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Perché quando brucia l’Amazzonia brucia tutta la Terra

Gli incendi sono un problema complesso: più le temperature si innalzano, più intensi e prolungati sono i roghi, che a loro volta producono altra CO2. Per questo i roghi dell’Amazzonia sono particolarmente gravi. Per fermarli servono azioni precise.

Cambiamenti climatici e territorio

Il più recente Rapporto speciale dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) su Climate Change and Land è stato pubblicato a inizio agosto. Con lo specifico obbiettivo di parlare di cambiamenti del clima, desertificazione, degrado del suolo, gestione sostenibile del territorio e sicurezza alimentare, il rapporto ricorda come il territorio sia tanto una fonte quanto un bacino di assorbimento di gas-serra e come svolga un ruolo chiave nello scambio di energia, acqua e aerosol tra la superficie terrestre e l’atmosfera.

Oltre il 20 per cento delle emissioni di gas-serra di origine umana proviene da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo. Queste emissioni sono prevalentemente dovute alla deforestazione, solo parzialmente compensate da imboschimenti e rimboschimenti e da altri usi del suolo. In particolare, l’agricoltura è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano indotte dall’uomo ed è la principale fonte di protossido di azoto, due gas-serra molto potenti. Allo stesso tempo, la biosfera terrestre assorbe quasi il 30 per cento delle emissioni antropogeniche di CO2 grazie ai processi naturali. Si tratta però di una funzione messa in pericolo dagli effetti dei cambiamenti climatici, a causa dell’aumento della siccità e degli incendi. I cambiamenti di uso del suolo modificano infine le proprietà biofisiche della superficie terrestre (bilancio energia e acqua), che portano a ulteriori variazioni di temperatura e precipitazioni a scala locale.

Paradossalmente, a partire dal mese di agosto, in giro per il mondo sono scoppiati diversi incendi, che hanno assunto proporzioni oltremodo preoccupanti. Intendiamoci, si tratta di un fenomeno che si ripete puntualmente da tempo, per esempio nella parte occidentale degli Stati Uniti. Ma la stagione degli incendi si è allungata di 35-40 giorni, addirittura di 80 in California. E la causa (ma anche l’effetto) sono i cambiamenti del clima che portano con sé ondate di calore prolungate e intense e siccità senza precedenti, dopo un mese di luglio che è stato il più caldo mai registrato da quando è in atto la misurazione strumentale della temperatura del pianeta. Così l’Amazzonia brucia, ma prima di essa la Siberia, l’Alaska, la Groenlandia, le Canarie. In Siberia è andato in fumo l’equivalente del patrimonio forestale italiano; dalle Canarie è stato necessario evacuare 8 mila persone.

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La questione dell’Amazzonia

A parte i danni immediati e in prospettiva, il problema è che gli incendi sono spesso dovuti ad attività umane incontrollate come la deforestazione, l’agricoltura intensiva, gli allevamenti di bestiame su vasta scala che riducono le superfici forestali e boschive e le aree coperte in tutto o in parte da vegetazione, così peggiorando il bilancio climatico complessivo. Tutto ciò vale ancor di più per l’Amazzonia: bruciando non solo riduce la sua capacità di assorbire CO2 e rilasciare ossigeno, ma ne emette di addizionale. Sarebbero già circa 230 milioni le tonnellate finora emesse, secondo alcuni. In altre parole, quanto la produzione annua di un intero stato europeo.

Quello degli incendi è dunque un problema assai complesso: più le temperature si innalzano, più intensi e prolungati sono i roghi, che a loro volta producono CO2 aggiuntiva. Ma, oltre a ciò, se la foresta si ritira troppo diminuisce l’umidità causata dalle piante stesse: sotto una certa soglia di umidità, molte specie vegetali potrebbero deperire o estinguersi, in un ulteriore circolo vizioso. Stessa sorte toccherebbe a molte specie animali, per la distruzione dei loro habitat, così compromettendo un altro bene che va assolutamente salvaguardato, la biodiversità. Per non parlare, poi, della sopravvivenza delle stesse popolazioni indigene.

La contrapposizione insensata tra beni pubblici globali – il clima, la biodiversità, l’esistenza delle popolazioni indigene – e l’idea dell’Amazzonia come un bene privato nazionale si è acuita da quando in Brasile è arrivato al potere il sovranista Jair Bolsonaro. Molti degli incendi dell’Amazzonia non sono dovuti a fulmini, eventi meteorologici o autocombustione. È risaputo che il fuoco è acceso dagli agricoltori e dai proprietari delle grandi aziende zootecniche e dell’agroindustria, dove l’allevamento è responsabile dell’80 per cento della deforestazione. La lobby dei produttori agricoli e zootecnici si è sicuramente sentita protetta – e dunque autorizzata a proseguire nella sua opera di devastazione – dai proclami e dalle politiche contro-ambientali del presidente carioca. Anche all’ultimo G7 di Biarritz, Bolsonaro ha sostanzialmente sostenuto che l’Amazzonia è cosa brasiliana e nessuno può dire al paese cosa farne o come gestirla.

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Come uscirne? Il rapporto Ipcc ci ricorda che il sistema alimentare globale, che include tutte le emissioni generate lungo l’intera filiera, dalla produzione fino al consumo, contribuisce per il 25-30 per cento delle emissioni antropogeniche di gas serra. Dal 1960 il consumo di calorie pro capite è aumentato di circa un terzo, quello di carne è raddoppiato. L’uso di fertilizzanti chimici è cresciuto di nove volte e le aree naturali convertite in agricoltura sono 5,3 milioni di chilometri quadrati, corrispondenti a poco meno della superficie di tutta l’Europa continentale (esclusa la Russia europea) con un consumo idrico per l’irrigazione pari al 70 per cento di quello umano totale di acqua dolce.

Al di là delle puntuali proteste dei giovani di Fridays for Future, una possibile risposta può essere quella di indurre, con mezzi efficaci, Bolsonaro a cambiare registro. Per esempio, si potrebbe bloccare l’approvazione del nuovo accordo commerciale tra Ue e Mercosur, un accordo che ha richiesto dieci anni di negoziati e che dovrebbe ulteriormente aprire i nostri mercati alla carne e ai prodotti agricoli dei partner sudamericani. E infatti, la Francia e l’Irlanda hanno prontamente minacciato di porre il veto alla sua approvazione. In ogni caso, l’accordo va radicalmente rivisto in maniera da vincolare più strettamente alla sostenibilità ambientale le produzioni sudamericane.

Ciò non sarà tuttavia sufficiente: i paesi occidentali devono fornire più fondi per la conservazione delle foreste, un tema cruciale e delicato di tutti i negoziati internazionali sul clima, Accordo di Parigi compreso. E in fondo alla storia dobbiamo tutti cambiare le nostre abitudini alimentari, riducendo i consumi di carne, così che a beneficiarne non sia solo la nostra salute, ma anche l’ambiente in cui viviamo.

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  1. franco principi

    E in Africa tutto a posto? O avete dimenticato anche voi questo grande continente e le persone che lo popolano?

    • Matteo

      Non sono un chimico, ma credo di poter facilmente confutare alcune delle sue affermazioni. Quando si dice che le emissioni di gas-serra sono dovute alla deforestazione, si parla della mancata capacita’ di assorbimento della CO2 da parte delle piante che vengono tagliate e delle maggiori emissioni derivanti dalla loro combustione e dalla riconversione dei terreni ad attivita’ d’allevamento. Non ci si riferisce solo al ‘trattore che spiana una foresta’ … Le foreste inoltre sono un importante ‘carbon sink’ perche’ finche’ gli alberi crescono assorbono piu’ CO2 di quella che rilasciano, compensando (in parte) le emissioni di origine antropica. Una volta in decomposizione, gli alberi riemettono in atmosfera la CO2 catturata in precedenza, ma non e’ detto che cio’ avvenga. Ad esempio, il carbone che estraiamo e bruciamo racchiude tutto il carbonio catturato da antiche foreste che si e’ accumulato in milioni di anni nel sottosuolo.

      • Michele

        Ripeto quanto detto, le piante assorbono CO2 in una fase della fotosintesi per poi ridarla nella fase successiva. Il bilancio è zero, ovvero ne assorbono la stessa quantità che ne producono. Ergo le piante non fanno calare la CO2 presente in atmosfera e quindi è inutile accanirsi ne dire che le foreste “mangiano” i gas serra (di cui comunque la CO2 è una parte minoritaria).

  2. Michele

    Ho letto l’articolo con interesse, forse il background degli autori non aiuta a leggere alcune frasi, come ad esempio “Oltre il 20 per cento delle emissioni di gas-serra di origine (…) sono prevalentemente dovute alla deforestazione”. I gas serra (Vapore acqueo, anidride carbonica, protossido di azoto, metano ed esafluoruro di zolfo) non vengono “prodotti” dalla deforestazione, se fosse così sarei curioso di capire come un trattore che spiana una foresta possa produrre tali sostanze! Il principale gas serra è infatti il vapore acqueo, il secondo è l’anidride carbonica. Il vapore acqueo aumenta in base alla temperatura, la CO2 è prodotta dalla combustione di combustibili fossili. Per ridurli bisogna ridurre l’uso di tali combustibili il cui maggiore impiego non è l’industria ma il trasporto (benzina e gasolio). Dire poi che le foreste sono importanti perché assorbono CO2 è una fesseria, il bilancio stechiometrico della fotosintesi (sulla CO2) è zero, ovvero la CO2 che produco in una fase la consumo nella successiva. Le foreste non vanno conservate per ridurre i gas serra ma per garantire biodiversità, stabilità del suolo, equilibrio nei cicli bio-geo-chimici. La parte relativa all’uso di colture per l’allevamento di bovini, è invece corretta, ma dubito che si abbiano delle leve in tal senso.

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