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Contro il negazionismo economico

Spesso le decisioni politiche non incorporano le migliori e più aggiornate conoscenze scientifiche. Vale anche, e forse soprattutto, per l’economia. Ci sono tre ricette per evitare che l’opinione pubblica sia vittima di credenze prive di fondamento.

Il negazionismo economico che avanza

Viviamo in un’epoca in cui il progresso scientifico avanza a velocità straordinaria. Eppure, spesso le decisioni politiche non incorporano le migliori e più aggiornate conoscenze, e l’opinione pubblica non solo non è adeguatamente informata, ma non di rado è vittima di credenze errate e in contrasto con il consenso scientifico. Paradossalmente, il fenomeno sembra essersi accentuato con la diffusione di internet.

Il problema esiste in tutti i campi: dalla medicina, alla climatologia, alle scienze sociali. Ma è particolarmente rilevante in economia. Innanzitutto, perché vi sono grandi interessi in gioco. Organizzazioni, gruppi, imprese hanno un forte incentivo a manipolare l’opinione pubblica e a influenzare le decisioni politiche, e spesso vi riescono. In secondo luogo, perché i fenomeni economici e sociali sono estremamente complessi e difficili da prevedere e ciò contribuisce a diffondere l’opinione errata che la scienza economica non abbia nulla di rilevante da dire. Come ha chiesto la Regina Elisabetta, “Perché nessuno ha visto arrivare la (recente) crisi finanziaria?” (in realtà c’è chi aveva lanciato segnali di allarme). Infine, perché le implicazioni pratiche dell’economia riguardano ambiti che sono anche oggetto di visioni ideologiche e di programmi politici. E i dati dicono che spesso le opinioni politiche e i giudizi di valore condizionano anche le credenze individuali circa le conseguenze di specifici interventi o azioni.

Il risultato è che le conoscenze economiche stentano a informare il dibattito politico e l’opinione pubblica è spesso vittima di pregiudizi o credenze che sono in contrasto con il consenso e le conoscenze consolidate della scienza economica. Un recente libro di Pierre Cahuc e André Zylberberg illustra il problema, ne discute le conseguenze e propone possibili rimedi.

Il punto centrale del libro è che negli ultimi anni l’economia ha attraversato una vera e propria rivoluzione. Grazie alla grande disponibilità di dati e a importanti innovazioni metodologiche, la conoscenza economica ora si appoggia su risultati sperimentali o quasi-sperimentali, e l’evidenza empirica svolge un ruolo fondamentale nel guidarne il progresso. Da un lato, questo vuol dire che la conoscenza economica ha ora solide basi empiriche e le sue prescrizioni sono diventate più affidabili. Dall’altro, il metodo sperimentale può essere esteso per valutare le conseguenze di specifici interventi di politica economica, senza dover fare affidamento su ipotesi solo teoriche. Tuttavia, questi progressi spesso sono ignorati al di fuori della disciplina, con la conseguenza che il dibattito di politica economica è di frequente viziato da pregiudizi ideologici. Il libro contiene molti esempi tratti dal dibattito politico ed economico in Francia. Ma il lettore italiano sarà colpito da quanto forti siano le somiglianze con i problemi economici discussi in Italia.

Ad esempio, anche in Italia il pensiero economico è spesso additato come un “pensiero unico”, adagiato sull’ideologia neoliberista che vede il mercato come la soluzione di tutti i problemi. Ma non è così. Innanzitutto, è semplicemente falso che in economia vi sia un’unica visione dominante. Al contrario, spesso gli economisti sono accusati di non essere mai d’accordo tra loro, come ci ricorda la battuta di Winston Churchill: “Se metti due economisti in una stanza, hai due opinioni, a meno che uno di loro sia Lord Keynes, nel qual caso hai tre opinioni”. In secondo luogo, il neo-liberismo non ha nulla a che vedere con il consenso scientifico in economia. Basta ricordare che Jean Tirole ha vinto il premio Nobel in economia nel 2016 per i suoi studi sulla regolamentazione dei mercati. Chi afferma il contrario semplicemente non sa di cosa sta parlando. Il punto è che accusare gli economisti di “pensiero unico” o di “ideologia liberista” è spesso un modo per screditarne gli argomenti, senza entrare nel merito delle questioni dibattute.

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I populisti e l’economia

I nuovi movimenti populisti usano spesso questo argomento, anche in Italia. Ciò non deve sorprendere. Sebbene in economia non vi sia un pensiero unico, infatti, vi è comunque uno stock di conoscenze consolidate e non vuote di contenuto. Lo stock di conoscenze molte volte è in contrasto con le ricette populiste. Anche in Italia, il populismo, di destra come di sinistra, spesso avanza proposte semplicistiche e miopi: la moneta fiscale come antidoto all’euro, una flat tax (o tassa unica) al 15 per cento, l’affermazione che un aumento della spesa pubblica finanziato in disavanzo sia compatibile con la discesa del debito pubblico. Queste proposte o affermazioni non stanno in piedi dal punto di vista economico e si scontrano con le conoscenze consolidate degli economisti. Ecco allora che conviene screditare l’economia e accusarla di pensiero unico e ideologico. Diffondere la sfiducia verso gli esperti e le élite, cioè, è un modo per evitare di fare i conti con la realtà. Accade in Francia, come in Italia, in Inghilterra o negli Stati Uniti.

Le analogie tra Francia e Italia non si limitano al carattere generale del dibattito di politica economica e al ruolo degli economisti. Ad esempio, chi invoca una nuova politica industriale in realtà sta spesso cercando protezione dalla concorrenza o sussidi per tenere in vita impese non competitive. Gli interventi per il Mezzogiorno sono l’esempio più lampante degli errori commessi in Italia nel disegnare politiche di sviluppo regionale. Mario Draghi, aprendo un convegno sulle politiche del Mezzogiorno nel 2009, quando era governatore della Banca d’Italia, riassume così i risultati delle ricerche svolte sull’argomento: “Le nostre analisi mostrano che i sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci: si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque; si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive”. Gli studi della Banca d’Italia suggeriscono invece di promuovere politiche generali (istruzione, giustizia, trasporti), con obiettivi riferiti a tutto il paese, cercando però di capire perché le condizioni ambientali rendono la loro applicazione meno efficace in alcune aree. Questa lezione è una diretta implicazione di rigorosi studi empirici sull’argomento. Eppure, è spesso ignorata nel dibattito politico.

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Come combattere il negazionismo economico

Ci sono tre ricette per evitare che l’opinione pubblica sia vittima di credenze prive di fondamento, e per avvicinare il dibattito politico alle migliori e più consolidate conoscenze in campo economico.

Prima di tutto, gli economisti non devono vendere false certezze. L’economia ha molte implicazioni rilevanti per la politica economica, e ormai ci sono tante conoscenze pratiche che possono informare le decisioni politiche. Tuttavia, in economia non vi sono leggi universali che valgono con esattezza e precisione e la nostra capacità di prevedere le conseguenze di specifiche azioni è comunque limitata. Far valere il principio di autorità scientifica anche quando non vi sono conoscenze consolidate, o esagerando la portata della nostra conoscenza, è controproducente perché alimenta lo scetticismo e giustifica le critiche ideologiche. Non sempre gli economisti si sono astenuti dal commettere questo errore, anche da noi.

Poi c’è il compito dei giornalisti che devono documentarsi e sapere che non tutte le opinioni meritano lo stesso peso. Nel nome del pluralismo, spesso i media danno visibilità e rilevanza a opinioni palesemente false o contraddette da rigorosi studi scientifici, mettendole sullo stesso piano di affermazioni che invece sono sostenute da un ampio spettro di ricerche e approfondimenti. Questo non vuol dire dare più peso alle opinioni dei docenti universitari, indiscriminatamente. In Italia come altrove, spesso i sedicenti economisti più visibili sui media e più pronti a esprimere un giudizio sono anche quelli meno aggiornati e preparati. Un giornalista deve però saper distinguere tra i ciarlatani e gli esperti, e capire con chi ha a che fare. Nell’era di internet, non è difficile valutare le credenziali di un interlocutore.

Infine, è importante trasmettere all’opinione pubblica l’idea che non esistono ricette semplici o miracoli. Sono decenni che l’economia italiana stenta a crescere, non dà opportunità ai giovani, ha un debito pubblico elevato. Se nessuno si è accorto prima che c’era una scorciatoia per aumentare la crescita, ridurre la disoccupazione o combattere la povertà, quasi certamente è perché quella scorciatoia è un vicolo cieco che non porta da nessuna parte. Anche se è difficile da accettare, probabilmente non vi sono alternative alle riforme scomode e impopolari che molti osservatori esterni ci suggeriscono da tempo.

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41 commenti

  1. Savino

    L’altro giorno in un mercato rionale ho ascoltato con queste orecchie dire che Alexander Fleming era un cretino mentre Mark Zuckerberg sarebbe un eroe. Guru e stregoni di varia natura hanno usurpato chi ha dedicato una vita allo studio per il progresso e la civiltà.

  2. P. Aghsow

    Ottimo articolo, come sempre, dell’ottimo Maestro Tabellini, che perfettamente analizza una congiuntura, permettetemi, più intellettuale che economica. Oggi si deve parlare con chi solleva i dubbi per partito preso, birbanti che nascono forse anche per errori del passato, come suggerisce il professore, ma che in mia opinione sguazzano nella loro incapacità di analisi e di apporfondimento. Incapacità ovviamente poi riportata tramite il webbe. Spero che il dibattito sano risorga e che smetta di esistere questa accozzaglia di idee malsane (perchè piaccioni ai più), pregando che non debbano essere confutate perchè verranno applicate. Insomma, spero in una continua discriminazione dei ciarlatani, magari applicata con forza e con determinazione (perchè no, anche per vie politiche) da uomini che conoscono e che hanno un certo carisma. Riportiamo il dibattito sui binari corretti, riportiamo il mondo nella giusta direzione.

    • P. Aghsow

      Relativamente a “pregando che non debbano essere confutate perchè verranno applicate” intendevo “pregando non debbano essere confutate dalla realtà stessa nel caso dovessero essere applicate”

  3. Edo Pradelli

    “……probabilmente non vi sono alternative alle riforme scomode e impopolari che molti osservatori esterni ci suggeriscono da tempo.”
    Quali sono queste riforme?

    • Fabio

      Effettivamente quella frase finale dell’articolo sembra in contraddizione con quasi tutto quello che viene detto prima, in particolare che in economia non esistono certezze. L’unica certezza, in Italia, non è economica ma finanziaria. Vale a dire, l’elevato debito pubblico. Considerati gli errori passati dei praticanti questa professione (tra i quali mi annovero), l’unico ruolo che può avere un (macro)economista oggi è di ricordare sempre che ogni azione di policy debba essere improntata dal principio di prudenza sul lato della finanza pubblica. Tutto quello che abbiamo sentito in campagna elettorale non era improntato su questo principio così come poco di quello che si continua a sentire dagli economisti di quei partiti che con più probabilità formeranno il Governo nelle prossime settimane.

  4. Franco Tegoni

    L’idea che non esistono ricette semplici o miracoli dovrebbe essere assunta soprattutto dalla politica, dagli attori della politica. Ma la politica è scomparsa e al posto di veri attori della politica ci sono delle comparse improvvisate. Chi ci potrà salvare dai venditori di pozioni magiche?

  5. Alberto Olmi

    Eccellente contributo. Dobbiamo anche ricordare che l’economia è disciplina ad alta intensità epistemologica e assieme strumento di cui amano appropriarsi pragmaticamente le élite; le stesse che in questa fase storica hanno perso grande credibilità. La rivalutazione della prospettiva dell’economia civile e il ritorno a considerare una variabile critica la struttura della governance territoriale nei modelli di sviluppo industriale (Piore, 2017) sono due sintomi che indicano a economisti, accademia e percorsi formativi di attrezzarsi maggiormente a rispondere a nuove sfide. Una formazione di impostazione più umanistica, maggiori strumenti di ricerca sociale anche qualitativa forse possono aiutare oltre i big data.

    • P. Aghsow

      Giuste osservazioni, ma due precisazioni per quanto mi concerne: a parer mio se lei considera le “èlite” come classi estremamente benestanti, mi trova relativamente d’accordo. Ma se lei intende anche in questa categoria, studiosi o intellettuali della materia, posso in mia opinione dirle che non è vero che abbiano perso credibilità nei confronti di chi lavora a certi livelli o conosce in che posizione è il mondo. Tutt’al più, avranno perso credibilità verso gente che la materia la ignora, persone a cui è indirizzato come invettiva questo articolo. Aggiungo che le discipline sono di chi le studia e le usa. Quindi sopratutto le “èlite” in senso di “ricchi” (questa volta) ovviamente sono sempre stati interessati. Ho paura che lei utilizzi il termine “appropriarsi” in senso negativo, ma credo in realtà che tale situazione rispecchi un fatto normale della società, l’interesse della ricchezza e delle scienze ad essa connessa per i ricchi.
      La seconda precisazione, più uno spunto di riflessione forse, è la discussione relativa ad “umanizzare” la scienza economica. Molti ne parlano, ma non ho ancora mai visto un economista che utilizzi un metodo di ricerca differente per poi essere scambiato “solo” per un sociologo o essere denominato con altra targhetta (non è una critica al lavoro, ma mi pare molto quella discussione banale che veniva fatta a favore dei pompieri che rischiavano la vita per £2milioni al mese in mezzo ad una trasmissione di pallone. Cose diverse; ad ognuno il suo.)

    • P. Aghsow

      Resto certamente d’accordo sull’innegabile realtà che l’economia debba rinnovarsi, come lei suggerisce, per le nuove sfide del futuro.

  6. thomas

    Quanto conta in tutto ciò l’assenza di un sano e vero dibattito sulle riviste accademiche, con editor cecati e monocoli che giudicano per cordate amicali più che per le idee espresse o la qualità del lavoro o, peggio ancora, per opinioni da bar sentite intorno ai caminetti? Quanti sanno con precisione riportare l’opinione dei loro colleghi e l’argomento sul quale quell’opinione si basa, piuttosto che il numero di riviste top collezionate? Mi pare chiaro che a una parte relativamente ampia del mondo accademico non interessi assolutamente nulla del dibattito di politica economica; interessa avere l’American Economic Review per fare carriera. Poi se quello che scrivi è quello che pensi o quello che pensa l’editor non importa granchè. Desolante.

    • Henri Schmit

      Bravo! Negli ultimi 4 secoli la verità, quello che la posterità ha dichiarato tale, e la produzione accademica hanno solo raramente coinciso. Ma il consenso accademico è sempre preferibile alla concorrenza fra chi grida più forte alla tv, o chi vi vende di più.

  7. bob

    prof la capacità di critica si alleva nelle scuole con determinati percorsi di istruzione fatti, a mio avviso, dando priorità iniziale agli studi umanistici. La scuola intesa come formazione dell’ uomo sia nell’apprendimento, del ragionamento della critica analitica è la scuola. Il resto dovrebbero essere corsi di formazione più o meno lunghi fatti successivamente alla scuola. Ma la cultura critica per il potere e come l’aglio per il vampiro

  8. Henri Schmit

    Innanzitutto bisogna distinguere fra analisi di dati e fatti ove si può parlare di verità (coerenza e falsificabilità), e politiche o ricette economiche, sempre solo prudenziali. Gli economisti si occupano pure di alte ancora: Kenneth Arrow ha ricevuto il premio Nobel per un lavoro, base della teoria della scelta collettiva razionale e democratica, di logica pura, in buona sostanza una riformulazione del paradosso di Condorcet, rimasto lui senza premio. Poi gli economisti applicano il loro metodo econometrico al mondo politico, costituzionale e quindi giuridico dove la confusione fra fatti e diritti può essere molto perniciosa.

    • Mauro

      Articolo molto interessante. Piccola osservazione critica. “Anche in Italia, il populismo, di destra come di sinistra, spesso avanza proposte semplicistiche e miopi: […] l’affermazione che un aumento della spesa pubblica finanziato in disavanzo sia compatibile con la discesa del debito pubblico”. Questa affermazione sembra in realtà corretta (si veda per esempio DeLong & Summers “Fiscal Policy in a Depressed Economy” 2012). Forse sarebbe stato meglio scrivere: “un aumento della spesa pubblica finanziato in disavanzo sia SEMPRE compatibile con la discesa del debito pubblico”.

  9. Alessandro Petretto

    Grande contributo, Guido! Una grande saggezza combinata con solide basi culturali. E’ proprio la complessità e l’assenza di verità assolute della disciplina economica, quella vera, che la rende invisa ai ciarlatani che invece necessitano di affermazioni forti, piegate alle loro convinzioni e ideologie. Quanto al pensiero unico e all’ideologia liberista, cui sono attribuiti tutti i guasti dell’epoca contemporanea, ricorda un pò la parabola degli untori del Manzoni. Il fatto è che spesso prevale, in particolare da noi, la spinta a scaricare su altri le responsabilità che in realtà sono nostre come membri della società. La scienza economica, quella venutasi a formare con il contributo di tanti grandi pensatori nel corso del novecento, diventa un bersaglio eccellente a tal fine, perché, per essere compresa e opportunamente diffusa, richiede studio e applicazione. Le distorsioni nei meccanismi di accesso alle riviste più accreditate e quindi negli sviluppi delle carriere accademiche sono evidenti, ma non inficiano il dato di fondo del grande progresso di questa scienza.

  10. enrico petazzoni

    “la moneta fiscale come antidoto all’euro, la flat tax al 15%, l’affermazione che un aumento della spesa pubblica finanziato in disavanzo sia compatibile con la discesa del debito pubblico. Queste proposte o affermazioni non stanno in piedi da un punto di vista economico e si scontrano con le conoscenze consolidate degli economisti”. Se queste sono le premesse è inutile tentare un qualunque dialogo.

  11. Fabrizio Fabi

    Il prof. Tabellini dice bene, ma gioverebbe essere più specifici. Giustissima la condanna del “far valere il principio di autorità scientifica anche quando non vi sono conoscenze consolidate”. Mi pare che valga soprattutto per la Macroeconomia, che era debole già all’origine, in un mondo statico, e ormai aiuta ben poco (essa si basa su fra aggregati economici delineati in modo rudimentale, come il PIL, l’occupazione, ecc., e su loro correlazioni misurate sui dati del passato; inoltre, tendenzialmente trascura la distribuzione dei valori individuali entro ogni aggregato, lavorando così solo sulle medie; mi sembra dubbio che i maggiori dati e studi empirici possono servire, come invece servono in ambito microeconomico, poco usato nelle scelte pubbliche). Poi c’è il problema della crescita spropositata degli intermediarii puramente finanziari, che alterano la capacità segnaletica dei prezzi “di mercato”, indebolendo ulteriormente la fiducia del pubblico. In questa grave crisi di credibilità della teoria e soprattutto della pratica economica i demagoghi hanno inevitabilmente ampi margini per inserirsi.

  12. Piero

    iDebiti publ+priv oggi son a livello post ww2 1945 in tutto il mondo, e non diminuiranno bensî aumenteranno ulteriormente come sanno e dicono tutte le Banche d’Affari e gli Istituzionali nei loro rpt piú o meno riservati.
    E siccome sono irrimborsabili verranno sempre piú Sterilizzati (cioè de facto annullati) con dosi di Qe (e nel LT addirittura di Helicopter Money) che oggi vi sembran follia. Bisognerà semplicemente aspettar che Tappering produca IperPanico x costringer Bc a ristampare.
    La prima parte di questo msg son meri fatti e se non li sapete fate un pó di analisi comparata di LT.
    La seconda è una mia interpretazione non certo inferiore a quella degli economisti ed dei vari Fmi che mi giudicano un visionario. Ai posteri l’ardua sentenza: avrò ragione (di nuovo) io oppure voi ? Cordialità e Buona Pasqua

  13. Claudio Mazzantini

    La vogliamo smettere di continuare a raccontar favole? Sono Ignorante in materia ma non stupido.So benissimo che questo commento non sarà pubblicato,ma vorrei chiederle: continuiamo a parlare del sesso degli angeli,lei sa benissimo che la gestione del denaro è in mano privata,vogliamo parlare del Signoraggio o no,ogni Stato deve tornare proprietario del proprio Istituto di emissione,regolando l’emissione del denaro in base ai bisogni della spesa pubblica e finanziando le idee innovative creando così ricchezza,i rubinetti devono essere regolati in maniera tale da garantire un flusso che non crei eccessiva inflazione.Naturalmente occorre una classe politica seria e lungimirante cosa che purtroppo non abbiamo.Vogliamo parlare delle concessioni autostradali (regalate ai privati)quando la manutenzione durante il controllo dello Stato era migliore di adesso ed i soldi rimanevano in cassa.Ricordiamoci che non erano in deficit.

    • Francesco

      Ecco, il suo è un esempio perfetto di ignoranza economica e di rifugio in soluzioni semplicistiche

  14. Mario

    Non si capisce per quale ragione bisogna scrivere un libro e/ un articolo per sostenere che al pensiero unico non c’è alternativa.
    Se fosse vero, perché tanto accanimento nel difendere questa tesi?
    La verità è un’altra: la Politica è il dominio delle alternative, le alternative ci sono sempre (non tanto perché “in economia non vi sono leggi universali che valgono con esattezza e precisione”, ma perché è impossibile predire il corso futuro della storia), e questo è talmente vero che qui si è sentito il bisogno di difendere tale paralogismo contro l’avanzata dei “populismi”. A ben vedere, sono proprio i c.d. “populismi” a dimostrare che l’alternativa c’è, ed ogni volta che questa è supportata dalla volontà popolo sovrano (e si dà nel rispetto dell’alveo costituzionale) è da considerasi non solo valida ma anche legittima, anche se non condivisa.

  15. Maurizio

    Tutto condivisibile, avrei solo un’aggiunta da fare. Alla Regina avrei risposto che l’Economia non è una Scienza nata per prevedere. Certo sarebbe bello, ma sarebbe anche bello che la Medicina prevedesse i nuovi virus, che la Geologia prevedesse i terremoti, ecc..

    • Alumno pentito

      L’economia in quanto scienza non dura è nata per studiare il passato e possibilmente prevedere l’andamento delle politiche economiche e dell’economia in generale. È un’arte (ho grosse remore a definirla scienza) che se non svolge un compito di lettura del presente e previsione del futuro perde senso e ben può limitarsi ad essere una disciplina storica. Trovo incompresibile che Tabellini la definisca scienza sperimentale quando ovviamente non lo è, mancando le sue teorie di qualsiasi riproducibilità sperimentale.

  16. Marcomassimo

    Articoli come questo dimostrano in modo evidente che il pensiero unico esiste; e più esiste più cerca di confondere le acque e dire che non esiste spacciandosi per “verità scientifica” super partes; in verità il pensiero economico non può essere mai “super partes” in quanto alla fine della fiera ci saranno sempre quelli che si arricchiscono e quelli che si impoveriscono; e metterli d’accordo e dire chi ha ragione e chi torto è impossibile; il pensiero economico certamente che non è una scienza esatta, ci mancherebbe altro; esso è più che altro un elemento culturale di una società, come il pensiero politico, la interpretazione storica, le espressioni artistiche, il modo di vestire, ecc.; esso varia e muta secondo una miriade di fattori economici, sociali, di potere, di distribuzione della ricchezza; inutile dire che, come tutti le espressioni culturali, tende a pendere naturalmente dalla parte del Potere; per avere una rapida riprova di questo basti considerare dal punto di vista economico un personaggio storico come Roosevelt; ai suoi tempi considerato un genio ed un salvatore dell’umanità con le sue politiche keynesiane; oggi considerato un volgare populista come gli altri

  17. Mario Angli

    Lascio giusto un articolo, chi vuole poi si legge il paper intero: http://blogs.lse.ac.uk/brexit/2018/03/08/how-the-economics-profession-got-it-wrong-on-brexit/
    Il fatto che poi si debba appellare al principio di autorità perché politiche tipo ”lavori temporanei e part time”, ”immigrazione di massa”, ”outsourcing”, ”libertà di movimento dei capitali (aka evasione fiscale)” hanno fallito è tutto un altro discorso. Nessun tipo di ”educazione” (all’inglese, in italiano è istruzione) può fare il lavaggio del cervello ai popoli europei e convincerli che la società sta andando meglio, quando è ampiamente osservabile il contrario.

  18. Franco

    Quello che manca è un serio dibattito tra economisti pro e contro la linea economica dominante in europa. In televisione chi è contro raramente ha spazio nelle trasmissioni. Tutto il contrario di quello che Lei afferma. Ho visto poche volte economisti del calibro di Alberto Bagnai confrontarsi con altri economisti e dovrebbero farne di più di questi confronti.

    • Massimo

      Io sinceramente vedo soprattutto gente che di economia non ne sa proprio, in televisione. Indipendentemente che sia pro o contro (qualunque cosa questo voglia dire).

      Però mi dispiace, se partiamo dal dire che Alberto Bagnai è un economista di calibro, non ci siamo proprio. Stando al suo CV, alle sue pubblicazioni e alla sua carriera, è un economista mediocre.

  19. EzioP1

    Nell’economia reale lo sviluppo si raggiunge alimentando il ciclo: demografico, lavoro, consumi. Più consumatori ci sono e più hanno capacità di spesa, più cresce la domanda di beni e la produzione. C’è poi l’economia finanziaria il cui ciclo è delineato da: profitti, investimenti o consumi delle imprese, riduzione dei prezzi o miglioramento dei prodotti con conseguente creazione di obsolescenza, quella tecnologica e quella per legge e normativa. Entrambi sono cicli virtuosi che però necessitano in parallelo della fiducia dei consumatori nel sistema socio politico. Se questa viene a mancare i consumatori si trasformano in risparmiatori, è ciò che accade nel mondo di oggi in USA, in Europa e in Giappone. Onde evitare poi l’eccesso di capitali fermi, la politica finanziaria agendo sui tassi contiene i risparmi e incentiva gli investimenti. I tre modelli sono interdipendenti e governano lo sviluppo del paese.

  20. Cicci Capucci

    Condivido e applaudo. Peccato che Tabellini e chi comprende e apprezza i suoi scritti siano un piccolo rivolo in un grande fiume fatto di pattume intellettuale nel quale sguazzano politici pescecani pifferari, che guidano masse di analfabeti funzionali, lemming decerebrati. Non ho speranze, il nostro futuro sarà nelle mani di personaggi alla Orban, alla Erdogan, alla Putin.

    • E meno male caro Cicci Cappucci perché le politiche economiche alla Tabellini portano alla distruzione dell’economia nazionale, vedi governo Monti, che ha potato il paese in recessione come attestano le condizioni di povertà in cui versa una buona fetta della popolazione e come dimostrano tutti i parametri inerenti alla sua azione nefasta: dal calo del PIL e della produzione industriale, all’aumento del debito pubblico e della disoccupazione. Poi a proposito di Putin, come lei forse non sa, i veementi attacchi mirati, come l’aver portato fino a 30 dollari al barile il prezzo del petrolio e le sanzioni, che avrebbero dovuto ridurre la capacità di spesa e la possibilità di approvvigionarsi, lo hanno spinto a rinnovare il proprio modello di sviluppo permettendogli di uscire vincente dall’offensiva che l’occidente ha esercitato contro la Russia. Caro Cicci Cappucci ormai è chiaro a tutti che la dottrina del libero mercato nel suo pratico appalesarsi si configura come una vera e propria forma di colonialismo, dove ad agire sono in prima persona gli stessi soggetti che una volta si nascondevano dietro le politiche colonialiste degli stati nazionali. Forse i nostri economisti mainstream non se ne sono accorti, ma dovrebbero rifletterci sopra prima di supportare con le loro campagne il piano delle potenze egemoni.

  21. Eppure un dibattito pubblico aperto e trasparente sulle prospettive economiche e di finanza pubblica in Italia è possibile. Anzi: è previsto e organizzato dalla legge di contabilità e finanza pubblica del 31 dicembre 2009 numero 196. La legge prevede che il Governo presenti i propri orientamenti di politica economica per il triennio successivo all’anno in corso e gli effetti prodotti sui saldi di finanza pubblica, in un “Documento di economia e finanza” o DEF, entro il 10 aprile. Cioè sei mesi prima della presentazione in Parlamento del disegno di legge di bilancio (il 20 ottobre). Tra i due momenti, un’ulteriore occasione: la Nota di aggiornamento al DEF (entro il 27 settembre).
    Il DEF è un atto del Governo che consente al Parlamento (e a tutti gli osservatori interessati, quindi all’opinione pubblica) di discutere delle prospettive economiche e di fare conoscere alla collettività gli orientamenti dei singoli partiti o coalizioni attraverso specifiche risoluzioni.
    La presentazione del DEF da parte del Governo non determina alcun effetto immediato (non è una legge che interviene sulle disposizioni in vigore di spesa o di entrata). E non è oggetto di approvazione o bocciatura da parte delle Camere ma di mero confronto in ordine alle opzioni di politica economica.
    Peccato che nelle scorse settimane si sia parlato del DEF come di un potenziale “golpe economico”. Un’occasione persa per conciliare programmazione economica e democrazia formale e sostanziale.

  22. gerardo coppola

    Manca solo un aspetto di una certa rilevanza. Non ho mai sentito un economista ammettere di essersi sbagliato mentre ho sempre sentito “eh si io l’avevo detto”. Non e’ un grande risultato purtroppo.

  23. Maurizio

    Articolo molto condivisibile. Aggiungerei una risposta alla Regina: l’Economia non è una Scienza nata per prevedere. Certo sarebbe bello ma sarebbe anche bello che la Medicina prevedesse i nuovi virus, che la Geologia prevedesse i terremoti e così via…

  24. Motta Enrico

    Sono d’accordo con quanto sostenuto nell’ articolo. Vorrei però sottolineare che a sostenere certe tesi non sono solo i politici populisti, ma anche alcuni economisti. Ad esempio, la questione se “un aumento della spesa pubblica finanziato in deficit sia compatibile con la discesa del debito pubblico”. Alcuni economisti, sedicenti keynesiani, spingono per l’aumento della spesa pubblica in deficit; a questo punto i politici non si lasciano scappare l’ occasione, e sbandierano queste ricette, facendo a gara a chi vuole un deficit più alto, col sostegno magari di qualche premio Nobel. ( es. Krugman). Ma Keynes si starà rivoltando nella tomba, o sarà d’accordo?

  25. Michele

    Articolo interessante. Tutto perfetto tranne che nella conclusione: non mi sembre che il set di “riforme scomode e impopolari” sia così chiaro e sicuro nel risultato. In primo luogo è spesso sostenuto proprio da chi non è senza responsabilità della difficile situazione attuale. Le elite -anche tra gli economisti – dovrebbero fare una certa autocritica. In secondo luogo spesso si tratta di ricette tutt’altro che disinteressate, anzi sembrano proprio finalizzate a mantenere lo status quo. Terzo: le ricette economiche anche le migliori implicano scelte che esulano dalla pura economia ma che rientrano nella sfera politica: ad esempio tutte le politiche redistributive, che poi sono il cuore di ciò che nell’articolo viene chiamato populismo

  26. Condivido prof. Tabellini il suo richiamo a più attenzione da parte dei politici all’evidenza empirica sofisticata che siamo in grado oggi di produrre.

    Sono francese e mi devo tuttavia di segnalare che il libro che lei vanta, di Cahuc e Zylberbeg, è un libro pieno di errori ed è stato, fortunatamente, ampiamente criticato (per non dire demolito) dalla critica intellettuale francese.
    Gli autori non si fanno problemi a definire l’economia una “scienza sperimentale” analoga alla medicina. Qui le gravi mancanze in metodologia costeggiano una totale ignoranza dell’epistemologia. Se pensiero unico c’è, questi due autori ne sono la prova vivente. In realtà, il pensiero unico riguarda soprattutto un fattore sociologico, ovvero l’estrazione della maggioranza degli economisti con incarichi di potere: università e business school dove, se non viene affatto insegnata qualche base di epistemologia e filosofia della scienza (come si può pretendersi scienziati?), sono dei panni interi del pensiero economico che vengono semplicemente ignorati – talvolta derisi! – perché non conformi ad un certo mainstream neoclassico.
    Negli ultimi anni si è fatta strada la viziata abitudine di chiamare “populista” ogni voce che vorrebbe ridiscutere il mainstream neoliberale e monetarista – che ha portato alla crescita delle diseguaglianze e alle crescenti asimmetrie negli ultimi anni. Tale termine è attristante.
    Tra gli economisti un pensiero unico certamente non esiste, ma nelle istituzioni, sì.

  27. A supporto qualche critica del libro da Alternatives Economiques, voce ben più autorevole (= scientifica) nel panorama della critica economica in Francia.

    https://www.alternatives-economiques.fr/negationnisme-economique-laffaire-cahuc/00012140

    https://www.alternatives-economiques.fr/messieurs-cahuc-zylberberg-decouvrent-science/00012139

  28. Che ne dite di risolvere il problema delle false passività da emissione monetaria nei bilanci delle banche ? Magari verrebbero fuori gli utili reali ? http://www.economiaepolitica.it/banche-e-finanza/moneta-banca-finanza/la-moneta-e-capitale-o-debito-di-chi-la-emette/

  29. Fabio Fanucci

    Non esisterà il pensiero unico in Economia, ma esiste di sicuro il pensiero (ultra)prevalente. Mi sono laureato in Economia e posso dire che l’80% degli esami di teoria economica si basava sul presupposto dell’equilibrio economico generale neoclassico e liberista. I pochi esami con le teorie alternative erano considerati bizzarri ed erano poco frequentati. Quindi, come conseguenza, anche i laureati in Economia ragionano con un pensiero unico (o quasi).

    • Luca

      @Fabio Fanucci: sorge la curiosità di sapere dove ti sei laureato. E’ infatti risaputo che i professori di economia in Italia sono quasi esclusivamente di scuola keynesiana, quando non addirittura marxista, in quanto figli della scuola di Caffè e della vecchia divisione Dc-Pci.
      Un approccio talmente di parte per cui un laureato in economia, anche nel filone economico, può tranquillamente non sentir mai parlare di Hayek o Mises.

  30. Eliseo Malorgio

    Tanti importanti commenti, coltissimi economisti, capaci di citare questa o quella teoria, non sono capaci di controbattere quel che dice Marco Saba: La creazione dal nulla del denaro, (e del debito), da parte delle banche, ottenuta appena scrivendo nel passivo patrimoniale “USCITE DI CASSA” ovvero: false, inesistenti fittizie perdite patrimoniali.

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