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Ius culturae per abbattere il muro della cittadinanza

Le vicende di due ragazzi molto diversi hanno riacceso il dibattito sulla cittadinanza ai figli degli immigrati. Lo ius soli automatico comporta alcuni rischi. Meglio allora riconoscere la cittadinanza a chi completa un ciclo scolastico nel nostro paese.

Due ragazzi della nuova Italia

Il caso Ramy, il giovanissimo protagonista del salvataggio degli studenti-ostaggi del pullman dirottato, ha rilanciato il dibattito su una nuova legge per l’accesso alla cittadinanza dei figli degli immigrati in Italia. Quello che impropriamente viene definito ius soli.

Per la verità, pochi giorni dopo, si è aggiunto un altro episodio lieto. Moises Kean è diventato il secondo più giovane goleador della nazionale di calcio italiana, contribuendo in modo decisivo a una vittoria che da tempo mancava. Il giovane attaccante è nato a Vercelli da genitori ivoriani e per fortuna è riuscito a diventare italiano in tempo utile per vestire la maglia della nazionale.

Ramy e Moises sono due volti della nuova Italia multietnica che cresce fra noi, ma che fatica a trovare un pieno riconoscimento della sua appartenenza al nostro paese. Sono 1,3 milioni circa i figli di immigrati in Italia, 826 mila gli iscritti a scuola, oltre 30 mila gli studenti universitari. Sconcertanti le reazioni della maggioranza politica al dibattito: i Cinque stelle si sono accodati alla Lega sostenendo semplicemente che il tema “non fa parte del contratto di governo”. È una spiegazione che suona tautologica: non ne parliamo perché abbiamo deciso di non parlarne. Nessun argomento di merito, forse perché sarebbe difficile trovarne.

Quanto alla Lega, afferma spesso di essere ostile a quelli che chiama clandestini, ma rispettosa verso gli immigrati che vogliono integrarsi. Perché allora li tiene ai margini della piena inclusione nella comunità politica? Al coro si aggiungono pensosi commentatori che sconsigliano al centro-sinistra di rilanciare il tema, perché non porterebbe voti né consensi. Deludente poi il silenzio dei cattolici del centro-destra.

Ci si dovrebbe domandare: che vantaggio trae la società italiana dal tenere fuori della porta così a lungo i figli degli immigrati che pure studiano nelle scuole della repubblica, ne abitano le città, ne parlano correntemente la lingua? Che messaggio si dà, insegnando loro storia, letteratura e persino educazione civica, ma specificando che di questo patrimonio condiviso non fanno parte? Non è paradossale far loro imparare la Costituzione di un paese che li respinge come cittadini?

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Non si comprende neppure come la questione della lealtà politica possa essere risolta prolungando la loro estraneità alla nazione in cui di fatto vivono. L’unica spiegazione è un grossolano calcolo politico: giacché a molti italiani non piacciono gli sbarchi e i rifugiati, il biasimo si estende agli immigrati in generale; e per dare agli elettori italiani un bel segnale a costo apparentemente nullo, si tengono fuori il più possibile gli immigrati dalla cittadinanza, figli e nipoti compresi.

La centralità della scuola

In casi come questi, per discutere seriamente, occorrerebbe guardare a ciò che accade all’estero. Nell’Europa occidentale, tra tensioni e oscillazioni, si osserva una tendenziale convergenza: lo ius soli rigido è stato via via abbandonato, ma il trattamento dei figli degli immigrati è stato generalmente ammorbidito. Un caso paradigmatico è quello della riforma della legge tedesca nel 2000, con il superamento di uno ius sanguinis molto conservatore. La legge italiana è oggi la più rigida dell’Europa occidentale, insieme a quella del Lussemburgo.

Nei fatti poi gli studi sull’argomento rivelano che un numero crescente di naturalizzati, grazie al loro nuovo passaporto, lasciano paesi dall’economia stagnante come l’Italia per andare in cerca di migliori opportunità all’estero. Non meno di tanti nostri figli. Chi paventa la sostituzione etnica dovrebbe agevolare le acquisizioni di cittadinanza, non ostacolarle.

Lo ius soli automatico ha tuttavia un difetto: rischia di privilegiare i figli minori nati nel paese d’immigrazione, rispetto ai figli maggiori nati altrove. Anche la legge attuale, peraltro, ha lo stesso problema: a 18 anni può diventare cittadino con una procedura agevolata solo chi è nato qui e non si è mai allontanato per più di tre mesi. Si potrebbe rimediare insistendo sullo ius culturae, che pure compariva nella sfortunata proposta della scorsa legislatura: riconoscere la cittadinanza a chi completa un ciclo scolastico nel nostro paese. In questo modo, si valorizza il ruolo della scuola come il luogo per eccellenza in cui si forgia il senso civico e la cittadinanza attiva. Per gli studenti di origine italiana e per quelli di origine straniera, insieme. Studiando la Costituzione, il funzionamento del sistema democratico, facendo esperienze di volontariato e visite d’istruzione: imparando ad amare questo paese, ma insieme e non separati dal muro della cittadinanza.

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  1. Virginio Zaffaroni

    Jus soli è una delle tante espressioni frodate dai politicanti attuali. Come flat tax, come reddito di cittadinanza. Si fanno (o si propagandano) cose a cui si danno i nomi di altre cose. Facendosi pure male, come la sinistra che continua a parlare o sussurrare di jus soli, lasciando che il nostro pensiero vada all’America spopolata dell’800 e bisognosa di immigranti in massa, e se ne resti atterriti. Poi si scopre che forse i figli di immigrati alla cittadinanza ci pensino meno di quanto si vuole far credere.
    Certamente la risposta seria è lo Jus Culturae. Si compie un percorso, serio e anche severo (si abbia la forza di dirlo e di pretenderlo), come dice lei “studiando la Costituzione, il funzionamento del sistema democratico, facendo esperienze di volontariato e visite d’istruzione: imparando ad amare questo paese, ma insieme e non separati dal muro della cittadinanza”. Mi ritrovo completamente. Ma non ci credo. So come finirà. Si fisserà un percorso apparenza, fatto di apprendimenti formali e sbiaditi, di insegnanti distratti, di verifiche all’acqua di rosa. Si dirà che il corso comincia all’asilo e finisce subito subito alla fine delle medie inferiori, con tanti saluti alla “pedagogia della Costituzione”. Si invierà in sostanza il messaggio subliminale che la cittadinanza in fondo è una formalità, niente di importante, niente carico di valore civico, un diritto senza doveri e quindi, come certe monete, di valore nullo. Non è in fondo come la considerano tanti italiani?

    • Ivette

      Lei ha ragione. Sono naturalizzata italiana e credo che si dia molto peso agli anni di residenza, alle risorse economiche, alla fedina penale pulita, che sono fattori importanti, ma non c’è un percorso alla cittadinanza: conoscere l’inno, la bandiera, la costituzione, la storia, la lingua, sentirsi parte di una comunità. Si giura e basta. Non va bene. Diritti e doveri devono andare di pari passo, per tutti, naturalizzati e non.

  2. Henri Schmit

    Sarei curioso capire su quale criterio fonda il parallelo svantaggioso con il Lussemburgo. Rinvio al sito dello sportello preposto: https://guichet.public.lu/fr/citoyens/citoyennete/nationalite-luxembourgeoise/acquisition-recouvrement/option.html ehttps://guichet.public.lu/fr/citoyens/citoyennete/nationalite-luxembourgeoise/acquisition-recouvrement/naturalisation.html. Nessun paragone con l’Italia, né nella sostanza né nella forma. Chi scrive è cittadino lussemburghese, conosce bene la situazione in quel paese, l’enorme facilità con la quale viene riconosciuta la cittadinanza a stranieri e il numero enorme di Lussemburghesi nati stranieri (oltre agli stranieri residenti che sono il 48% della popolazione, e i pendolari stranieri che insieme ai precedenti rappresentano oltre due terzi degli occupati). I deputati e i ministri lussemburghesi hanno cognomi autoctoni (francesi e tedeschi), italiani e portoghesi. Vivo da oltre 30 anni in Italia, le mie figlie nate a Ferrara hanno la doppia cittadinanza merito il sangue di mia moglie, ma per ottenere la cittadinanza dovrei seguire una procedura che dura “almeno quattro, più probabilmente cinque anni” (dirigente responsabile alla Prefettura di Milano). Ho rinunciato, per ogoglio. Posso garantire che né al Lussemburgo né in Francia si trattano gli extra-comunitari (provenienti eventualmente da paesi senza registro dello stato civile preciso e affidabile; cf. Marocco, Ruby, rinata lì, ai fini della giustizia italiana) con tanto disprezz

    • Maurizio Ambrosini

      Ha ragione: la legge lussemburghese è cambiata in senso più liberale. Scusi il mancato aggiornamento.
      Mi pare comunque che il senso complessivo dell’articolo non cambi e le sue peripezie confermano l’arretratezza italiana in materia di naturalizzazioni, anche per i citttadini UE.

      • Henri Schmit

        Grazie della risposta. L’articolo è valido e convincente, lo stesso. Penso tuttavia che non basti paragonare le condizioni formali se le procedure amministrative le possono annacquare molto, vanificare. Il casellario francese si riceve in 24 ore dal computer centrale di Nantes, una naturalizzazione vi dura uno a due anni; perché in Italia quattro a cinque, per cittadini di paesi UE dove i registri civili e i casellari sono certi e in parte armonizzati? Si tratta di diritti, non di concessione di favori!!! Le stesse distinzioni fra regole e prassi amministrativa, numero teorici e numeri veri va fatta in materia di studio dell’immigrazione.

  3. Mirko Zanette

    Figli di immigrati che completano il ciclo scolastico.. per m,e il discorso è semplice: se sono figli di immigrati irregolari, vanno espulsi tutti, genitori, coi figli che loro malgrado, li seguiranno.
    Se figli di immigrati regolari, in effetti procedere come scritto può essere ragionevole.

  4. Mohammed

    Se mai non si capisce il vantaggio di concedere ulteriori cittadinanze. Uno straniero si integra se vuole farlo, mica perché gli si regala un (ennesimo) cotillon a fondo perduto. Invece, se si commette un reato, senza cittadinanza si può essere espulsi, con la cittadinanza si è un peso inespellibile dal territorio anche trascorsi i termini carcerari. No ius culturae, grazie. Più espulsioni per chi non produce quanto costa mantenere la sua quota parte di spesa pubblica, prego.

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