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Quando il lavoro non ferma la povertà

Il governo sembra avere una lettura semplicistica del problema povertà. Il lavoro è senza dubbio la via d’uscita principale, ma i dati ci dicono che per un numero significativo di famiglie aumentare il numero di occupati potrebbe non essere così facile.

Reddito di cittadinanza e povertà

Secondo la lettura principale che ne dà il governo, il reddito di cittadinanza è una misura per accompagnare le persone fuori dalla povertà. Si dà loro un sussidio che perdono se rifiutano più di due offerte di lavoro. Lavoro e povertà sono visti come dimensioni alternative: se il beneficiario del trasferimento, grazie ai centri per l’impiego, troverà un lavoro, il problema della povertà sarà risolto. È una visione troppo semplicistica, perché in molte famiglie povere vi sono persone che lavorano.

La tabella 1 contiene la suddivisione delle famiglie in base al numero dei loro membri che lavorano. A sinistra, le statistiche sono relative a tutte le famiglie in povertà, mentre nella parte destra si riferiscono solo a quelle povere senza membri con almeno 60 anni. La povertà è definita come reddito inferiore al 60 o al 40 per cento del reddito mediano. La prima definizione è quella di povertà relativa Eurostat, la seconda è più severa e produce un numero di poveri simile a quello della povertà assoluta calcolata da Istat. Con qualche approssimazione, la linea al 40 per cento individua la platea interessata – in termini di numero di beneficiari attesi – dal reddito di cittadinanza. Definiamo per semplicità queste famiglie come povere assolute.

Considerando proprio la soglia più bassa, tra tutte le famiglie in povertà il 44 per cento ha membri occupati (40 per cento un occupato, 4 per cento due), mentre solo tra le famiglie senza membri anziani, cioè quelle più facilmente attivabili, la quota con almeno un lavoratore sale al 56 per cento. In circa la metà dei casi la povertà è dovuta alla mancanza di lavoro, ma nell’altra metà sembra dipendere dalla mancanza di un secondo reddito da lavoro.

Tabella 1 – Distribuzione delle famiglie povere per numero di lavoratori in famiglia

In quante famiglie può aumentare il lavoro

Una conferma di questi dati proviene dalla variabile relativa alla low work intensity: in una famiglia c’è bassa intensità di lavoro se i suoi membri con età tra 18 e 59 anni (esclusi studenti fino a 24 anni) lavorano nel complesso meno del 20 per cento del tempo di lavoro potenziale. Tra le famiglie povere assolute senza membri anziani, solo il 50 per cento è a bassa intensità di lavoro. Ciò significa che nella metà dei nuclei in povertà assoluta i membri adulti sono già occupati per almeno il 20 per cento del loro tempo potenziale.

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Vediamo dunque in quante famiglie povere senza membri anziani sarebbe possibile aumentare il numero di occupati. Dividiamole in due gruppi:

  • Famiglie in cui il numero delle persone che lavorano è uguale al numero delle persone 18-59. In queste famiglie non è possibile aumentare il numero dei lavoratori.
  • Famiglie in cui il numero delle persone che lavorano è inferiore a quello delle persone 18-59 anni.

Per le famiglie del gruppo 1 “il lavoro non basta”.

Tabella 2 – Suddivisione delle famiglie povere tra famiglie in cui NON è possibile aumentare il numero dei lavoratori (gruppo 1) e famiglie in cui è possibile (gruppo 2)

La tabella 2 mostra che in un quarto delle famiglie povere non vi sono membri adulti occupabili e la percentuale è probabilmente sottostimata perché non basta avere l’età giusta per essere occupabili. Inoltre, tra le famiglie del gruppo 1 i membri adulti occupabili sono già attivi lavorativamente per il 70-80 per cento del loro tempo potenziale ed è difficile credere che tale intensità possa crescere con semplicità. Una persona con età 18-59, infatti, può non lavorare – del tutto o in parte del suo potenziale – non solo perché non riesce a (o non vuole) trovare un impiego, ma anche a causa di condizioni personali che le rendono difficile lavorare, ad esempio una cattiva condizione di salute, oppure la presenza in casa di familiari con pesanti invalidità che richiedono assistenza.

Definiamo in cattiva salute una persona che abbia risposto “molto male” alla domanda “come va la tua salute?” o che sia fortemente limitata nelle sue attività da problemi di salute. Assumiamo che una persona in cattiva salute non possa lavorare, se ora non lo fa già. Teniamo conto anche della presenza di invalidi in famiglia, assumendo che se ce n’è uno, allora vi sono bisogni di cura che impediscono di aumentare l’offerta di lavoro. Aggiungendo queste nuove condizioni, la percentuale di famiglie in cui il lavoro non può aumentare (gruppo 1) passa al 35 per cento sia per la povertà relativa che per quella assoluta (passerebbe al 30 per cento aggiungendo solo la condizione di cattiva salute individuale). Al Sud, dove la domanda di lavoro da parte delle imprese è già più bassa, la quota di famiglie con problemi ad aumentare il numero di occupati raggiungerebbe il 41 per cento (tabella 3).

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Tabella 3 – Percentuale di famiglie in povertà assoluta che si trovano nel gruppo 1 (il numero di occupati non può aumentare) per area

Il lavoro è senza dubbio la via d’uscita principale dalla povertà, ma questi dati ci dicono che in molte famiglie povere il lavoro è già presente, e che per molte aumentare il numero di occupati potrebbe non essere facile come si crede. Per le famiglie con membri “occupabili”, d’altra parte, il problema numero uno è la scarsa domanda di lavoro da parte delle imprese, in particolare nel Meridione. Nelle dichiarazioni del governo i centri per l’impiego avranno un ruolo fondamentale nel favorire l’occupazione per queste famiglie, un’ipotesi discutibile perché ovunque il lavoro si trova di solito per altre vie. In ogni caso, non si vede come i centri per l’impiego possano diventare più efficaci: tutti condividono l’impressione che abbiano bisogno di essere riformati e potenziati anche con nuovo personale, però per quasi tutto il 2019 le assunzioni nella pubblica amministrazione saranno bloccate dal maxiemendamento alla legge di bilancio in approvazione. Aumentando il rischio che, anche ai poveri che potrebbero lavorare, arrivi solo denaro e non lavoro.

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  1. Savino

    Essendo diffusa la povertà tra chi si trova in età lavorativa, continua ad essere una fallacia colossale il perseverare a parlare di pensioni in questo Paese. Chi si trova in situazione di maggior protezione, oggi, sono proprio i pensionati, la cui platea, in qualche maniera artificiosa, viene ampliata, a discapito delle casse pubbliche. La verità è che Salvini e Di Maio hanno capito che potranno avere lunga carriera politica solo regalando dentiere e facendo al sud operazioni di clientelismo stile Achille Lauro.

  2. Michele

    Se il lavoro non basta ad uscire dalla povertà è perché il lavoro è pesantemente sottopagato. In parte il problema nasce dal fatto che ci raccontiamo bugie da soli quando consideriamo occupato chi lavora 1 ora retribuita nella settimana di riferimento. In parte poi il problema deriva da una precarizzazione crescente del lavoro creata appositamente per deprimere i redditi da lavoro. Occorre però decidersi: non si può criticare il reddito di cittadinanza perché si basa solo sul lavoro e contemporaneamente criticarlo perché è una forma di assistenzialismo. A meno che le critiche non siano preconcette

  3. Asterix

    Gli autori hanno colto il punto. Sistemi di reddito minimo garantito hanno la funzione di integrare redditi minimo inferiorei al livello minimo (e non solo erogare a chi non ha nulla). Non peraltro in Germania sono visti come strumento per far accettare una precarizzazione del lavoro ed anche un aiuto di stato indiretto alle imprese che possono erogare redditi bassi tanto ci pensa lo Stato ad integrare. La riforma Hartz iv si badava su questo svalutare il costo del lavoro in Germania per sfruttare la rigidità della moneta unica. Concordo che il blocco fino a novembre pregiudica la riforma del centri per l’impiego però resta la possibilità di accordi con società private di somministrazione (convertendo il rc in sconti alle imprese che assumono i beneficiari del Rc). Chiaro che se non riparte la domanda in Europa ed in Italia non ci sarà alcuna ripresa, ma arrivano le elezioni europee e la musica cambierà..

  4. Stefano_asterino

    L’articolo parte da una interessante premessa per giungere ad una conclusione sbagliata. Oggi molti lavori sono sottopagati al punto di essere poveri ma occupati. Questo dovrebbe far ragionare sulle svalutazioni dei salari, invece si critica il reddito di cittadinanza che integrando i redditi inferiori alle soglie di povertà va proprio a risolvere il problema. Il fatto che si creano lavoratori con basso redditi quindi pessimi consumatori dovrebbe far ragionare sulle cause della bassa domanda interna e far apprezzare misure come il Rc che sussidiano le famiglie per creare indirettamente domanda interna. Certi che il blocco delle assunzione pubbliche imposto dalla Ue costituisce un ostacolo ma superabile con il ricorso alle agenzie private di somministrazione. Buon anno.

  5. Carmine Meolim

    I dati riguardo la poverta assoluta si riferiscono a
    – famiglie mono reddito per le quali occorre incrementare gli assegni familiari e misure per facilitare il lavoro fuori casa del coniuge
    – pensionati poveri da suddividere tra poveri ed ex evasori ( ovvero autonomi e professionisti usi a contenere i propri versamenti )
    – disoccupati di lunga durata che dovrebbero ottenere asegni a fornte di oneri localizzativi non sostenibili con il salario spettante ( spesso a part time )
    – disoccupati o in cerca di occupazione in aree caratterizzate da disoccupazione strutturale e che dovrebbero benficiare di incentivi per il trasferimento di imprese o di
    lavoratori. A che serve il reddito di cittadinanza senza politiche del tipo indicato ? A produrre solo assistenzialismo o arma di propaganda .

  6. micheledisaverio

    Dati interessanti, basilari perchè si assumano decisioni politiche corrette.

    https://www.ilcorrieredellacitta.com/news-roma/roma-muore-di-freddo-su-una-panch ia-clochard-trovato-cadavare-allalba.html

    Vogliamo IL BIS E IL TRIS di morti simili? Penso a tutti quelli che muoiono allo stesso modo restando totalmente anonimi e sconosciuti. Un reddito minimo vitale, per quanto modesto, DEVE evitare la possibilità, anche remota, che situazioni simili possano ripetersi nuovamente.

    Con grande difficoltà un nullatenente e “senza fissa dimora” può trarre guadagno dalle vendita di “opere artigianali” o “del proprio ingegno”, per le quali è dato dai Comuni un permesso della durata di alcuni giorni, talora non a titolo gratuito. Diversamente, è chiamato a sostenere i costi per la licenza di ambulante.

    http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/trieste-polemica-senzatetto-barbone-clochard-coperte-buttate-Paolo-Polidori-Massimiliano-Fedriga-lega-vicesindaco-pd-m5s-leu-5b1b0743-6c79-46de-9e9a-e66d910e1fe0.html

    Sottrarre ai senza tetto vestiti o coperte per gettarli nel cassonetto dei rifiuti non è penalmente più rilevante del rispetto della inosservanza del decoro urbano.

    Aggiungo che non avendo una residenza, i “senza fissa dimora”non risultano iscritti in alcuna anagrafe comunale, e non potendo votare, restano privi di qualsiasi peso politico.

    Mi scuso in anticipo di eventuali duplicazione nell’invio.

  7. frank

    Il centro per l’impiego, per essere efficiente, andrebbe messo in contatto h24 con le aziende del territorio tramite applicazioni informatiche che prevedano – in maniera aggiornata – assunzioni e licenziamenti (o fine contratti) così da rispondere immediatamente alla funzione del Centro per l’impiego stesso.
    Collegato tra tutte le città della regione ed oltre.

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