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Italiani si diventa

Il Senato discute tra aspre polemiche la legge sul cosiddetto ius soli, che stabilisce nuove regole per la concessione della cittadinanza. Tra l’altro, prevede un riconoscimento del ruolo della scuola quale istituzione centrale per la formazione dei cittadini.

Come si definisce una nazione

Non c’è da stupirsi se sulla legge di riforma della cittadinanza, il cosiddetto ius soli (che tale non è), si siano registrate intemperanze al Senato e voltafaccia politici, come quello clamoroso dei 5 Stelle. Le urne si avvicinano e le politiche legate all’immigrazione sono diventate una materia incandescente, su cui scoppiano tumulti parlamentari che un tempo riguardavano temi come l’adesione alla Nato o la legge elettorale.

Per alcuni aspetti, si può comprendere l’accanimento, giacché la posta sul piano simbolico è elevata: si tratta di decidere chi vogliamo come concittadini e a quali condizioni. Anche se i sondaggi sono da tempo favorevoli alla riforma, quando si viene al dunque non tutti sono pronti ad accettare l’idea che si possa essere italiani con la pelle scura, con gli occhi a mandorla, con il velo o con il turbante. La realtà sociale del paese però è già questa, con 1,1 milioni di minori di origine immigrata, più altri diventati maggiorenni dopo essere passati attraverso le nostre scuole. La visione ottocentesca della nazione del Manzoni, come «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor» (Marzo 1821) non è da relegare in soffitta, ma è di certo destinata a essere ridefinita e negoziata in termini nuovi.

Vale la pena di ricordare che con la legge attuale, adottata nel 1992, noi riconosciamo automaticamente come italiani i lontani discendenti di antichi emigranti che non hanno mai visto il nostro paese, non ne conoscono la lingua, la storia e le istituzioni, ma hanno la fortuna di avere qualche goccia di sangue italiano nelle vene. La legge è l’espressione di una visione della nazione come comunità etnica, basata su legami di discendenza e di sangue, o al più di matrimonio, che gode di un trattamento relativamente privilegiato rispetto alla media europea. Una visione in cui l’ethnos (per l’appunto la comunità etnica) coincide naturalmente con il demos, ossia la popolazione atta alla democrazia (Seyla Benhabib), imponendo invece una lunga attesa per i residenti non etnici. Suona curioso che l’automatismo del diritto di sangue appaia pacifico, mentre l’attribuzione della cittadinanza a giovani cresciuti qui, ma non appartenenti alla nazione “etnica” italiana, sembri ad alcuni una concessione troppo generosa.

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Un ruolo alla scuola

In un caso come questo è raccomandabile cercare di comprendere come si sono mossi gli altri paesi occidentali, e soprattutto i nostri vicini europei. In sintesi: l’attuale legge italiana sulla cittadinanza, dopo la riforma di quella greca, è la più restrittiva dell’Europa occidentale insieme alla normativa del piccolo Lussemburgo. Molti paesi democratici hanno adottato nel tempo norme tese ad agevolare l’acquisizione della cittadinanza per i giovani che sono nati o cresciuti per un certo numero di anni sul territorio nazionale, pur moderando l’automatismo dello ius soli: l’acquisizione secca della cittadinanza alla nascita per tutti resiste ormai principalmente negli Stati Uniti. Questo principio infatti ha un difetto: discrimina tra fratelli e sorelle, privilegiando chi è nato nel paese ricevente rispetto a chi è nato, magari un paio di anni prima, in un altro.

La norma in discussione al Senato prevede in sostanza tre percorsi di acquisizione della cittadinanza. Il primo è lo ius soli “temperato” per minori nati qui, ma con almeno un genitore in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, a sua volta vincolato a criteri di anzianità di residenza, reddito, idoneità abitativa. Il secondo, piuttosto innovativo (esiste un istituto del genere in Germania) è il cosiddetto ius culturae: ai minori nati in Italia o arrivati entro i dodici anni, viene riconosciuto il diritto alla cittadinanza quando abbiano frequentato regolarmente nel nostro paese un percorso formativo di almeno cinque anni. Il terzo percorso, di natura discrezionale, prevede la possibilità della concessione di cittadinanza a chi arriva prima della maggiore età, risiede da almeno sei anni e ha seguito con successo un ciclo di studi o un corso di formazione professionale.

Riconoscere la cittadinanza a chi si forma qui, frequenta per anni le stesse scuole degli altri ragazzi, imparando lingua, letteratura, storia del nostro paese ha un chiaro significato culturale e ancora una volta simbolico: dice che l’Italia è di quanti la vivono, la conoscono e la costruiscono ogni giorno, indipendentemente dalle loro origini. È anche un riconoscimento del ruolo della scuola, come istituzione centrale per la formazione dei cittadini. Ed eventualmente questo ruolo potrebbe essere rafforzato con il rilancio dell’educazione civica di cui da tempo si parla: ovviamente per tutti gli studenti, non solo per quelli di origine straniera. Di nuovo, è strano che ci si preoccupi di verificare la conoscenza di istituzioni e norme costituzionali da parte dei giovani provenienti da famiglie immigrate, e si dia invece per scontato che quanti crescono in famiglie etnicamente italiane le conoscano e vi aderiscano per diritto naturale. Nello stesso senso andrebbe anche un effettivo potenziamento del servizio civile “universale” voluto dalla riforma del terzo settore: un periodo di tempo per l’esercizio pratico della cittadinanza come servizio alla collettività, nelle moltissime forme possibili, accompagnato da un’adeguata formazione anche civica.

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Non si vede invece quali vantaggi porti a una società nazionale demograficamente esangue la prolungata esclusione di oltre un milione di giovani. Non appare un incentivo ad amare l’Italia e a sentirla come la propria patria.

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17 commenti

  1. Ubiper

    “Non mi sento britannico, se fossi nato in una stalla non direi che sono un cavallo” –Anjem Choudary

    Perché tirare in testa un passaporto italiano alle persone che la prendono così?

    Sono favorevole a criteri più laschi, però il paletto deve sempre essere “farne richiesta da maggiorenni”. Cosa c’è di più bello che dire “Sì lo voglio!” alla domanda “Vuoi essere italiano”? E in più scremiamo quei pazzerelloni che non si sentono cavalli.

    • Giovanni

      Ammesso e non concesso che lei abbia ragione su quanto ha scritto, ma cosa c’entra con lo Ius Soli?

  2. Marecomassimo

    Il discorso non farebbe una piega; il problema di fondo però è un altro; ovvero trovare qualcosa da fare alle decine e decine di migliaia di persone che vengono qua dall’africa e dall’asia, vista la già quantita sterminata di donne, giovani e meno giovani italiani che si arrangiano con lavoretti saltuari; non è che qui ci sia proprio un apparato industriale avido di braccia; e non è che i profughi siano proprio in maggioranza dei tecnici specializzati, che in ogni caso preferirebbero le paghe di altri paesi alle nostre, come fanno molti italiani. Certamente ci saranno dei lavori che gli italiani non vogliono fare; certamente ci saranno molte piccole imprese di stranieri che si accontentano di poche centinaia di euro di reddito spiazzando in questo gli italiani: il resto andrà a infoltire il lavoro informale e paraillegale o illegale, magari in piccoli ghetti etnici nelle città che potranno gradualmente trasformarsi nelle tristi entità segregate già note in città del nord europa. Se non si valutano questi rischi e questi problemi e si pensa che si risolvano da soli, siamo fuori strada del tutto; non sono riusciti storicamente nell’inclusione dove ci sono pubbliche amministrazioni e sistemi di welfare molto più efficienti dei nostri; che noi ci si provi con cuor leggero e con tutte le nostre pecche, è qualcosa di suicida.

    • bob

      “Certamente ci saranno dei lavori che gli italiani non vogliono fare ” ..il Paese con tassi di analfabetismo oltre il 20%, con meno laureati, con maggior abbandono del ciclo scolastico, con il minor numero di lettori di libri! Edilizia, agricoltura, ristorazione 90% operatori stranieri. Ma gli Italiani cosa fanno? Vivono di burocrazia inutile partendo dallo Stato passando per le regioni, provincie Comuni enti circoscrizioni etc etc

  3. Sergio Nardini

    Andrebbe allora previsto dalla stessa legge la reintroduzione dell’educazione civica e un servizio civile generalizzato

  4. Cristiano Paolini

    E’ curioso come ci siano cittadini italiani che disprezzano la loro nazione fino a maturare ambizioni secessioniste, mentre ragazze e ragazzi cresciuti insieme a coetanei italiani con cui condividono giochi, esperienze, amori, tristezze, passioni siano considerati estranei. Il concetto di Nazione legato ad una vicinanza di “sangue” mi sembra così estraneo, rispetto al senso di comunione con cui percepisco persone con cui sono cresciuto e che tuttavia vengono considerati stranieri/estranei.

    • bob

      Paolini il suo discorso oltre che onesto intellettualemnete è troppo elevato, ma soprattutto inarrivabile per gli “ambiziosi secessionisti” …territori alcuni con percentuali di analfabetismo da pelle d’ oca per il 2017
      L’ equazione : creduloni-analfabeti / furbastri masanielli è deleteria

      • Alberto

        Per definizione un’equazione matematica è un’eguaglianza tra due espressioni algebriche contenenti una o più incognite.

  5. Michele Zazzeroni

    Il grande Manzoni fotograva la situazione del suo tempo. Tralasciamo pure ora l’arme, la religione e il sangue. Non si dovrebbero fare sconti però su lingua, memorie e cor. Questo è il punto. Vorrei dire al prof. Ambrosini che, appunto, non è l’approccio dell’ethnos che mi interessa, ma è proprio quello del demos, degli immigrati “atti alla democrazia”, qualunque cosa voglia dire esattamente. Basta qualche anno sui banchi di scuola? A prescindere dal tipo di resistenza cultural-famigliare? Non dovrebbe essere un percorso con una verifica a 16-18 anni? E’ così pressante farli cittadini a 12anni? Certo, a tanti italiani in questa ottica, la cittadinanza andrebbe tolta, ma nessuna legge lo consente, dobbiamo tenerceli sul gobbone per jus sanguinis.

  6. Bice

    La legge dimostra una visione della scuola italiana che purtroppo non corrisponde alla realta’. Se la scuola avesse i mezzi per integrare davvero gli stranieri (ad es. sostegno specifico per l’apprendimento della lingua, mediatori culturali etc.), allora funzionerebbe. Invece molto e’ lasciato alla buona volonta’ degli insegnanti e del volontariato, coi vari doposcuola etc. Sanatorie varie hanno fatto si che ci siano molti insegnanti poco qualificati, che vedono l’insegnamento come un lavoro impiegatizio quando non come una forma di welfare. Negli istituti superiori ci sono situazioni di assoluto degrado, in cui insegnanti disprezzati dalla societa’ e dagli allievi stessi possono al piu’ vigilare che nessuno si faccia male o compia reati. Al di la’ delle conoscenze, la socializzazione che la scuola puo’ dare e’ limitata. Questa legge attribuisce alla scuola italiana una responsabilita’ troppo grande per le risorse che ha. I politici hanno in mente la scuola che loro hanno conosciuto, o la scuola svedese che hanno visto in TV – ma quella che esiste ora e’ ben diversa, e loro stessi hanno contribuito a demolirla.

  7. Sergio Calzone

    Aderisco in pieno alle parole di Cristiano Paolini. In più, vorrei elogiare quanto scritto nell’articolo a proposito di molti italiani (per nulla secessionisti poiché dell’Italia hanno imparato ad approfittare) che mostrano una totale ignoranza e un conseguente disprezzo per le istituzioni del Paese. Non dico ciò per una visione autoritaria della Nazione (tutt’altro!) ma perché la democrazia, non dimentichiamolo, è soltanto l’istituzione “meno peggio”, in quanto consente il voto anche a chi, fino a un attimo prima, disprezza lo Stato e a chi è orgoglioso di non sapere. Per mia esperienza diretta di insegnante, ho incontrato maggiorenni che chiedevano che spiegassi loro quali partiti erano di Sinistra, quali di Destra, quali di Centro! Ed erano persone che avevano già votato più volte! Vogliamo lasciare il diritto di voto a costoro e negarlo a chi, per frequentazione di studi, indipendentemente dalle caratteristiche somatica, ne sa probabilmente più di loro?

    • bob

      Calzone in certi territori ho trovato artigiani di 30 anni che si sono fatti compilare il bollettino alle poste. Non dico altro
      L’utlima frontiera da sperimentare è quella della “democrazia qualitativa” non so con quale metodo o sistema o architettura

  8. Henri Schmit

    Condivido interamente. Starei tuttavia più attento a citare la nuova legislazione lussemburghese in materia di cittadinanza (2008). E vero, prevede la naturalizzazione solo a maggiore età, dopo una residenza continua, assimilazione di elementi culturali (conoscenze linguistiche e civiche) e attestato di onorabilità (assenza di condanne). Bisogna tuttavia tener conto di che cos’è il LX: 576K abitanti, una provincia italiana, completamente aperta, 47% di residenti stranieri, più 170K frontalieri che abitano oltre confine ma lavorano al LX, più frontalieri indipendenti. Non ci sono ostacoli meschini come le procedure di almeno quattro anni all’italiana. Un terzo dei cittadini ha cognomi stranieri, italiani, portoghesi, francesi, tedeschi. La nuova legge riconosce la doppia cittadinanza, per facilitare la naturalizzazione. Il commento della legge più autorevole è firmato Scuto, il ministro delle finanze si chiama Gramegna, il presidente della Camera Di Bartolomeo, altri deputati Dall’Agnol, Negri, Anzia, Traversini, su 60. La quota rifugiati (in arrivo, in attesa di risposta e riconosciuti) è uguale a quella italiana (cioè circa 1 centesimo), ma l’integrazione dei minori e degli adulti è reale, effettiva, organizzata fattivamente dalla collettività, da subito, anni prima che possa scattare la naturalizzazione. Quindi non sottvalutare il piccolo Lx che è un modello sperimentale, perché tutti i problemi reali legati all’immigrazione vi sono molto più sensibili, incidendo di più.

  9. Giacomo

    Questo articolo mi sembra puramente politico e poco argomentato e, in quanto tale, sotto gli standard della Voce.
    Da un docente di sociologia mi aspetto un’analisi del livello di integrazione raggiunto dai minori stranieri che, per esperienza di tanti, non è uguale.
    Ci sono minori con famiglie perfettamente integrate, per i quali sarebbe utile la cittadinanza (non solo per i minori) e ci sono minori di famiglie che non si vogliono (non vogliono!!) integrarsi e che a scuola vanno solo per soddisfare minimi requisiti per avere vari bonus.
    Perchè dare la cittadinanza in modo indiscriminato agli uni e agli altri?

  10. Luca

    Tra tutte le cose curiose di cui parla l’articolo, trovo curioso che esprima praticamente solo le opinioni dell’autore. Di norma La Voce si distingue per il rigore scientifico delle sue affermazioni, e proprio per questo certe volte si intuisce che gli autori “tirano” in una direzione ma… non possono, per rispetto della verità dei numeri. In questo caso, dire che “i sondaggi sono da tempo favorevoli alla riforma” è una forzatura che presume che il lettore non viva in Italia. Nel nostro Paese c’è un plebiscito CONTRO lo ius soli puro, a fatica i sostenitori della riforma recuperano qualche consenso introducendo il concetto di “temperato”. Come sempre, basta togliere dalle norme l’ideologia (ius soli come giustizia cosmica) e introdurre il buon senso (ius soli come riconoscimento agli stranieri regolari).

  11. veronica

    Non sono d’accordo con l’automatismo della cittadinanza. Non tutte le persone immigrate hanno intenzione di integrarsi nel paese di destinazione, migrano per lavoro per garantire una vita migliore ai propri figli, ma “odiano” o “non amano” il paese dove sono emigrati. Allora perché concedere una “cittadinanza” che loro stessi non vogliono?

  12. Piero Borla

    Secondo i dati ufficiali del Comune di Torino nel biennio 2013-14 vi sono stati complessivamente 14.838 nuovi nati, e 6.207 decreti di concessione di cittadinanza; quindi i nuovi italiani sono stati circa il 42% dei nati. Secondo Calderoli (citato su La Stampa del 20/6/2017) nel 2016 si sono avuti in Italia 205.000 riconoscimenti di cittadinanza. Di fronte a questi dati mi sembra che la legge vigente, n° 91 del 1992, funzioni piuttosto bene e non colgo l’urgenza di allargare ulteriormente gli accessi. Aggiungo che il requisito di cultura consiste per l’appunto nella semplice frequenza del corso scolastico o professionale, senza necessità di conseguimento del titolo di studio finale (solo per la scuola media si chiede l’ottenimento della licenza); è quindi sufficiente scaldare i banchi, come di diceva ai miei tempi, e questo non mi dà buona impressione.

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