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Industria 4.0: la chiave è investire sulle competenze

Gli attuali livelli di benessere del nostro paese non sembrano più compatibili con la struttura della nostra manifattura. Almeno a giudicare dal confronto con gli altri stati europei. L’unica via di uscita è recuperare il divario di competenze tecnologiche cogliendo le opportunità di industria 4.0.

Competenze tecnologiche e quarta rivoluzione industriale

L’intensa integrazione dell’hi-tech nelle fabbriche sta decretando l’evoluzione verso nuovi format produttivi che gli studiosi racchiudono all’interno della definizione di “industria 4.0”. Tutti i principali paesi avanzati, Italia compresa, hanno formulato piani di politica industriale per governare e sfruttare tale processo, le cui direttrici fondamentali di intervento riguardano lo stimolo alla spesa privata in ricerca e innovazione e il rafforzamento delle competenze.
Ci concentriamo qui sulle competenze e sul ruolo fondamentale che queste assumono nel processo di digitalizzazione e informatizzazione dei sistemi produttivi. Una ricerca svolta da McKinsey individua, infatti, nella carenza di abilità tecnologiche una possibile barriera a intraprendere il processo. E infatti il Piano italiano per l’industria 4.0 punta a rafforzare le competenze tramite specifici interventi nel mondo dell’università, da una parte, e la creazione di una rete di infrastrutture in grado di collegare il mondo produttivo con quello della ricerca (Competence Center), dall’altra.
La valutazione dell’intervento pubblico non può prescindere da una ricognizione sullo stato dell’arte delle abilità tecnologiche impiegate nella manifattura italiana, rapportate a quelle di altri paesi. Una possibile misura delle competenze potenzialmente spendibili all’interno del processo industria 4.0 è ricavabile dai dati Eurostat relativi alle quote di addetti Hrst (Human Resources in Science and Technology), cioè di addetti manifatturieri che svolgono mansioni per le quali sono richiesti un elevato titolo di studio e il possesso di competenze scientifico-tecnologiche. La misura può essere intesa come un possibile indicatore di preparazione dei singoli paesi rispetto ai cardini dell’Industria 4.0.

La posizione dell’Italia

I dati Eurostat indicano che per i paesi europei (inclusi i membri dell’Aels – Associazione europea di libero scambio) i lavoratori Hrst rappresentano un terzo degli addetti manifatturieri. È una quota in costante aumento: tra il 2008 e il 2015 sono cresciuti dell’8,5 per cento e nella manifattura nel suo complesso del 2 per cento. È in atto da tempo, quindi, un processo di sostituzione tra manodopera meno qualificata e lavoratori Hrst.
L’Italia in questa graduatoria si colloca nelle ultime posizioni, con una quota simile a quella della Polonia (29 per cento) e un incremento degli Hrst inferiore alla media.

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Grafico 1 – Dispersione dei paesi europei in base al peso della manifattura e al peso degli Hrst (2015)

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat

Il grafico 1 posiziona i paesi europei all’interno di quattro quadranti definiti in base alla dimensione media della manifattura e al peso medio degli addetti Hrst; i paesi sono inoltre classificati sulla base del quartile di Pil pro-capite di appartenenza.
Il grafico evidenzia una correlazione inversa tra il peso della manifattura e il livello del Pil. Quest’ultimo a sua volta è correlato positivamente con la quota di addetti Hrst della stessa manifattura. Nel quadrante in alto a sinistra si trovano i paesi del Nord e Centro Europa, caratterizzati da un basso peso della manifattura e da elevate competenze scientifico-tecnologiche; nel quadrante in basso a destra sono presenti paesi, prevalentemente dell’Est Europa, più manifatturieri e con forza lavoro meno qualificata. Se alti livelli di reddito sono in generale associati a un basso peso della manifattura e ad alte quote di addetti Hrst, Germania e Austria appaiono come un’eccezione, essendo gli unici due paesi in grado di coniugare elevata intensità manifatturiera, elevate competenze tecnologiche e un alto livello del Pil.
Storia a sé, ma di natura diversa, fa anche l’Italia, paese altamente manifatturiero e con una bassa quota di lavoratori Hrst, ma che si caratterizza per un livello di reddito significativamente più alto. Il collocamento del paese è il risultato di tre decenni di galleggiamento della base produttiva, nella convinzione che il “made in Italy” a basso contenuto tecnologico potesse essere sufficiente a generare valore aggiunto e garantire benessere. L’inerzia ha differenziato l’Italia tanto da paesi come Regno Unito e Francia, che hanno visto alleggerire il proprio settore manifatturiero puntando solo su quello hi-tech e sui servizi, quanto dalla Germania, che ha mantenuto e rafforzato la propria caratterizzazione manifatturiera ad alto contenuto tecnologico.
L’esperienza degli altri paesi suggerisce che il livello di benessere italiano, già in relativo declino se confrontato con il resto d’Europa, non è più compatibile con le competenze attualmente impiegate nell’industria nazionale, che sta perdendo competitività, rischiando di trascinare il paese su un sentiero di bassi redditi e salari. A prescindere dal peso che la manifattura avrà in futuro in Italia, il cambio di rotta richiede una presa di coscienza sul fatto che il mero aumento della spesa in ricerca e sviluppo non basta, se non viene prepotentemente affiancato da politiche che favoriscano l’innalzamento delle competenze.

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  1. Marcello Romagnoli

    “il cambio di rotta richiede una presa di coscienza sul fatto che il mero aumento della spesa in ricerca e sviluppo non basta, se non viene prepotentemente affiancato da politiche che favoriscano l’innalzamento delle competenze.” Con l’ANVUR????? Intanto cominciamo a portare i finanziamenti alla pari della media dei paesi europei

  2. Alessandro Bellotti

    Ho assistito presso Confindustria di Modena lo scorso dicembre a una conferenza che ha avuto come protagonista il ministro Calenda.
    Tutto molto bello, compreso i 12 miliardi di euro che ha stanziato (forse) il governo Renzi per il progetto italiano Industria 4.0.
    Con il super e l’iper ammortamento però si incentivano SOLO l’installazione di macchinari e tecnologie che attiveranno appunto la ‘rivoluzione industriale’ prossima.
    Quindi i nuovi macchinari che si installeranno in Italia potranno usufruire di importanti benefici fiscali purchè ‘adatti’ a Industria 4.0.
    Si incentiva quindi l’installazione di nuovi macchinari ma non la tecnologia con la quale vengono costruiti che oggi, tipicamente, è tedesca.
    Questo è un errore fondamentale: non ci sarà nessuna crescita tecnologica nel paese in quanto la totalità della tecnologia che impone Industria 4.0 NON viene prodotta, oggi in Italia.
    Tecnologia elettronica, meccanica, pneumatica. Tutto Made in Germany.
    Peccato. 12 miliardi di euro che serviranno a nutrire Siemens e le altre mega aziende tedesche.
    Basta farsi un giro ad esempio all’Hannover Messe per capire meglio chi produrrà tecnologia per l’ Industria 4.0 italiana

  3. Amegighi

    Parole saggie (e direi sante), che si scontrano con l’ottusa visione generale, alimentata da una classe politica che rasenta, a 360 gradi, un livello intellettuale quasi vicino allo zero assoluto.
    Siamo (dati NSF: nsf.gov) l’ottavo paese al mondo come numero di lavori scientifici pubblicati nei settori scientifico e ingegneristico. Lo eravamo 20 anni fa e lo siamo ancora adesso, nonostante:
    – ripetuti tentativi di distruggere l’Università con riforme assurde (tentare di ridurre l’Università italiana al sistema americano, è pura follia, fosse sole per il carattere pubblico della prima),
    – riduzione folle dei finanziamenti alla Ricerca e Sviluppo (misero 1% rispetto al 3 tedesco e francese; dati Eurostat)
    – totale confusione sul ruolo del rapporto industria/ricerca (soprattutto di base). Decine di “incubatori di ricerca” sparsi per l’Italia con regioni che ne hanno uno per Provincia, manco fossimo la California
    – politiche anti-europee: l’ERC è, a mio parere e con le sue negatività correggibili, il più grande progetto messo insieme dall’UE per creare finalmente un mercato veramente potente in grado di fare R&D avanzatissimo e guadagnare la predominanza tecnologico scientifica (e quindi economica) mondiale. Assieme le nazioni UE hanno la maggioranza dei lavori scientifici pubblicati nel mondo; la “fuga dei cervelli” spesso, anche se non sempre, non è altro che corretta ridistribuzione delle risorse mentali europee.
    E noi stiamo letteralmente buttando alle ortiche tutto…

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