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Ci sarà sempre il perdono per gli evasori incalliti?

Una riproposizione della collaborazione volontaria sui patrimoni illecitamente detenuti all’estero produrrebbe pochi miliardi di gettito, comunque utili per fronte ai vincoli europei nel 2017. Il prezzo da pagare però sarebbe alto: il programma potrebbe essere letto come un incentivo all’evasione.

Forse torna la collaborazione volontaria

Da indiscrezioni riportate negli ultimi giorni dalla stampa sembra che il governo sia intenzionato a riproporre nei prossimi mesi (forse già all’inizio di luglio) una nuova versione della cosiddetta collaborazione volontaria o voluntary disclosure.
Approvata nel dicembre del 2014, la voluntary disclosure è stata presentata come il tentativo di riscrivere il patto tra fisco e contribuenti in un contesto decisamente mutato: una rinnovata cooperazione internazionale, infatti, sta creando le basi per uno scambio di informazioni che consentirà ai singoli stati di monitorare gli investimenti esteri dei propri contribuenti anche in quelli che fino a oggi sono stati considerati paradisi fiscali.
Forte della minaccia di più efficaci accertamenti futuri, lo Stato italiano ha offerto quella che doveva essere l’ultima occasione per regolarizzare i capitali detenuti all’estero. A differenza dei ripetuti condoni degli anni Duemila, il contribuente che ha aderito alla voluntary disclosure ha perso l’anonimato e ha dovuto pagare le imposte eventualmente evase e gli interessi. In cambio, ha ottenuto una riduzione delle sanzioni amministrative e la non punibilità per la maggior parte dei reati tributari, oltre al reato di riciclaggio e al nuovo reato di autoriciclaggio.

I risultati del programma

Secondo i dati comunicati dall’Agenzia delle Entrate, le istanze presentate (circa 130mila) hanno portato all’emersione di attività detenute irregolarmente all’estero per circa 60 miliardi di euro. Se da un lato questi dati consentono di considerare l’operazione un successo, dall’altro segnalano ancora una volta un preoccupante livello di infedeltà fiscale, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’ultimo condono del 2009 (noto come “scudo fiscale”) aveva già portato alla regolarizzazione di circa 95 miliardi di euro. E segnalano anche che ancora oggi come nel 2009, quasi il 70 per cento delle attività irregolari sono localizzate in Svizzera (si veda tabella 1).
L’Agenzia delle Entrate ha anche stimato che la regolarizzazione produrrà un gettito di circa 3,8 miliardi, al netto degli interessi. In media, quindi, la regolarizzazione è avvenuta pagando un ammontare pari al 6,4per cento delle attività detenute all’estero. Si tratta di una percentuale non lontana dal 5 per cento dell’imposta straordinaria prelevata con lo scudo fiscale in sostituzione del pagamento delle imposte eventualmente evase.
Per spiegare una percentuale così bassa occorre tener presente due elementi della voluntary disclosure. In primo luogo, gran parte delle imposte evase (il 57 per cento secondo le stime dell’Agenzia delle Entrate) sono imposte sostitutive sui rendimenti generati da investimenti di natura finanziaria irregolarmente detenuti all’estero negli anni ancora accertabili (dai cinque agli undici anni, a seconda dei paesi e della presentazione o meno della dichiarazione). Su questi rendimenti l’aliquota applicabile fino al 2011 era, in molti casi, estremamente ridotta (il 12,5 per cento) ed è comunque contenuta anche nei due anni successivi (il 20 per cento). Inoltre, nel caso di consistenze inferiori ai 2 milioni di euro il contribuente ha avuto la facoltà di optare per un regime forfetario opzionale che fissa i rendimenti al 5 per cento e applica l’aliquota fissa di tassazione del 27 per cento. In secondo luogo, se le attività erano detenute in paradisi fiscali con i quali l’Italia ha sottoscritto un accordo per lo scambio delle informazioni, il trattamento fiscale e sanzionatorio ai fini della voluntary era allineato con quello di favore previsto per i paesi non black-list. È il caso della Svizzera che ha firmato l’accordo per lo scambio di informazioni nel febbraio 2015.

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Tabella 1 – Localizzazione delle attività regolarizzate

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Fonte: nostre elaborazioni su dati dell’Agenzia delle Entrate e della Banca d’Italia. I dati dello scudo sono al netto di importi minori e del valore di alcuni beni patrimoniali come preziosi e opere d’arte

Il rischio del rinnovo

Al di là dell’anticipo di un gettito che l’erario dovrebbe essere in grado di riscuotere con l’attività di controllo e accertamento, il vantaggio principale di un programma di voluntary disclosure consiste nella riduzione dei costi di accertamento e di contenzioso sull’evasione già realizzata. Se sono significativi, allo stato conviene rinunciare a parte delle sanzioni pur di evitarli. Nel caso italiano, probabilmente la voluntary ha anche facilitato la chiusura di accordi per lo scambio di informazioni con alcuni paradisi fiscali, in primis la Svizzera. Stipulando un accordo, un paradiso fiscale si espone al rischio che i capitali irregolari migrino in altri paesi meno collaborativi. Ma la voluntary disclosure attenua questo rischio, garantendo ai contribuenti di poter regolarizzare la propria posizione con un costo contenuto.
Se questi sono i vantaggi, i programmi di voluntary disclosure, come più in generale i condoni, rischiano però di tradursi in un incentivo all’evasione. Il contribuente irregolare sa che, nel caso di un aumento del rischio di essere accertato, potrà evitare (in tutto o in parte) le sanzioni aderendo al programma. Il risultato finale può essere un aumento temporaneo del gettito a costo di una riduzione strutturale delle entrate.
È evidente che il rischio di incentivare l’evasione aumenta se il contribuente percepisce che i programmi di voluntary disclosure o i condoni si possano ripetere in futuro. È una percezione che oggi sarebbe sicuramente rafforzata da una riapertura della voluntary disclosure che probabilmente apparirebbe motivata solo dall’esigenza di recuperare pochi miliardi di gettito per far fronte ai vincoli posti dall’Europa sulla legge di stabilità per il 2017.

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Chi restituisce il bonus di 80 euro. E perché

  1. AM

    Non tutti i capitali tenuti in incognito all’estero sono frutto di evasione fiscale. In alcuni casi le motivazioni sono diverse e vanno da problemi familiari, a timori politici (capitali usciti quando in Italia vi era il pericolo di una guerra civile: brigate rosse o dittatura di tipo greco), a situazioni di rischio per fallimenti o debiti.

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