Il modello italiano di contrattazione centralizzata dei salari fatica ad adattarsi alle diverse esigenze di una popolazione di imprese alquanto eterogenea. Lo dimostrano due recenti studi empirici. Il salario minimo potrebbe dare maggiore flessibilità.

Contrattazione collettiva e salario minimo

L’Italia è caratterizzata da un sistema di contrattazione collettiva che, in linea con una consolidata interpretazione dell’articolo 36 della Costituzione, di fatto stabilisce la retribuzione minima per quasi tutte le categorie di lavoratori dipendenti del settore privato. Il dibattito sull’efficacia e sugli effetti di questo sistema di relazioni industriali è molto articolato e ricco di contributi, ed è recentemente tornato al centro dell’attenzione in seguito alle proposte di introduzione, anche in Italia, di un salario minimo universale. Sorprendentemente, però, solo pochi studi hanno provato ad analizzare empiricamente, e con il dettaglio fine dei dati oggi disponibili, quali siano gli effetti della crescita dei salari minimi fissati nell’ambito dei contratti collettivi nazionali di lavoro su imprese e lavoratori. Qui sintetizziamo i principali risultati di due lavori recenti che si propongono di analizzarli. 

Si tratta di progetti di ricerca realizzati tramite il programma VisitInps, in cui abbiamo provveduto alla sistematica raccolta dei dati sui minimi contrattuali dei numerosi Ccnl, al loro aggancio ai dati contenuti nell’archivio Inps delle posizioni contributive dei lavoratori dipendenti del settore privato e ai bilanci delle società di capitale italiane disponibili nella banca dati Cerved. I dati alla base del nostro studio coprono gli anni dal 2007 al 2015.

Gli obiettivi dello studio

La nostra analisi ha come obiettivo quello di studiare gli effetti della crescita dei salari contrattuali sulle strategie di gestione del personale e su diverse misure di performance d’impresa. Salari contrattuali più alti implicano un maggior costo del lavoro e la teoria economica suggerisce che i datori di lavoro potrebbero utilizzare diversi canali per reagire a questo tipo di shock. In particolare, le variabili d’impresa sulle quali la crescita del costo del lavoro potrebbe avere effetti sono principalmente la produttività, le vendite (che dipendono sia dai prezzi di vendita che dalle quantità prodotte), l’occupazione, la qualità della forza lavoro, i profitti e gli investimenti. 

Abbiamo quindi stimato un modello econometrico che consente di misurare l’effetto della crescita dei salari contrattuali su ciascuna di queste variabili, tenendo fermi altri fattori che potrebbero influenzarle, come ad esempio l’andamento del ciclo economico nel settore o nella zona geografica di appartenenza. Gli effetti stimati rappresentano il cambiamento medio nelle variabili d’impresa osservato nell’anno in cui si verifica un aumento del costo del lavoro, anche se è lecito assumere che catturino in parte anche effetti di più lungo periodo, in quanto gli incrementi nei salari contrattuali tendono a essere persistenti in termini nominali. Nello studio abbiamo dato particolare importanza all’eterogeneità dell’effetto che la crescita del costo del lavoro potrebbe avere in base alle caratteristiche di ciascuna impresa. In particolare, abbiamo analizzato la differenza nell’aggiustamento allo shock nel costo del lavoro tra imprese che tendono a essere relativamente più produttive all’interno del Ccnl di appartenenza rispetto a imprese relativamente meno produttive.

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Grafico 1 – Effetti della crescita dei salari contrattuali per diversi livelli di produttività delle imprese

I risultati

La figura 1 riporta l’effetto della crescita dei salari contrattuali sulle seguenti grandezze d’impresa (dall’alto verso il basso): la produttività (valore aggiunto per lavoratore), le vendite, l’occupazione, una misura della qualità media (capitale umano) della forza lavoro, i profitti e l’intensità di capitale (capitale fisico per lavoratore). In ciascun grafico, mostriamo come l’effetto dell’aumento del costo del lavoro varia per diversi livelli di produttività relativa delle imprese. Nella parte sinistra dell’asse orizzontale, l’effetto è calcolato per le imprese mediamente meno produttive, mentre spostandosi verso destra, la popolazione di riferimento è relativamente più produttiva. Ciascun effetto riportato nel grafico è espresso come variazione percentuale della variabile analizzata rispetto a un aumento percentuale dei salari contrattuali (elasticità).

Gli effetti della crescita dei salari contrattuali sono molto eterogenei in base alla produttività di fondo delle imprese. Imprese poco efficienti subiscono un notevole effetto negativo sulla produttività stessa, sulle vendite, sull’occupazione e sui profitti. Per contro, la qualità media della forza lavoro sembra aumentare per queste imprese, sintomo del fatto che la riduzione dei livelli produttivi e dell’occupazione coinvolge soprattutto i lavoratori più marginali e meno qualificati.

Se invece ci concentriamo sulla parte destra di ciascuno dei grafici nella figura 1, si può notare come le imprese relativamente più produttive siano in grado di reagire alla crescita dei salari contrattuali senza diminuire le vendite, i profitti, gli investimenti e l’occupazione, e migliorando leggermente la produttività. Inoltre, il livello medio della qualità della forza lavoro di queste imprese tende a diminuire a seguito dell’aumento del costo del lavoro, un effetto che potrebbe derivare dall’adozione di strategie di riduzione di costo, come la sostituzione – a parità di occupazione complessiva – di lavoratori più esperti ad alto salario con lavoratori giovani e meno costosi. L’aumento del costo del lavoro non sembra invece incidere in maniera sistematica su un riposizionamento verso tecnologie di produzione a più alta intensità di capitale fisico.

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Come ottenere maggiore flessibilità

Con i dati adatti, dunque, gli effetti dei salari fissati dai Ccnl possono essere sistematicamente studiati a un inedito livello di granularità. In particolare, i risultati del nostro studio suggeriscono che il modello italiano di contrattazione centralizzata dei salari fatica ad adattarsi alle diverse esigenze di una popolazione d’imprese alquanto eterogenea. Se le aziende più efficienti riescono ad assorbire senza particolari difficoltà l’aumento del costo del lavoro determinato dalla crescita dei salari contrattuali, quelle meno produttive tendono invece a ridurre l’occupazione e i livelli produttivi a seguito dello shock. 

Efficaci politiche pubbliche dovrebbero dunque concentrarsi sulla promozione di relazioni industriali improntate a una maggiore flessibilità salariale, a livello territoriale e aziendale, utilmente accompagnata dall’introduzione di un salario minimo universale, che eviterebbe un eccessivo ricorso a tagli nelle retribuzioni dei lavoratori più vulnerabili, come fatto in Germania appena qualche anno fa. 

Un salario minimo universale fissato a un livello non eccessivamente elevato varrebbe certo in modo uniforme per una popolazione eterogenea di imprese. Tuttavia, la quota di lavoratori direttamente interessati dal provvedimento sarebbe nel complesso molto più ridotta rispetto all’attuale sistema, nel quale retribuzioni minime rigidamente fissate dalla contrattazione collettiva coinvolgono persino i lavoratori più qualificati e i primi livelli dirigenziali. Occorrerebbe inoltre puntare sulla realizzazione di politiche attive che facilitino la transizione dei lavoratori dalle imprese più fragili verso imprese più resilienti, produttive e in grado di fornire maggiori opportunità occupazionali. Altre forme di intervento adottate in passato con questi obiettivi, come le misure sui costi di licenziamento introdotte con le riforme del 2012 e 2015, non si sono da sole rivelate particolarmente efficaci.

* L’articolo è estratto da un progetto di ricerca condotto nell’ambito dell’iniziativa VisitInps Scholars dell’Inps. Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’Inps.
Questo contributo è apparso contemporaneamente anche sul Menabò di EticaEconomia.

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