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Tanto rumore per nulla? Un anno dopo il decreto dignità*

Il “decreto dignità” è del 12 luglio 2018. Quali effetti generali ha prodotto? La struttura e la dinamica dei rapporti a termine riflettono l’evoluzione della struttura produttiva italiana. E la componente di lavoro stagionale è sempre più forte.

Cosa dicono i dati Istat e Inps

A distanza di un anno dall’emanazione del “decreto dignità” (12 luglio 2018) si può iniziare a chiedersi che effetti generali ha prodotto in tema di “lotta alla precarietà”.

Si può ragionevolmente presumere che il legislatore avesse come obiettivo il drastico ridimensionamento del peso dei rapporti di lavoro a termine, giudicato eccessivo e imputato, nell’ordinariamente imprecisa polemica politica, alle misure attivate dai governi precedenti.

I recenti dati Istat attestano che sostanzialmente nulla è cambiato: l’incidenza dei dipendenti a termine era pari al 17,1 per cento a luglio 2018 ed è pari al 17 per cento a luglio 2019 (dati destagionalizzati; 17,8 per cento a luglio 2018 e 17,7 per cento a luglio 2018 per i dati grezzi). Non va meglio osservando i valori assoluti: i dipendenti a termine erano 3 milioni e 180 mila a luglio 2018 e sono 3 milioni e 209 mila a luglio 2019 (dati grezzi). Con uno sforzo di positività potremmo sostenere che è stato cristallizzato il livello relativo dell’occupazione a termine.

Per un’analisi accurata, però, non ci si può limitare ai dati Istat/Rilevazione sulle forze di lavoro: aiutano a porsi le giuste domande, ma, per la loro natura aggregata e per la loro origine campionaria, non aiutano altrettanto a cercare le risposte.

I dati amministrativi Inps (edizioni mensili dell’Osservatorio Precariato e Rapporto annuale, luglio 2019) mostrano che il “decreto dignità” è stato tutt’altro che indolore: nel secondo semestre 2018 ha accelerato il trend delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (già in crescita tendenziale fin dal primo semestre 2018) e ha compresso i flussi di assunzioni a termine, in particolare per il somministrato. Un’analisi specifica riportata nel Rapporto Inps (pagina 76) ha confrontato i comportamenti, nei quattro mesi successivi, di due gruppi di imprese: quelle con almeno un dipendente a termine al 31 ottobre 2017 (424 mila con 8,5 milioni di dipendenti) e quelle con almeno un dipendente a termine al 31 ottobre 2018 (460 mila con 8,9 milioni di dipendenti). Il comportamento delle due coorti, nel successivo quadrimestre, evidenzia significative differenze: la variazione delle posizioni a tempo indeterminato è stata negativa per la coorte 2017 (-0,5 per cento) e positiva per la coorte 2018 (+1,7 per cento, grazie al raddoppio del tasso di trasformazione, passato da 8,3 a 15,7 per cento), ma nel contempo è risultata più negativa la variazione delle posizioni a tempo determinato (-16,8 per cento per la coorte 2018 contro -3,1 per cento per la coorte 2017), cosicché i mutamenti positivi nella composizione della forza lavoro sono associati a un leggero peggioramento dell’andamento occupazionale totale (-2,1 per cento per la coorte 2018 contro -1,1 per cento per la coorte 2017).

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Analisi ancor più dettagliate (vedi Veneto Lavoro, Misura n. 86, Note sul primo adattamento delle imprese al “decreto dignità”) mostrano che la crescita delle trasformazioni ha riguardato soprattutto rapporti di lavoro a termine di durata attorno all’anno o più; la compressione delle assunzioni con rapporti a termine ha interessato i rinnovi, ma non i primi rapporti; le proroghe sono diminuite, ma si è allungata la media della durata prevista; il somministrato a tempo indeterminato è aumentato, anche ma non solo nella fattispecie di staff leasing.

Emerge un mosaico di strategie eterogenee di “adattamento” delle imprese – orientate a evitare la necessità di apporre la causale – al nuovo sistema di vincoli e disincentivi introdotto dal “decreto dignità”, anche utilizzando le possibilità fornite dalla contrattazione decentrata.

L’apporto del lavoro stagionale

Ma allora, se i dati amministrativi attestano che la nuova normativa non è stata priva di effetti, perché non se ne vedono i risultati nei dati aggregati Istat?

Occorre considerare la composizione del lavoro a termine. Un’ampia quota è costituita da rapporti di lavoro non trasformabili, di fatto o di diritto, e quindi programmaticamente estranei anche al raggio d’intervento del “decreto dignità”. Si tratta di componenti “pesanti”: il lavoro stagionale (la distinzione tra stagionale e non, nel recente passato trascurata perché senza conseguenze rilevanti, ora sta diventando importante: se un rapporto di lavoro è qualificato come tale, è esente da costi e da vincoli; ma la definizione di lavoro stagionale è ancora basata sul decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525); le assunzioni in sostituzione; gli impieghi a termine nel settore pubblico (in particolare istruzione). Grosso modo queste componenti valgono circa il 40-50 per cento dei flussi di rapporti a tempo determinato e non sono affatto in ripiegamento. Anche gli altri flussi sono concentrati nelle medesime attività: ristorazione, ricettività e commercio in primo luogo.

La struttura e la dinamica dei rapporti a termine riflettono pertanto le caratterizzazioni e l’evoluzione della struttura produttiva italiana. Secondo Inps (Rapporto annuale, pagine 28-29) la crescita nel 2018 delle giornate lavorate nei servizi di alloggio e ristorazione è stata ben superiore al dato medio (+4,9 per cento contro + 1,7). Ma se questa è la direzione di sviluppo – con tutto ciò che comporta in termini di stagionalità e di flessibilità – è difficile pensare che si possa comprimere sostanzialmente, per via normativa, la quota di lavoro a termine.

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I dati Istat, dato il loro carattere aggregato, riflettono questa struttura produttiva con i suoi andamenti congiunturali influenzati da vari fattori, tra cui anche – spesso marginalmente – le norme. In questo contesto il “decreto dignità” ha sperato – con intenzioni analoghe a diversi interventi varati nell’ultimo decennio (a partire dalla legge 92/2012) – di riuscire a modificare le macro-evidenze sulla precarietà irrigidendo alcuni vincoli e aumentando alcuni costi. Ma ciò non è stato sufficiente a produrre cambiamenti strutturali consistenti, leggibili nelle statistiche ufficiali: a ciò non bastano legislatori frettolosamente inclini a promesse illusorie o esperti di comunicazione intenti a ritinteggiare il muro della realtà.

*Le valutazioni proposte non impegnano l’amministrazione di appartenenza.

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  1. emilio

    L’articolo più che l’analisi sembra velatamente schierato dalla parte delle imprese che “devono poter usare al meglio i contratti a termine” per ridurre i costi. Orbene chi si intendeva veramente della materia sosteneva, e io sono d’accordo, che al contrario i contratti a termine devono dare un premio al lavoratore per l’incertezza a cui sono sottoposti e quindi devono costare in più alle aziende. Se non partiamo da questa “regola” iniziale che purtroppo per esse pienamente valida necessita di un mercato del lavoro che funziona tutte le conclusioni a cui si arriva sono errate. Il primo obiettivo sarebbe giungere a un mercato del lavoro che funziona e ovviamente bastasse solo un decreto o una legge ci vuole ben altro …..

  2. Claudio

    Il punto sollevato da Anastasia, il peso rilevante della stagionalità, è effettivamente decisivo. Mi chiedo se non sia necessario,a questo punto, rimuovere finalmente l’ottusa resistenza dell’Inps a concedere la NASpI ai part-time verticali per i periodi di loro forzata inattività: si concilierebbe in questo modo la stabilità (relativa9 dell’impiego con benefici reddituali e previdenziali per i lavoratori con l’ottenimento della flessibilità organizzativa da parte delle imprese

  3. Savino

    Non è peregrino dire che andrebbe ridisegnato l’intero statuto dei lavoratori, alla luce delle esigenze del mercato del lavoro contemporaneo e futuro. Siamo totalmente deficitari di una mentalità nuova di approccio, poichè la popolazione effettivamente attiva sul piano occupazionale dà ancora per scontato di avere la vita lavorativa segnata e predestinata, dalle modalità di assunzione (dove le segnalazioni e le cooptazioni prevalgono sulla meritocrazia), agli avanzamenti di carriera (dove prevale il corporativismo sindacale), fino agli escamotage (da ultimo, quota 100) per scavallare le norme ordinarie sulla pensione. Bisogna, invece, considerare l’aleatorietà dei cicli economici e finanziari sull’occupazione; le stesse rivendicazioni devono essere improntate piuttosto sui capisaldi della sicurezza sui luoghi di lavoro, del welfare aziendale, del benessere psico-fisico dei lavoratori.

  4. alessandro

    le imprese debbono essere competitive, e per farlo debbono aumentare la produttività. ma forse dovrebbero capire se il mix col quale combinano la propria manodopera continuativa e quella flessibile sia veramente il più idoneo a consentire guadagni endogeni al sistema. in effetti, il ragionamento dell’Autore porta a discutere di produttività di sistema Italia.

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