L’accordo tra Facebook e l’Agenzia delle entrate chiude il contenzioso italiano. Ma non risolve certo la questione di come tassare i redditi delle imprese digitali, sostanzialmente apolidi. Il punto di partenza potrebbe essere la direttiva Ue sulla base imponibile consolidata.

Come tassare imprese apolidi

Il pareggio siglato tra l’Agenzia delle entrate e Facebook si iscrive nello stesso filone di quelli realizzati con Apple, Google e Amazon. Le parti sono, infatti, entrambe consapevoli che non stanno – nella sostanza – applicando la legge, ma solo il comune buon senso. Tant’è che nessuno sfida l’altro ad affrontare un (rischioso) processo preferendo la transazione. Non è, in sé, una brutta notizia, però qualche riflessione la ispira.

La prima: l’impresa digitale è per sua natura apolide (“stateless income”). Non deve stare necessariamente nel luogo da cui trae i suoi ricavi; può spostarsi con relativa facilità; può variare pressoché all’infinito la location dei suoi key factors; può operare con una divaricazione fisica profonda fra territorio del mercato sfruttato (da cui provengono i flussi di cassa) e territorio in cui vengono (i) elaborati i prodotti da vendere, (ii) definite le politiche commerciali, (iii) perseguite le direttive manageriali operative, (iv) incassati gli introiti, (v) amministrati i relativi flussi di cassa.

Le cinque funzioni, che normalmente caratterizzano – anche singolarmente prese – l’esistenza di un’impresa, possono dunque essere collocate in territori diversi da quelli da cui i flussi di cassa provengono senza difficoltà alcuna. Tradotto in termini di sistemi tributari, ciò significa che non ci sono difficoltà a operare (generare ricavi) in un territorio e non pagarvi nessuna imposta sul reddito ivi prodotto perché in quel territorio non è presente alcuna “stabile organizzazione” (luogo fisico di attività) dell’impresa digitale in questione.

La seconda: le cinque funzioni possono essere spacchettate fra una pluralità di territori. Sono infatti perlopiù riconducibili a persone fisiche che da un lato possono muoversi liberamente (il loro ufficio è un lap top); dall’altro, per svolgere le loro funzioni possono incontrarsi attraverso strumenti che non richiedono un incontro fisico (vedi videoconferenze per la discussione ed e-mail circolare per la formalizzazione della decisione assunta). E tantomeno ne richiedono la presenza, anche solo virtuale, in un unico paese (posso cambiare isola dei Caraibi – e quindi Stato – più volte nel corso della medesima telefonata. E posso fare altrettanto, volendo, fra Olanda, Germania, Belgio e Lussemburgo partendo da Maastricht). Insomma, anche il processo manageriale e decisionale è uno “stateless process”. Il che vuol dire, tradotto in termini di sistemi tributari, che ancora una volta saremmo in difficoltà nell’individuare il territorio (e quindi la giurisdizione) in cui questo insieme di attività – o anche una sua singola parte – viene esercitato e dà luogo all’esistenza di una “stabile organizzazione”.

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Stabile organizzazione: un concetto superato

La terza riflessione: qualsiasi rielaborazione del concetto di stabile organizzazione è ormai inidonea a svolgere – quantomeno nei confronti dell’impresa digitale – la funzione che originariamente le era stata assegnata: attribuire a ciascuna giurisdizione in cui opera un soggetto residente in un diverso paese il diritto di tassarne i profitti per la parte realizzata nel primo paese. Significativo, al riguardo, il lavoro tutt’altro che marginale svolto dall’Ocse sull’argomento e la pochezza dei risultati raggiunti.

La quarta: quand’anche si individui una accettabile riformulazione della stabile organizzazione in questione (vedi la cosiddetta “significativa presenza digitale”) occorre poi passare all’individuazione del valore attribuibile ai beni immateriali (software, know how, ma anche dati archiviati) apportati dalla casa madre, a quelli autoprodotti in loco, al contributo commerciale sviluppato dalla casa madre e a quello generato in loco. Valgono di più i dati raccolti o i sistemi di elaborazione degli stessi? Emergerebbe, quindi, un’altra insidiosa questione: come si misura il reddito di una stabile organizzazione digitale? Certo, esistono più sistemi idonei a misurare il transfer pricing all’interno di gruppi multinazionali e nella specie il cosiddetto profit split potrebbe apparire quello più appropriato. Ma, insomma, non sarà vita facile per accertatori e contribuenti.

La quinta: preso atto della difficoltà a continuare sulla via storica della “stabile organizzazione” non vale forse la pena di pensare a qualcos’altro? La Commissione UE lo ha già fatto proponendo una “interim web tax”. La proposta ha palesemente il carattere della provvisorietà ed è motivata dal desiderio di spingere la riformulazione dei caratteri della “stabile organizzazione”. Ma è la strada giusta? Occorrerebbe, forse, prendere atto che la tassazione quantomeno transnazionale di questa tipologia di imprese semplicemente non è riconducibile a ordinari parametri reddituali. Che l’unità di misura del conto economico non regge e che sono i ricavi (flussi di cassa), sia pur con certi correttivi, il fattore più capace di evidenziare l’attitudine alla contribuzione delle imprese in questione. Del resto, la direttiva sulla Ccctb (Common Consolidated Corporate Tax Base – base imponibile consolidata comune) si muove già in quest’ottica ai fini della ripartizione della base imponibile dei gruppi europei. Si potrebbe, forse, partire da lì per costruire il nuovo, non facile, domani.

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