La “finanziaria” in discussione preannuncia il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici e dunque un aumento degli stipendi. Ma per capire gli effetti sul reddito degli statali, bisogna fare i conti con il bonus da 80 euro. Sarebbe utile una riforma complessiva.
Tutti i limiti del bonus
Il governo si accinge a rinnovare il contratto – e il trattamento economico – dei dipendenti pubblici, come prevede il disegno di legge di bilancio per il 2018. L’aumento medio di reddito al lordo di imposte e contributi dovrebbe essere pari a circa 1.100 euro (85 euro mensili per 13 mensilità). Con lo stesso provvedimento il governo ha ritenuto di intervenire rimodulando la soglia di reddito nella quale il “bonus 80 euro” decresce fino ad annullarsi (24.600-26.600 anziché gli attuali 24mila-26mila). Le due misure, valutate insieme, sottolineano alcuni aspetti di irrazionalità insiti nel nostro attuale sistema di benefici fiscali.
Il “bonus 80 euro” fu originariamente presentato con pochi argomenti, se si eccettua lo stimolo ai consumi di una parte dei dipendenti attraverso 80 euro in più al mese. È slegato dalla struttura dell’imposta personale sul reddito e dipende dal reddito complessivo Irpef solamente per stabilire il suo importo. È erogato a chi percepisce almeno un reddito da lavoro dipendente o assimilato (fra cui i collaboratori continuativi), sempre che la specifica imposta lorda sia superiore alla detrazione per lavoro dipendente (8.145 euro per chi lavora tutto l’anno) e che il reddito complessivo sia inferiore a 24mila euro per un importo pieno e a 26mila euro per uno ridotto.
Tralasciando i problemi tecnici legati alla sua possibile restituzione, la misura ha molti punti di debolezza. Basta ricordarne alcuni: è fonte di iniquità orizzontale (ne beneficiano dipendenti e assimilati, ma non altri lavoratori e percettori, mentre a parità di reddito familiare l’importo raddoppia nel caso di due lavoratori dipendenti anziché uno); non è uno strumento appropriato di contrasto alla povertà o di redistribuzione (perché esclude inspiegabilmente dalla platea dei beneficiari proprio i dipendenti e collaboratori a più basso reddito); migliora sì la redistribuzione complessiva dell’imposta ma, in quanto destinato ai soli dipendenti, con un notevole e anomalo riordino dei redditi netti; produce aliquote marginali effettive molto elevate e di segno opposto, sia al superamento della soglia di reddito per poterne beneficiare, sia nella fascia di reddito in cui decresce fino ad annullarsi (un intervallo modesto in termini monetari, ma grande in termini di contribuenti coinvolti, circa 1,2 milioni).
Effetti del rinnovo contrattuale
Quest’ultimo aspetto salta subito agli occhi analizzando l’effetto congiunto dell’imminente rinnovo contrattuale dei dipendenti pubblici e – per alcuni di loro – della riduzione del bonus che potrebbe conseguirne.
Il grafico 1 considera un incremento di reddito complessivo Irpef pari a mille euro ed evidenzia l’aumento di reddito disponibile (saldo tra incremento di reddito complessivo, Irpef e “bonus”), al variare del reddito complessivo, in due scenari: struttura del “bonus” oggi in vigore (linea rossa) oppure modificata come indicato nel disegno di legge di bilancio (linea verde). Per semplicità si considera un lavoratore dipendente senza carichi familiari, detrazioni per spese e deduzioni, tralasciando le addizionali.
Indipendentemente dalla modifica della fascia di decrescenza del “bonus” (che avrebbe potuto almeno in questa occasione essere allargata per ridurre l’elevata aliquota implicita aggiuntiva), è chiaro che un incremento di reddito complessivo determina comunque un aumento del reddito disponibile (cioè che le aliquote marginali effettive sono minori del 100 per cento). Tuttavia, nell’attuale fascia 24-26mila euro (che nel 2018 dovrebbe diventare 24.600-26.600), l’aliquota effettiva è pari a circa l’80 per cento e ciò spiega la forte riduzione dell’aumento in questo intervallo di reddito in entrambi gli scenari, pur con significative differenze.
La modifica della decrescenza del “bonus” (differenza tra la linea rossa e quella verde), in altre parole, serve solo ad attenuare un aspetto poco desiderabile del nostro sistema, senza peraltro porvi rimedio fino in fondo: i benefici netti legati al rinnovo contrattuale, ad esempio, sono minori di quelli goduti dai contribuenti più ricchi, mentre restano invariati il range di decrescenza e di conseguenza la specifica aliquota marginale abnorme del 48 per cento.
Di segno opposto e molto più evidente è ciò che succederebbe a livelli di reddito appena inferiori a 8.145 euro (se fosse erogato un aumento uguale per tutti, come si considera qui per semplicità). Il beneficio sarebbe doppio: il rinnovo contrattuale e il “bonus”, entrambi goduti.
Insomma, emergono ulteriori argomenti a favore della revisione o, meglio, del superamento di questo strumento, attraverso una riforma del sistema di imposte e benefici fiscali che abbia coerenza interna e respiro strategico.
Grafico 1 – L’aumento lordo e netto
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Luigi
Chi mai avrà il coraggio di togliere questo abominio del diritto tributario? Levare ottanta euro al mese a chi ne guadagna comunque pochini ed a tutte le forze dell’ordine a prescindere dal reddito… Probabilmente sarà, come troppo spesso avvenuto, la Consulta partendo dai problemi di aliquota marginale evidenziati dagli articolisti, quindi dall’intaccata progressività dell’imposizione (ma che natura giuridica ha, cos’è? Se è una mancetta…). Comunque da un lato chi interverrà perderà consenso politico importante, d’altro canto tapperà una falla di bilancio non da poco. Richiamiamo Monti-Fornero?