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Selfie in chiaroscuro della società italiana

Dal Rapporto Inps 2016 emerge non solo la perdita di milioni di posti di lavoro, ma anche come la crisi abbia ridotto il numero delle imprese e indotto una loro maggiore concentrazione. Così la ripresa dell’occupazione è lenta e spesso part-time. Modello insostenibile per la non autosufficienza.

Riduzione e concentrazione delle imprese

Il rapporto annuale Inps 2016 mostra quanto sia importante considerare l’Istituto non solo un erogatore di importanti trasferimenti, che costituiscono la quota ampiamente maggioritaria della spesa sociale, ma un prezioso osservatorio, complementare all’Istat, sulle dinamiche socio-economiche che interessano il paese. Bene fa il suo presidente Tito Boeri a sottolineare anche il compito informativo dell’istituto e ad aprirne gli archivi ai ricercatori.
Nella miniera di dati e analisi interessanti che si trovano nel rapporto di quest’anno, organizzati attorno a tre temi centrali – l’andamento dell’occupazione e disoccupazione e delle diverse forme contrattuali; il sostegno alla popolazione non autosufficiente; la questione della flessibilità in uscita – ne segnalo alcuni meno discussi nel dibattito pubblico in questi mesi.
Negli anni della crisi sono spariti milioni di posti di lavoro, posti che siamo lungi dal recuperare al ritmo attuale nonostante gli indubbi segnali di ripresa, e comunque non nelle stesse imprese e neppure negli stessi settori in cui sono stati persi. Sono, infatti, sparite anche imprese, particolarmente quelle con uno o più dipendenti, con un drastico restringimento complessivo della base imprenditoriale (50mila unità nel solo 2013), che ha incominciato a rallentare solo nel 2015. In particolare, si continuano a perdere imprese, e posti di lavoro, nei settori primario e secondario, solo parzialmente compensati dalla espansione del terziario.
Il restringimento della base imprenditoriale si è accompagnato a fenomeni di concentrazione, ridisegnando così in parte il panorama delle imprese italiane sia per quanto riguarda il loro numero, sia per quanto riguarda le dimensioni. Un interessante approfondimento su quanto è successo nelle aziende con più di 15 dipendenti mostra, infatti, che al loro interno dal 2008 al 2014 sono stati distrutti circa due milioni e mezzo di posti di lavoro: tre su quattro per la chiusura di imprese che erano attive nel 2008 e il restante 25 per cento per riduzioni nella dimensione di imprese che hanno continuato a essere in vita in tutto questo periodo. Al contempo, sono stati creati circa 2,2 milioni di posti di lavoro di cui poco più della metà in seguito alla nascita di nuove imprese e la parte restante per l’espansione di altre che erano già attive nel 2008. C’è stato quindi sia un forte turnover di imprese sia una loro maggiore concentrazione, testimoniato dal fatto che la dimensione media è aumentata da 68 a 74 addetti.
Quanto alle caratteristiche della – effettiva – ripresa occupazionale, favorita dalla forte decontribuzione del 2015, si è stabilizzata su numeri contenuti e non sempre a tempo pieno. Quattro lavoratori su dieci assunti con contratti a tempo indeterminato hanno impieghi part-time, che dai dati Istat sappiamo essere per lo più involontario.

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La non autosufficienza

Una parte importante del rapporto Inps è dedicata alla questione delle (non) politiche per l’autosufficienza e del loro costo per i famigliari che prestano cure: mogli, figlie, nuore. Viene evidenziato il fenomeno, ben noto da tempo a chi del tema si occupa, della crescente insostenibilità del modello prevalente in Italia, tutto centrato su disponibilità e lavoro di famigliari. Un modello insostenibile non solo per motivi di equità e appropriatezza, ma anche in termini demografici. Per mantenerlo occorrerebbe che nei prossimi anni il numero dei famigliari che prestano assistenza triplicasse, cosa evidentemente impossibile, stante che la generazione che entrerà nell’età a rischio di non autosufficienza nei prossimi decenni è stata caratterizzata da una bassissima fecondità. A ciò si aggiunga che le – relativamente poche – figlie e nuore potenziali caregiver saranno sempre più occupate, e più a lungo (vista la riforma pensionistica), nel mercato del lavoro.
Non è sostenibile neppure la soluzione privatistica del ricorso a persone a pagamento. Fortemente legata alla disponibilità economica, non è solo fonte di disuguaglianza. È anche esposta alla variabilità della congiuntura, come testimonia la riduzione del numero dei lavoratori domestici negli anni della crisi, nonostante un aumento della popolazione anziana non autosufficiente. Neppure l’utilizzo della flessibilità in uscita per poter far fronte (le donne) alle responsabilità di cura sembra una soluzione particolarmente efficace e tantomeno equa, se implica un costo troppo oneroso – soprattutto per la pensionata – vuoi in termini di ammontare pensionistico (come nell’opzione donna), vuoi di gravosità del debito per ripagare il prestito (come è nel progetto governativo attualmente in discussione). Si rischia sia il danno che la beffa, con donne anziane impoverite per poter far fronte con il proprio lavoro gratuito ai bisogni di cura. È davvero sorprendente che in un paese caratterizzato da un processo di invecchiamento tanto intenso, le politiche per la non autosufficienza siano così residuali e inadeguate. Il governo potrebbe trarre qualche suggerimento utile dal programma homecare che, sconosciuto ai più, esiste per i dipendenti statali e viene descritto nel Rapporto.
L’ultima parte del Rapporto è dedicata all’ambizioso piano di riorganizzazione dell’Inps verso una maggiore accessibilità e amichevolezza nei confronti dei cittadini. Non resta che verificarne con attenzione tempi e efficacia, visto che lo spazio di miglioramento è ancora molto ampio.

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  1. Michele

    I rapporto ISTAT ci dice di politiche del governo renzi molto costose (e pure finanziate a debito) e molto poco efficaci, di tanta retorica ipocrita sulla famiglia senza fatti concreti, di tanta propaganda a riguardo della fine della crisi quando invece i dati dicono che l’Italia ha performato peggio dei paesi comparabili. Il rapporto ISTAT certifica che in Italia esiste una classe dirigente (politica, imprenditoriale, bancaria e universitaria) che ha portato il paese al declino, che è invecchiata al potere ma che non vuole lasciare la guida del paese per non perdere i propri privilegi.

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