Con un ordine esecutivo Trump inizia a smantellare il contributo Usa alla lotta ai cambiamenti climatici. Il pericolo è un effetto emulazione da parte di altri paesi. Mente, sul fronte interno, il passaggio alle fonti rinnovabili sembra irreversibile.

Cosa sarà dell’accordo di Parigi

L’ordine esecutivo “Promoting Energy Independence and Economic Growth” firmato il 27 marzo da Donald Trump dà seguito e sostanza alle promesse fatte in campagna elettorale ed è potenzialmente una notizia molto negativa per tutti coloro che hanno a cuore la salute del pianeta.
La delibera presidenziale ha valenza su due fronti, uno esterno e uno domestico. Cominciamo dal primo.
Grazie a una decisione che aveva preso di sorpresa le diplomazie e l’opinione pubblica, nel novembre del 2014 Barack Obama e Xi Jinping annunciavano la volontà di contribuire concretamente alla lotta ai cambiamenti climatici attraverso la riduzione delle emissioni di gas serra dei loro due paesi. Era il preludio che avrebbe condotto alla firma nel 2015, nell’ambito di Cop 21, dell’accordo di Parigi, che prevede piani nazionali volontari di riduzione delle emissioni per ognuno dei 163 paesi aderenti.
L’architrave del piano statunitense – Ndc (Nationally Determined Contribution) – è l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 26 per cento entro il 2025 rispetto ai livelli del 2005. Per realizzarlo è stato predisposto il Clean Power Plan, entrato in vigore tramite un ordine esecutivo del presidente Obama, che ha aggirato l’opposizione del Congresso a maggioranza repubblicana. Si tratta essenzialmente dell’introduzione di limiti alle emissioni di CO2 prodotte dalle imprese produttrici di elettricità da fonti fossili. I limiti sono stabiliti dall’Epa (Environmental Protection Agency) e imposti ai singoli stati Usa, i quali decidono poi autonomamente come soddisfarli.
Oggi Trump smantella proprio questo piano e fa così venire meno il contributo del secondo paese al mondo per emissioni alla lotta contro il riscaldamento globale.
Sul piano del negoziato, è senza alcun dubbio una pessima notizia, perché la decisione di Trump è destinata a rallentare in modo drastico il processo di lotta ai cambiamenti del clima. È infatti prevedibile un effetto di emulazione dei paesi più scettici o riluttanti a partecipare a un accordo senza gli Stati Uniti. Vi è poi una questione collegata al ruolo di leadership del processo che la Cina tende a occupare – come già emerge dalle prime dichiarazioni del premier cinese e del suo portavoce – con implicazioni geopolitiche più generali ancora da decifrare.

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Le conseguenze in Usa

Il fronte interno, invece, è quello della propaganda a favore del carbone e dei minatori. Qui gli osservatori sono quasi unanimi nel ritenere che, come nel populismo più tipico, i risultati non seguiranno alle promesse.
I dati dicono che l’energia elettrica prodotta con il carbone negli Stati Uniti era nel 2015 il 33 per cento del totale, in discesa rispetto al 50,5 per cento del 2005. La ragione principale è nell’abbondanza di riserve di gas di scisto a prezzi più bassi e di fonti rinnovabili più accessibili in termini economici. Il loro costo si è ridotto significativamente negli ultimi anni e il maggiore emettitore di CO2 – e raffinatore di petrolio – degli Stati Uniti, il Texas, è diventato il leader nazionale nella produzione di energia eolica. Nel 2016 il gas naturale ha superato il carbone quale maggiore fonte per la generazione di elettricità. La produzione di carbone ha raggiunto il suo minimo da 35 anni e perde occupati: sono passati da 186mila nel 1985 a 98mila nel 2015.
Il forte impulso che le fonti rinnovabili hanno avuto non è certo reversibile. Un recente studio rivela che i posti di lavoro nell’energia pulita superano di cinque volte quelli nel carbone e gas e che in quarantuno stati vi sono più posti di lavoro nell’energia pulita che nelle fonti fossili.  Si delinea dunque una contrapposizione tra stati della federazione più spinti sul fronte green come la California e quelli “carboniferi”: nel 2015 i maggiori produttori di carbone erano Wyoming (42 per cento), West Virginia (11 per cento), Kentucky (7 per cento), Illinois (6 per cento) e Pennsylvania (6 per cento).
A queste considerazioni si aggiungono due elementi. L’ordine esecutivo di Trump va oltre la questione del carbone. Vi sono altri passaggi che riguardano la revisione dei calcoli per quantificare i “costi sociali del carbonio” e i limiti alle emissioni di metano dovute all’estrazione di idrocarburi (venting e flaring), ma soprattutto la liberalizzazione e semplificazione dell’esplorazione e produzione di petrolio e gas su terreni federali e riserve indiane.
L’altro elemento è che non solo l’Epa potrebbe impiegare qualche anno per realizzare il processo di revisione della posizione statunitense nel negoziato e delle norme ambientali, ma a ogni passaggio quel processo potrebbe essere ostacolato da contese legali interne. Alcuni Stati – New York e California, ad esempio – hanno già manifestato la volontà di opporsi alle decisioni di Trump. In ballo c’è la violazione del Clean Air Act, la legge di tutela della salute dalle varie forme di inquinamento dell’aria, e la relativa giurisprudenza. All’insegna del “if they want to repeal, they have to replace” (se vogliono abrogare, devono sostituire) i giudici sono pronti a dare battaglia.
Come nel caso degli immigrati, anche nel campo dell’energia sembra profilarsi un altro caso in cui giudici si oppongono alle decisioni della politica.

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