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Salari: ecco dove cresce la disuguaglianza

In trent’anni le disuguaglianze nei salari giornalieri sono aumentate meno nel nostro paese rispetto alla Germania. Ma la situazione è ben diversa per le retribuzioni annuali. Bisogna dare più spazio alla contrattazione decentrata e alle deroghe ai Ccnl.

Trent’anni di salari

Negli ultimi trent’anni sono cambiate le disuguaglianze salariali tra lavoratori dipendenti del settore privato? E se sì, perché? Per rispondere a tali domande, analizziamo i dati disponibili col programma VisitInps. Non disponiamo dei salari orari, ma possiamo approssimarli con i salari giornalieri, misurati in termini reali (al netto dell’inflazione). Possiamo inoltre osservare il reddito da lavoro percepito da ciascun dipendente nel corso dell’anno. Le disuguaglianze possono quindi essere esaminate con riferimento sia a i salari giornalieri che alle retribuzioni annuali. Ne emergono alcune interessanti osservazioni.

Primo, in Italia l’aumento delle disuguaglianze nei salari giornalieri, tenendo conto dell’inflazione, è stato inferiore a quello registrato in Germania e negli Stati Uniti, e sembrerebbe avere un carattere più episodico. Le disparità tra salari sono diminuite durante gli anni Settanta, quando vigeva la scala mobile che concedeva aumenti retributivi di recupero dell’inflazione uguali per tutti in valore assoluto. Dagli anni Ottanta, complice il montante malcontento dei lavoratori con più alte professionalità, penalizzati dalle politiche egalitarie perseguite dai sindacati, inizia invece un periodo di rapido aumento, con il graduale smantellamento della scala mobile e la concessione di maggiori differenziazioni tra i minimi salariali contrattati ai vari livelli d’inquadramento dai contratti collettivi di lavoro. L’aumento delle disuguaglianze salariali però si arresta ai primi anni Duemila, ben prima della grande recessione. Da allora, quelle nei salari giornalieri sono rimaste invariate a un livello non dissimile da quello prevalente a metà degli anni Settanta.

Secondo, i salari reali giornalieri non sono diminuiti lungo tutto il periodo esaminato, neanche per i lavoratori con le paghe più basse. In Germania, invece, quelli dei lavoratori che si collocano nella coda bassa della distribuzione dei salari (primo decile) sono scesi di quasi il 10 per cento negli anni Duemila. Negli Stati Uniti, il declino è stato ancora più accentuato.

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Terzo, la crescita delle disuguaglianze avviene quasi interamente tra lavoratori a diversi livelli d’inquadramento, e non tra lavoratori inquadrati in uno stesso livello. Ciò implica che le dinamiche nei differenziali retributivi sono ampiamente determinate dagli andamenti dei minimi retributivi fissati dai contratti collettivi. Conterebbero allora più le “tradizionali” determinanti salariali (qualifica professionale e anzianità lavorativa) della miriade di capacità che si presume debbano essere premiate nel mutevole ambiente tecnologico e competitivo in cui viviamo.

Il ruolo delle relazioni industriali

Le politiche salariali d’impresa non sembrano aver contribuito all’aumento delle disuguaglianze salariali. Anche questo risultato è in contrasto con ciò che è accaduto nello stesso periodo nella vicina Germania e chiama in causa il ruolo delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Lì, anche per fronteggiare l’imponente shock dovuto all’unificazione tedesca, gli attori delle relazioni industriali (imprese, sindacati, consigli di fabbrica) hanno mostrato una inedita attitudine al decentramento contrattuale, fatto di clausole di apertura e “opting-out” dalla contrattazione collettiva di settore. In pratica, molte imprese, soprattutto quelle più giovani, hanno utilizzato tutti i margini concessi dal sistema per derogare agli standard retributivi fissati dalla contrattazione collettiva settoriale, deroga che si è spesso tradotta in salari mediamente più bassi. Parte dell’aumento delle disuguaglianze salariali in Germania è dunque spiegata da una maggiore diversificazione – anche al ribasso – delle politiche salariali d’impresa. Da parte sua, il sindacato ha “accettato” quello che è sembrato come il male minore: flessibilità salariale e maggiori disuguaglianze in cambio di garanzie occupazionali. Parte del “miracolo economico tedesco” deriverebbe proprio da questa capacità di adattamento delle relazioni industriali.

Da noi non è successo perché in pratica non sono mai veramente esistite analoghe clausole di deroga dagli standard retributivi fissati dai Ccnl nell’ambito del lavoro dipendente.
Le parti sociali italiane spesso plaudono al ruolo che la contrattazione collettiva settoriale ha avuto nel contenimento delle disuguaglianze, proteggendo soprattutto i lavoratori più deboli, quelli nella parte bassa della distribuzione. Ma se guardiamo le retribuzioni annuali – per chi comunque ha un posto di lavoro – la situazione appare ben diversa: tra il 2000 e il 2016, i redditi da lavoro nella coda bassa della distribuzione (primo decile) sono diminuiti in termini reali di quasi il 20 per cento, complice la riduzione delle giornate e ore lavorate, tra crisi economica e precarietà di ogni tipo.

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Non sorprende dunque che l’aumento complessivo della disuguaglianza sia ben maggiore se la si misura in relazione al reddito da lavoro annuale e non al salario giornaliero. E la situazione sarebbe ben peggiore se tenessimo conto della più alta disoccupazione, a conferma dell’ancora valido principio di economia per cui gli shock d’impresa che non possono essere assorbiti da salari flessibili finiscono inevitabilmente per scaricarsi sulle quantità di lavoro.

Tutto ciò ci spinge a pensare che varrebbe la pena introdurre maggiori elementi di flessibilità salariale anche nel nostro mercato del lavoro, concedendo più spazio alla contrattazione decentrata (di impresa o territoriale) e più significativi margini di deroga rispetto alle dinamiche retributive definite dai Ccnl. Le eventuali eccessive spinte ribassiste potrebbero essere contemperate dall’introduzione di un salario minimo legale, proprio come ha fatto la Germania nel 2015.

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  1. Michele

    No. Proprio no. Di flessibilità questo povero paese sta morendo. Di flessibilità ce ne è troppa. Da 20 anni a questa parte la flessibilità ha prodotto precarizzazione del lavoro ma la produttività non è aumentata. Occorre proprio tornare indietro. No alla contrattazione decentrata e si a contratti nazionali. Non solo per i lavoratori ma soprattutto per le imprese. Se si vuole competere in un mondo globalizzato o si punta su alto valore aggiunto e alti salari, grazie a un importante capitale umano, oppure si scivola nel terzo mondo e le imprese italiane se le comprano i grandi gruppi internazionali

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