Quando sono i fondi di investimento ad avere la maggioranza dei voti in assemblea si può verificare il paradosso che si limitino a eleggere solo una piccola minoranza di consiglieri nel cda. Lo ha sottolineato anche l’ultima relazione annuale della Consob. Due soluzioni tecniche da approfondire.

Fondi alla finestra?

Qualche giorno prima della relazione Consob del 9 maggio, su lavoce.info avevamo provato ad anticipare alcuni dei “punti caldi”, in materia di regolamentazione, che il presidente Vegas avrebbe potuto toccare: su sette indicati, ne sono stati affrontati almeno sei. Opportuno, tra questi, il riferimento alle esigenze di razionalizzazione della disciplina europea e l’auspicio di un “Testo unico della finanza” dell’Unione Europa (vedi Il Sole 24 Ore).
In particolare, merita attenzione un passaggio della relazione in materia di governance. Pur riconoscendo il maggiore attivismo degli investitori istituzionali, Giuseppe Vegas ha osservato come «abbiano preferito lasciare la gestione societaria agli azionisti di riferimento», scegliendo di «restare alla finestra».
Il richiamo è a quelle situazioni in cui, pur ottenendo la maggioranza dei voti, i fondi si sono limitati a eleggere una sparuta minoranza di consiglieri, presentando liste con solo uno o due nomi: il singolare fenomeno, insomma, della maggioranza in assemblea che si trasforma in minoranza nel cda.
Difficile non leggere in questo richiamo un accento critico, o quantomeno interlocutorio.
Cominciamo allora col dire che i fondi non paiono essere rimasti “alla finestra”: in questi anni hanno fatto ampio uso del meccanismo del voto di lista, contribuendo a una composizione più diversificata per professionalità e prospettive degli organi di amministrazione e controllo. Amministratori e sindaci nominati dai fondi, lungi dall’essere un’assoluta garanzia di buona governance, hanno in diversi casi apportato nuove idee, talvolta anche conducendo battaglie di trasparenza. I fondi sono stati in prima linea nell’assicurare il rispetto della parità tra i generi, spesso portando donne nei consigli di amministrazione anche oltre i vincoli minimi imposti dalla legge; hanno inoltre favorito la selezione di amministratori provenienti da importanti esperienze internazionali e meno legati all’establishment italiano.
Con questo non si vuole certo dire che il sistema sia perfetto. Delicato è, ad esempio, il tema della condivisione di informazioni tra amministratori nominati dai fondi e soggetti che li hanno eletti, ma lo stesso vale nei rapporti tra ogni amministratore e i soci che lo appoggiano.

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Maggioranza in assemblea e rappresentanza

Il punto nodale resta tuttavia il paradosso, che in alcuni casi si è verificato, di avere uno o due consiglieri nominati, in realtà, da una maggioranza, per quanto temporanea. Che peso hanno questi soggetti quando si decide un’operazione che richiede il consenso dei soci? Ha ragione Vegas nel suggerire, implicitamente, che questi nuovi “grandi elettori” dovrebbero assumere un ruolo più incisivo?
Giuridicamente è dubbio che i fondi possano, anche volendo, nominare la maggioranza dei consiglieri. Secondo alcuni ciò comporterebbe un’influenza notevole o dominante sulle società, vietata dalla legge.
In realtà la questione è complessa: senza entrare in tecnicismi, è discutibile che alcuni soci con in mano ad esempio il 2 per cento, che propongono una lista che raccoglie le preferenze di un ampio numero di azionisti, in mancanza di accordi specifici, possano ritenersi avere il controllo. La convergenza dei voti si potrebbe infatti ritenere episodica e in qualche misura effimera. Prescindendo dai vincoli normativi, tuttavia, è comprensibile che i fondi non vogliano nominare la maggioranza del cda: una cosa è eleggere un limitato numero di consiglieri con funzioni di controllo, altro è determinare la maggioranza del consiglio, un lavoro diverso da quello di gestire il risparmio.
Come evitare allora il paradosso della maggioranza che diventa minoranza? Le soluzioni tecniche non mancano. C’è chi suggerisce modifiche normative per consentire agli amministratori uscenti di presentare una loro lista cercando di attrarre il voto sia dei soci “industriali” di controllo stabile, sia dei fondi. L’idea – di ispirazione anglosassone – è interessante, ma c’è il rischio che la lista del consiglio di amministrazione sia una manifestazione dei desiderata del socio di controllo.
Altri propongono di “sdoppiare” l’elezione del board, consentendo di votare prima per la maggioranza del consiglio (per esempio i tre quarti) e poi per i candidati restanti. Secondo questa ipotesi, i fondi potrebbero così esprimere o negare il proprio apprezzamento anche per gli “esecutivi”, salvo poi scegliere gli amministratori di minoranza, senza timore di vedere esclusa la lista in base all’attuale divieto di collegamento. Anche questa idea merita un approfondimento e richiederebbe interventi regolamentari: occorre in particolare assicurare che le diverse liste siano effettivamente indipendenti e non nascondano un’azione concertata.

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