generative, per affrontare solidalmente i bisogni umani. Riguardano la vita che nasce e cresce, il terreno migliore per affrontare la sfida, potendo contare sul massimo delle capacità e potenzialità.

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  1. Qualewelfare

    “Le verifiche istituzionali realizzate negli anni si sono limitate a considerare i processi erogativi (ad esempio il numero di quelle effettuate rispetto a quelle previste) senza valutarne gli esiti.” Al di là di qualche problema con la concordanza maschile/femminile che compromette la piena comprensione del significato di questa affermazione – oltre al fatto che alcune misure citate sono state oggetto (RMI !) di articolati rapporti di monitoraggiogio e valutazione, si potrebbe anche concordare col punto di partenza: sperimentazione-buona valutazione- generalizzazione e istituzionalizzazione degli interventi sarebbe un percorso efficace, e così non va l’esperienza italiana. Non si caspice però perchè il ruolo delle fondazioni bancarie – così come degli altri attori del cosidetto “secondowelfare” tanto di moda – non debba essere oggetti di valutazione altrettanto stringente. Nella parte finale, invece, solo qualche dato grezzo di spesa e/o beneficiari. Più uno spote che una riflessione seria.

  2. giancarlo

    Articolo del tutto condivisibile. Per alcuni anni ho fatto la progettazione sociale di un Centro Servizio Volontariato.
    I finanziamenti sono tutti di provenienza Fondazioni Bancarie. Esperienza deludentissima. ll CSV, come quasi tutti gli altri, è un organo clientelare della cui politica assistenziale le Fondazioni si disinteressano. Distribuiscono risorse finanziarie senza avere una loro strategia welfare e solo per sostegni consulenziali in favore di “amici”. Andrebbero semplicemente aboliti. Qualcuno ha mai condotto una analisi sulla loro efficacia ?

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