Lavoce.info

Cuneo fiscale e salario minimo, da dove iniziare

Da anni la Francia persegue una politica di abbassamento dei contributi sociali versati dai datori di lavoro per i lavoratori a bassi salari, per compensare l’alto livello di salario minimo. Può essere d’esempio per le scelte del nostro nuovo governo.

Due temi comuni a M5s e Pd

Uno dei temi su cui i nuovi partner di governo troveranno più facilmente un’intesa è quello del salario minimo. Nei due rami del Parlamento sono in discussione proposte di legge di Movimento 5 stelle e Pd che, pur con alcune differenze, in larga parte si sovrappongono. I sindacati restano contrari a qualunque intervento che vada al di là dell’estensione dei contratti esistenti, ma hanno un dialogo aperto da tempo con il neo-ministro del Lavoro Nunzia Catalfo. I datori di lavoro restano scettici, temendo un significativo aumento dei costi e chiedono di accompagnare l’introduzione di un minimo legale (o dell’estensione erga omnes) con una riduzione del cuneo fiscale (altro tema che, a parole, trova favorevoli tutti i partiti).

Per tagliare il cuneo, il problema principale resta quello di trovare i fondi. Una volta trovate le risorse, come si potrebbe procedere? Il caso francese di riduzione mirata dei contributi sociali a carico del datore di lavoro per lavoratori a bassi salari offre spunti di riflessione utili anche per il nostro paese.

L’esempio della Francia

Dal 1993 in poi, governi francesi di vari colori hanno perseguito una sistematica politica di abbassamento dei contributi sociali versati dai datori di lavoro per i lavoratori a bassi salari per compensare un livello di salario minimo tra i più elevati tra i paesi Ocse, ritenuto una delle cause dell’alta disoccupazione in Francia. All’inizio, la decontribuzione si limitava ai salari di un montante uguale o inferiore a 1,3 volte quello minimo; è stata poi via via estesa, con un profilo degressivo, fino ad arrivare a salari 3,5 volte più alti del salario minimo (figura 1). Dal gennaio 2019, sostanzialmente, non si pagano più contributi sociali al livello del salario minimo.

Leggi anche:  Carriere nella pubblica amministrazione: tanta anzianità, poco merito*

Figura 1 – Decontribuzioni in Francia dagli anni Novanta a oggi

Fonte: Yannick L’Horty, Philippe Martin e Thierry Mayer (2019), Baisses de charges: stop ou encore ?, Les notes du conseil d’analyse économique, n° 49

Queste misure permettono alla Francia di avere un salario minimo netto (in proporzione al mediano) tra i più elevati tra i paesi Ocse, ma un costo del lavoro (al salario minimo) significativamente inferiore alla media (figura 2). Ovviamente, dato che “nessun pasto è gratis”, le misure di decontribuzione comportano un costo notevole per le casse dello stato in termini di mancate entrate (stimate intorno ai 60 miliardi l’anno).

Figura 2 – Salario minimo lordo, netto e costo del lavoro al salario minimo (in % rispetto al salario minimo lordo, netto e costo del lavoro mediano)

Fonte: Oecd Database on Minimum Wages e Oecd Tax-Benefit Models. Il mediano include solo i lavoratori dipendenti a tempo pieno e occupati per l’intero anno.

Si tratta, quindi, di una misura unica per dimensione tra i paesi Ocse e molto costosa. È un modello da replicare (a patto di trovare i soldi)? La risposta, secondo il Consiglio di analisi economica del primo ministro francese, è solo in parte positiva.

Come disegnare la misura

L’obiettivo dichiarato delle misure è favorire l’occupazione e la competitività delle imprese. Un taglio concentrato sui bassi salari, infatti, dovrebbe permettere di avere un effetto sull’occupazione più importante perché, a risorse date, permette una riduzione del costo del lavoro in proporzione più alta e concentrata su un gruppo di lavoratori con un’elasticità dell’occupazione al costo del lavoro più elevata (principalmente perché meno qualificati). I dispositivi francesi, tuttavia, si sono pian piano estesi fino a coprire anche lavoratori pagati molto di più del salario minimo. Se da un lato questo ha permesso di evitare incentivi perversi ad assumere solo lavoratori a bassi salari, dall’altro riduzioni così generose si sono trasformate in trasferimenti alle imprese (o ai lavoratori con più alto potere negoziale) senza effetti visibili sull’occupazione. Secondo diversi studi (si veda la nota del Consiglio di analisi economica per un riassunto), la riduzione di contributi sociali ha avuto effetti positivi sull’occupazione e, in certe condizioni, ha contribuito ad aumentare la competitività delle imprese esportatrici. Tuttavia, per i salari superiori a 1,6 volte il salario minimo, tali effetti non sono visibili e quindi, secondo i consiglieri del primo ministro, la decontribuzione per i salari più elevati andrebbe ridotta, se non cancellata.

Leggi anche:  Perché l'impiego pubblico piace meno di un tempo

Il caso francese ha, quindi, un paio di insegnamenti utili anche per l’Italia. Concentrare la riduzione degli oneri contributivi sui bassi salari può essere un modo efficace per limitare i possibili effetti negativi di un aumento del costo del lavoro. Tuttavia, è necessario evitare che una decontribuzione mirata generi incentivi perversi a impiegare solo lavoratori a bassi salari (o a non aumentare i salari per non perdere i contributi). In ogni caso, è necessario accompagnare ogni misura di decontribuzione con una valutazione seria (per quanto complessa), per capire come disegnarla nel modo migliore rispetto agli obiettivi desiderati.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Perché ai disoccupati non interessa la formazione

Precedente

Perché il nuovo governo si rimangerà i decreti sicurezza*

Successivo

Il Punto

  1. Savino

    L’equilibrio economico e normativo da trovare è tra 1) l’esigenza di abbassare il costo contributivo del lavoro sul datore, per rendere più conveniente assumere e farlo in pianta stabile; 2) l’esigenza di veder riflesso l’abbassamento del costo contributivo del lavoro sul lavoratore, in modo da incrementare salario e potere d’acquisto per i consumi (l’operazione 80 euro sfiorò questa problematica, ma il “tesoretto” ricavabile può arrivare fino a 500-600 euro per salari di medio-bassa entità); 3) la dignità del salario stesso, che non può scendere al di sotto di certi paletti; 4) la necessità di dare maggiore importanza alla contrattazione di secondo livello, disintermediando l’eccessivo peso sindacale nel primo livello. Non è peregrino pensare ad una vera estraneità fiscale dello Stato nei rapporti di lavoro, con una bilateralità dell’aspetto contributivo e clausole di garanzia giuridica pubblica. Ovviamente, per fare tutto ciò deve essere notevole il cambio di mentalità del datore, del sindacato e dello Stato.

  2. Nicolò boggian

    Il lavoro sta cambiando con modalità e tempistiche nuove. Mi concentrerei di più su come favorire forme di lavoro che includano giovani, donne , anziani , diversamente abili piuttosto che infilare tutti a martellate nel lavoro a tempo indeterminato. Ci sono iniziative e studi in tal senso ?

  3. Vittorio

    Purtroppo di tratta di diminuire i contributi sociali; ovvero condannare i lavoratori più poveri a un presente da lavoratori poveri e un futuro da pensionati poveri ssimi.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén