Il Cda di Unicredit si appresta a licenziare l’amministratore delegato, imputandogli alcune decisioni non condivise. Ma in un classico caso di porte girevoli all’italiana, sembra poi volergli affidare la presidenza della banca. Conseguenze di un sistema pietrificato, nonostante le riforme.
Cambi al vertice, ma con paracadute
L’Italia – non da oggi – è il paese delle porte girevoli. Lo è soprattutto nel settore pubblico. Nella amministrazione e nelle imprese pubbliche, le sostituzioni di dirigenti responsabili di cattiva gestione si sono quasi sempre risolte in morbidi atterraggi degli stessi in altre società pubbliche. Atterraggi spesso accompagnati da generose buonuscite a dispetto delle voragini di debiti lasciate alle spalle. Ma le porte girevoli funzionano anche nel privato. Un esempio è il modo in cui hanno appena cominciato a svolgersi le procedure per il rimpiazzo dell’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni. In una recente riunione, il consiglio di amministrazione della banca ha deciso che “erano maturate le condizioni per un cambiamento dei vertici del gruppo”. Ma “cambiare i vertici del gruppo” è un’espressione ambigua perché può riferirsi al solo capo operativo (l’amministratore delegato) oppure anche al presidente. Per ora, il consiglio parrebbe aver determinato solo che, dopo sei anni di conduzione, Ghizzoni non sarà più amministratore delegato dell’unica grande banca a vocazione multinazionale dell’Italia. Poi però entrano in funzione le porte girevoli. La prima riguarda lo stesso Ghizzoni per il quale, secondo voci riprese anche dal Financial Times, si parla di una possibile nomina a presidente della banca. Cioè il consiglio di amministrazione metterebbe alla porta il manager piacentino avendogli imputato, a torto o a ragione, decisioni gestionali errate come quella – non condivisa con il consiglio – di aver fatto da garante all’aumento di capitale della Popolare di Vicenza (poi realizzato solo grazie al fondo Atlante). Ma subito dopo lo riprenderebbe a bordo, addirittura a presiedere un consiglio rimasto deluso delle decisioni del manager Ghizzoni. Un arzigogolo già difficile da capire per gli italiani, figuriamoci per gli investitori esteri che, non a caso, con le loro vendite, hanno fatto scendere il valore di borsa di Unicredit del 40 per cento dall’inizio dell’anno (nello stesso periodo di tempo, Intesa San Paolo ha perso “solo” il 25 per cento del suo valore).
Sistema bancario come una foresta pietrificata
A Unicredit di porta girevole ce n’è forse anche un’altra. Nel caso di avvicendamento del presidente della società, si parla infatti anche della candidatura di Lucrezia Reichlin. Economista alla London Business School (Lbs), ha un ineccepibile curriculum accademico e anche grande esperienza istituzionale, essendo stata, tra l’altro, la capo economista della Banca centrale europea. Insomma, è una candidata eccellente. Con un possibile “ma”. L’economista di Lbs siede già nel consiglio di Unicredit come consigliere indipendente, in rappresentanza degli investitori istituzionali. Nel caso diventasse presidente, Reichlin si troverebbe a occupare una poltrona tipicamente riservata ai soci di controllo stabili e Unicredit sarebbe presieduta dall’unico amministratore eletto dai fondi, indipendente e non esecutivo. In punta di diritto, cosa c’è di meglio di un presidente espressione degli investitori istituzionali e dei soci dispersi se si desidera tutelarne gli interessi? In pratica, tuttavia, la situazione sarebbe piuttosto singolare. Del resto, non ci si può troppo stupire: la presenza di porte girevoli non è certo una novità, né è specifica di Unicredit. Le porte girevoli sono solo la conseguenza della foresta sempre pietrificata del sistema bancario italiano nel quale, nonostante i cambiamenti regolamentari e le riforme in corso, le decisioni dei manager troppo spesso non rispecchiano l’interesse delle società da loro gestite. E ciò avviene perché i consigli di amministrazione – bloccati da veti, partecipazioni incrociate e conflitti di interesse – non hanno un vero interesse a controllarne l’operato.
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Stefano Freni
Si parla non a caso di costi d’agenzia, presenti in tutti i paesi occidentali: quando dai un incarico ad un manager con grandi competenze, esso richiede grandi compensi e garanzie. Negli Stati Uniti ci sono dei Golden Parachute 10/20 milioni di Euro. Nel periodo di crisi 2007-2008 si andò a ben oltre
Marco Terrenghi
Eccellente analisi.
Forse lascia però troppo nel vago la “singolarità” di un Presidente indipendente. Oltre a essere legittimo, quali sarebbero i limiti concreti alla Governance?
Mi permetto poi di sollevare due questioni:
1. Quanto possono ancora pesare le fondazioni in queste decisioni e con quale livello di trasparenza rispetto a obiettivi e metodi di scelta? Non credo possa bastare nominare uno o più head hunter
2. “Vertici del Gruppo” è vago anche in riferimento alle prime linee. Alla luce dei fatti più o meno legittimi emersi lo scorso anno, è forse lecito sospettare che alcune di esse abbiano avuto un peso addirittura maggiore nel determinare l’andamento del Gruppo negli ultimi anni.
Grazie
Henri Schmit
Analisi condivisibile. Strano che un CdA decida contro qualcuno e lo fa poi il proprio presidente con poteri di iniziativa. Forse l’escluso sa troppo per escluderlo veramente. C’è il celebre precedente Geronzi cacciato da un vertice per riapparire sempre in un altro. In questo paese esistono intoccabili. Non condivido il giudizio aprioristico sui consiglieri indipendenti. Queste caratteristiche servono solo per funzioni di controllo, non per funzioni operative o presidenziali. In quei casi l’indipendenza è sospetta perché controproducente. L’interesse dell’azienda è una cosa, la dipendenza da uno specifico socio un’altra, l’indipendenza assoluta nell’interesse della sola legge un’altra ancora. Non mi fido del governo (molto italiano) degli esperti indipendenti né in politica né tantomeno nelle aziende.
mario rossi
Ma scusate!!!!! è naturale che in italia succeda questo!! da noi le uniche aziende veramente produttive sono quelle al di sotto dei 100/200 dipendenti, le medie imprese, perchè tutte le grandi aziende nate nel dopoguerra sono state prima o dopo avvicinate dalla politica che ne ha fatto serbatoi di voti e clientele, quindi un amministratore non fa il suo mestiere perchè non è quello che conta. Tutte le banche italiane, fanno parte di un consorzio politico affaristico per il quale non conta gestire bene perchè alla fine i buchi spariscono coperti dal sangue della piccola media impresa. Quelle poche grandi aziende che non sono comprese nel giro infatti sono finite in mano straniera dove se un manager fa danno viene cacciato a calci nel sedere, altro che buona uscita. Domandate a Marchionne che gli avrebbe fatto obama se non gli ridava i 7 mld di dollari prestati alla chrisler