Lavoce.info

Giù le tasse sul lavoro: a che punto è il cantiere

Abbassare il carico fiscale dei contribuenti italiani è necessario. Ma un intervento sui contributi sociali forse non è l’unico strumento. Si potrebbe puntare a una riforma dell’Irpef che riduca le aliquote e la giungla delle agevolazioni fiscali.

Il “se” e il “quanto” del taglio delle tasse sul lavoro

Al Forum di Confcommercio il premier Paolo Gentiloni ha promesso: “Continueremo a lavorare per la riduzione fiscale a favore della ripresa dei consumi”. Pochi giorni prima, di fronte a una platea di investitori londinesi nella giornata di avvio della Brexit, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan parlava di competitività, ricordando tra l’altro il recente taglio dell’aliquota Ires e la tassa forfettaria da 100mila euro per i grandi ricchi che spostino la residenza in Italia.
Quando si discute di riduzioni di imposta, conta il se, il quanto e il come. Per capire “se” sia il caso di ridurre le imposte sul lavoro ci sono i dati Ocse. Nel rapporto TaxingWages che riporta i dati sul cosiddetto “cuneo fiscale” (la somma delle imposte personali e dei contributi sociali a carico dell’impresa e dei lavoratori divisi per il salario lordo) si legge che nel 2015 il dato italiano era solo di poco inferiore a quello di Francia e Germania, ma ben al di sopra di quello di Spagna, Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti e della maggior parte dei paesi dell’Est Europa. Con la precisazione che le alte tasse sul lavoro di Francia e Germania sono più che compensate da vantaggi di produttività per occupato – rispettivamente del 30 e del 25 per cento – rispetto ai livelli italiani (da noi incide l’elevato numero di piccole imprese che sono tipicamente meno produttive).
Sul “quanto” delle possibili riduzioni delle imposte sul lavoro pesano i 19,6 miliardi per il 2018 (e 23,2 per il 2019) da trovare nella prossima legge di bilancio per disinnescare l’aumento automatico dell’Iva e delle accise già previsto dalla legislazione in vigore. Le clausole di salvaguardia continuano a essere una costante che si ripresenta anno per anno perché la spesa pubblica scende solo molto gradualmente in percentuale del Pil. Certo, l’aumento delle imposte indirette darebbe un colpo ai consumi. Ma per evitare gli aumenti programmati il governo deve trovare risorse da minori spese o altre fonti di entrata senza pregiudicare l’obiettivo di riduzione del carico fiscale. Al netto di tutto, per la vera riduzione del carico fiscale rimarranno poche briciole. E infatti le misure a cui i tecnici del governo lavorano in vista del Def (Documento di economia e finanza) di aprile e della legge di bilancio di autunno sono di entità piuttosto limitata. Si parla di rafforzare gli sgravi per i premi di produttività e di ridurre i contributi sociali ma solo per i neo-assunti al primo impiego a tempo indeterminato, così da replicare, in modo stavolta strutturale, la decontribuzione che ha accompagnato la partenza del Jobs act.

Leggi anche:  Una riforma fiscale senza risorse

Ma conta anche il “come”

Conta anche “come” si fa la riduzione del carico fiscale. È legittimo chiedersi se la riduzione dei contributi sociali sia lo strumento più efficace, rispetto a una riforma dell’Irpef che riduca le aliquote e, insieme, la giungla delle agevolazioni fiscali che abbassano la base imponibile.
Sulla solo parziale efficacia degli interventi sulla componente non salariale della busta paga si possono ricordare gli effetti limitati del taglio di cinque punti del cuneo operato dal governo Prodi nel 2007. Ad esempio, i dati sull’occupazione nei trimestri successivi all’entrata in vigore della manovra (luglio 2007) non presentano discontinuità significative rispetto al passato.

 

Figura 1

Se poi il recupero di competitività passa per la crescita della produttività via investimenti e innovazione, proprio a questi temi la legge di bilancio 2017 ha già destinato ingenti risorse: rinnovo del super ammortamento e introduzione dell’iper ammortamento, credito di imposta alle spese aziendali in ricerca e sviluppo, proroga della legge Sabatini, sostegno a start up e all’avvio dei Pir (Piani individuali di risparmio). Questi incentivi funzionano? Non lo sappiamo ancora. Ma è dall’eventuale correzione del tiro su questi temi che arriverà il grosso del recupero di competitività, non da aiutini sul cuneo contributivo.
In alternativa al taglio dei contributi, e senza irritare Bruxelles, il governo potrebbe avviare una profonda riforma dell’Irpef e del sistema di agevolazioni fiscali. Spesso si obietta che, per la penuria di risorse, le aliquote Irpef non si possono tagliare perché si perderebbero troppe entrate. Ma ciò è meno vero se, assieme alle aliquote, si riducono le detrazioni e deduzioni che attualmente fanno diminuire in modo poco trasparente la base imponibile. Senza andare sulla strada impraticabile della flat tax (che, nella proposta della Lega nord, costerebbe 70 miliardi di entrate fiscali), un calo delle aliquote può essere parzialmente finanziato a un minore costo per lo Stato se si rivede il regime di deduzione delle spese sanitarie, dei mutui e altre misure simili. Viceversa, se non associata a un parallelo calo delle aliquote, ogni riduzione delle agevolazioni è destinata a rimanere poca cosa per le obiezioni dei contribuenti.
Insomma, le soluzioni possibili sono varie. L’importante è che stavolta si apra sul serio il cantiere di una riforma fiscale troppe volte rinviata.

Leggi anche:  Occupazione senza crescita, il puzzle del 2023

 

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'affaire produttività*

Precedente

Tap, la via del gas per una lunga transizione

Successivo

Appalti pubblici, un nuovo sistema da sperimentare

  1. Enzo FACONDI

    D’accordo sul fatto di intervenire sulle aliquote irpef, ma neanche Lei fa capire (almeno a me, cittadino comune) in che senso. Cioè, se ridurre le aliquote significa che invece di farmi pagare il 23, il 27, il 38, eccetera, mi fa pagare il 20, il 25, 34… oppure significa ridurre gli scaglioni da 5 a 4 o a 3. INVECE, perchè NESSUNO parla di ridare fiato all’articolo 53 della Costituzione sulla PROGRESSIVITA’, ri-aumentando gli scaglioni da 5 a …10 (per esempio, e non dico 32 come nel 1974!) e facendo pagare di meno ai redditi più bassi (il 15% fino a 15mila€) e di più ai redditi più alti (fino al 55-60% per i redditi oltre i 200mila€)?

  2. Ferrari Alberto

    Da tempo mi chiedo perché anziché seguire strane vie che aumentano confusione a confusione e creano continue confusioni il Governo non vuole seguire la via più trasparente di una seria revisione dell’IRPEF. Incominciando, a PARITA’ di gettito fiscale Irpef COMPLESSIVO, con l’introdurre più aliquote fiscali in modo da riequilibrare la tassazione aumentando le aliquote marginali per i redditi più alti per ridurre le aliquote ai redditi più bassi. In fondo è quello che dice l’art. 53 della nostra Costituzione ( e che si fa in altri Paesi europei). Invece di inventarsi tasse di solidarietà in più per categorie che vengono sistematicamente bocciate dalla Corte Costituzionale.

  3. alessio masini

    Probabilmente la riduzione delle aliquote con la riduzione della deducibilità dei farmaci e degli interessi sui mutui sarebbe neutra dal punto di vista del bilancio; mi chiedo se sarebbe equa nei confronti delle fasce di popolazione a minor reddito.
    Mi sembra che uno dei problemi più urgenti da affrontare sia quello di (ri) trasferire ricchezza da chi ne ha accumulata anche troppa, a chi ne ha persa tanta da non poter più mantenere i livelli “minimi” di consumo.
    Ad esempio, si potrebbe tagliare la deducibilità degli interessi sui mutui superiori a una certa soglia… Vedo meno semplice individuare un sistema equo per limitare le agevolazioni sulle spese sanitarie: a una persona puoi dire che se si compra una casa grande deve pagare, ma a un malato dire che spende troppo per curarsi mi sembra un po’ difficile.

  4. Henri Schmit

    Un governo che naviga a vista pensa a misure spot a favore del consumo; perché il consumo vota. Un governo giudicato sul medio termine “capisce” che deve incentivare gli investimenti (privati), soprattutto ma non solo fiscalmente. L’obiettivo principale dovrebbe quindi essere una riduzione della tassazione delle imprese, IRAP, IS. Aumentare accise su alcool, tabacco e gasolio è percepito dai consumatori, ma forse non deprime l’economia, mentre un aumento generale dell’IVA la frena ovviamente. Razionalizzare la tassazione immobiliare è un dovere, anche per ragioni di equità. Quello che nessuno osa dire (perché chi fa i discorsi e prende le decisioni fa parte della fascia a reddito alto) è che riformando e semplificando l’IRPEF c’è anche la possibilità di alleggerire i redditi più bassi ma di aumentare ulteriormente la tassazione sui redditi più alti. Per la classe imprenditoriale un tale aggravio è accettabile se compensato da una riduzione drastica delle tasse sui profitti aziendali. Quello che conta veramente è che il monte IRPEF non aumenti, ma diminuisca; la minor tassazione dei redditi più bassi incide meccanicamente sul consumo. Questa analisi approssimativa valeva già, tale quale, tre, cinque, dieci anni fa. Il paese ha votato nel 2008, ha cambiato registro nel 2011, ha votato nel 2012, ha cambiato ancora nel 2013, votato per le europee nel 2014, per le amministrative nel 2015 e per il referendum nel 2016. La molla della politica fiscale è il consumo che vota.

  5. Michele

    Forse sarebbe più onesto dire agli elettori che: 1) in contesto di tassi in probabile salita e debito pubblico ai massimi, gli spazi per riduzioni delle tasse sul lavoro sono minimi. 2) una rimodulazione delle aliquote IRPEF, senza una draconiana lotta all’evasione (solo lo 0,25% dei contribuenti dichiara più di 300.000 €) è destinata a fallire. 3) il taglio del cuneo fiscale può essere utile, ma dopo aver ridotto il deficit pubblico e comunque non darà mai risultati sul l’occupazione (non si assume un dipendente perché costa meno, ma perché aumenta la produzione), ma sui consumi posto che tutto il taglio va ad aumentare i salari

  6. Michele

    Il cuneo fiscale in Germania è maggiore di quello italiano. In media le retribuzioni in Germania sono maggiori che in Italia. Malgrado ciò la Germania cresce 2 volte in media più dell’Italia, la Germania ha più che recuperato la crisi del 2009, l’Italia invece ha un PIL del 7,5% inferiore a quello del 2007, per non parlare della produzione industriale (-20%). Il problema è la produttività che però è tutta funzione delle capacità delle imprese. Come imprenditore mi conviene di più vendere l’azienda e pagare 1.6% sul capital gain (grazie alla pex) oppure lottare contro la burocrazia e pagare il 30% e oltre?

  7. Pietro Brogi

    L’ Irpef non è una tassa sul lavoro ma sul reddito da lavoro. Se vogliamo veramente favorire il lavoro, seguendo i precetti Costituzionali, si dovrebbero abolire le imposte, chiamate indirette, ma in realtà strettamente legate al costo del lavoro quali l’IVA, per la porzione di costo del prodotto relativa al lavoro. Per mantenere lo stesso introito fiscale si dovrebbero rivedere le aliquote sulle porzioni di consumo del costo: materie prime, energia etc.
    In questo modo si renderebbero più competitive le aziende che aggiungono molto valore umano al prodotto.

  8. Jorge

    Prima di suggerire ulteriori aumenti della progressività dell’IRPEF suggerirei di dare un’occhiata ai dati (vedi per esempio le analisi sul sito “Itinerari Previdenziali”): l’11,3% dei contribuenti già ora versa oltra il 52% dell’IRPEF totale, pagando in pratica il welfare alla maggioranza degli italiani. Volete sapere chi sono questi famigerati riccastri spremuti in questo modo? Sono coloro che superano la stratosferica cifra di 35 mila euro lordi annui (neppure 2 mila netti al mese). In realtà il problema in Italia è che chi potrebbe aspirare, per competenze e produttività, a stipendi sopra la media è fortemente disincentivato a darsi da fare, se non addirittura incentivato ad espatriare.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén