Un rapporto Istat conferma ancora una volta il rallentamento della crescita della produttività in Italia. Nessuno però sembra preoccuparsene. Forse perché affrontare la questione significherebbe rimettere in discussione abitudini e rendite di posizione.
Silenzio sul rapporto Istat
La scorsa settimana, l’Istat ha pubblicato un rapporto sulle misure di produttività tra il 1995 e il 2018. I numeri non hanno stupito chi conosce un po’ l’economia italiana. Nel 2018 la produttività del lavoro – calcolata come valore aggiunto per ora lavorata – è diminuita dello 0,3 per cento. La produttività del capitale – misurata come rapporto tra valore aggiunto e input di capitale – è aumentata dello 0,1 per cento. La produttività totale dei fattori – componente che misura il progresso tecnico e i miglioramenti nella conoscenza e nell’efficienza dei processi produttivi – è scesa dello 0,2 per cento. E questo non è che l’ultimo anno. Tra il 1995 e il 2018, la crescita media annua della produttività del lavoro in Italia è stata dello 0,4 per cento, quella del capitale è crollata dello 0,7, la produttività totale dei fattori a zero. Numeri unici in Europa.
Figura 1 – Produttività del lavoro nei principali paesi europei (tassi di variazione medii annui)
Fonte: dati Istat
Il rallentamento della crescita della produttività è un fenomeno che tocca molti altri paesi e le cause non sono del tutto chiare. Secondo alcuni, siamo di fronte a un rallentamento vero e proprio, una “stagnazione secolare” dovuta a innovazione inferiore in quantità e qualità rispetto a quella di 50 o anche solo 30 anni fa in una situazione di invecchiamento della popolazione e minor domanda di investimenti. Secondo altri, invece, è solo un problema di misura. Oppure solo questione di tempo, prima che le nuove tecnologie tipo l’intelligenza artificiale dispieghino tutto il proprio potenziale. I migliori economisti al mondo stanno cercando la risposta. E i politici di altri paesi se ne preoccupano perché minore produttività significa salari che non crescono ed economia che stagna.
In Italia, invece, dove la “stagnazione secolare” è arrivata quasi due decenni in anticipo, il tema sembra non appassionare molte persone. Il giorno dopo la pubblicazione dei dati Istat, invece di trovare titoloni sui giornali – come spesso avviene per dati mensili o trimestrali su occupazione o Pil, che a volte non superano la significatività statistica – silenzio generale. Nessun articolo sui quotidiani e zero dibattito pubblico. Solo due giorni dopo, in seguito a un po’ di rumore su Twitter, il Corriere della Sera e il Foglio vi hanno dedicato due brevi articoli.
Perché anche un comitato può essere utile
La stampa è ovviamente del tutto libera di scegliere temi e spazi, ma il disinteresse con cui i dati Istat sono stati accolti è indicativo della gravità del problema.
Innanzitutto, segnala che i numeri dell’Istat per quanto drammatici non fanno notizia. L’Italia ha fatto l’abitudine a essere un paese che non cresce e che non sa più innovare e “produrre bene”. Ogni presidente del Consiglio o ministro sente il bisogno, a pochi mesi dal proprio insediamento, di dichiararsi ottimista e positivo sulle prospettive economiche del paese. Con questi tassi di crescita della produttività non c’è ragione di essere ottimisti. Bisognerebbe ricordarlo ogni volta che si sentono promesse di “anni bellissimi”.
In secondo luogo, il tema della produttività stenta a essere compreso fino in fondo. La parola stessa resta largamente confinata al gergo degli economisti (in azienda si parla piuttosto di efficienza o performance) e la misura a livello micro rimane spesso sfuggente. Maggior pedagogia e divulgazione sul tema sono necessarie da parte degli studiosi. Se Alessandro Barbero ha fatto diventare pop lezioni di storia di oltre un’ora, magari ci sono margini di miglioramento anche per gli economisti.
Se è vero che “a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”, è anche vero che rilanciare la produttività richiederebbe a tantissimi, nel pubblico e nel privato, tra i lavoratori dipendenti e tra i datori di lavoro di mettere profondamente in discussione le proprie abitudini e rendite di posizione. E forse nessuno ha davvero voglia di sollevare una questione in cui politica, amministrazioni locali, imprenditoria, rappresentanza dei lavoratori, giustizia, scuola e settore della formazione sono coinvolti.
Che si può fare? Le ricette per il caso italiano sono state analizzate e discusse ampiamente, anche su lavoce.info, ma non si risolveranno con un decreto, forse nemmeno con il lavoro di una legislatura. I fattori che spiegano la produttività al palo vanno dall’inefficienza del settore pubblico, anche a livello locale, a risorse male allocate, investimenti in tecnologia scarsi, pratiche manageriali desuete, fino alla scarsa meritocrazia o a una contrattazione aziendale ancora poco sviluppata.
Nel 2015 la Ue ha raccomandato a tutti i paesi dell’area euro di mettere in piedi un Comitato nazionale per la produttività. L’Italia non lo ha ancora fatto. Non sarà ovviamente un comitato a rilanciarla. Anzi, ci sono buone ragioni di credere che finirebbe per essere l’ennesimo organo tecnico a cui non segue nessuna azione a livello politico (come nel caso dei vari commissari alla spending review). Però nel silenzio tombale attuale, potrebbe almeno aiutare a dare un po’ di visibilità al tema. Potrebbe spingere le amministrazioni a parlarsi. Potrebbe fornire le basi sostanziali a un “imprenditore politico” che vorrà farne un pilastro della propria agenda.
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Savino
Qui si pretende solo la “crescita”, ma essa non può avvenire per pura coincidenza. La crescita va programmata, presuppone che non ci siano asini nelle scuole (banchi e cattedre), raccomandati negli uffici, spregiudicati nell’intrapresa e sprovveduti neofiti al potere politico. Gli italiani pensano (davvero) che il benessere corrisponda con un colpo di fortuna e pensano (davvero) che il resto del mondo sia fallace nel crearne i presupposti. E sono tutti spaventati se ci commissariano come la Grecia? Ma magari, così le future generazioni si ritrovano fatte riforme importanti. Gli italiani sono così antistorici che, oltre al duce, gli piace solo l’assistenzialismo dc, pensano di nazionalizzare e mettere sul gobbone della spesa pubblica tutto. Io faccio una sola domanda: quand’è che ci daremo una regolata?
Lorenzo
Risposta: la generazione del baby boom non andrà in pensione o avrà una pensione miserrima (nei sistemi a ripartizione chi lavora paga la pensione a chi si ritira e nei prossimi anni saranno sempre meno gli occupati …)
Emilio Siletti
Sono un anziano imprenditore in pensione. Ci sono tantissimi motivi sociali, economici, politici di questo stallo persistente di produttività, ne indico solo uno che mi sembra importante: abbiamo perso, chi più chi meno, uno spirito di auto stima, di fiducia reciproca e di sana competizione gli uni verso gli altri e come società il senso di responsabilità per il bene comune. Un tempo non era così: ho avuto la fortuna di vivere da ragazzo il miracolo economico italiano post bellico e vi assicuro che per molti, sicuramente non per tutti, era un bel vivere. Ma ora chi ci indica più qualche obbiettivo di maggior benessere economico, di maggior giustizia e concordia sociale da raggiungere? Tutte parole, parole, nessuna serietà, ognuno per proprio conto. Modo sicuro per galleggiare come paese se va bene, per andare a sbattere per primi in caso di crisi internazionale.
Michele
Il problema sono gli investimenti privati che latitano da almeno 10 anni. Inoltre la produttività cala perché è molto più facile comprimere gli stipendi e aumentare la precarietà per aumentare i profitti piuttosto che innovare per aumentare la produttività. Il risultato è il declino del paese tra gli applausi dei partiti di tutti i colori politici da 30 anni a questa parte.
z f k
«Se Alessandro Barbero ha fatto diventare pop lezioni di storia di oltre un’ora, magari ci sono margini di miglioramento anche per gli economisti.»
Sì e no.
C’è di sicuro margine di miglioramento, ma la Storia è narrazione, mentre l’Economia è calcolo.
E noi viviamo di narrazioni, non di calcoli.
CYA
Piero Borla
Trovo che questo tema -il disinteresse verso l’andamento della produttività- ha attinenza con quello studiato da Luca Rigolfi nell’ultimo libro “La società signorile di massa” : in Italia c’è un 40% di occupati e il 52% di non occupati, e va bene così.
serlio
ieri il tittolare di una piccola impresa mi ha detto che non può assumere il 15 dipendente per non incappare nelle forche caudine dello statuto dei lavoratori pensato per la grande impresa e che invece impedisce la crescita dell’occupazione e delle aziende. il sindacalismo eccessivo è uno dei fattori della mancata crescita del paese
ps: si tratta comunque di una storia nota da tempo
Enrico D'Elia
Quel rapporto è stato ignorato non per la sua forma “noiosa”, ma piuttosto per il suo contenuto imbarazzante. Ci ricorda che la crisi italiana viene da lontano (da molto prima delle regole europee). Ci dice che il declino non è colpa di poteri forti, lobby sovranazionali, comblotti, corruzione, scie chimiche, ecc. ma piuttosto della inadeguatezza e pigrizia di imprenditori, banchieri, classe politica…e corrispondenti elettori. Fino a quando sarà più facile ottenere rendite che guadagnare (faticosamente) profitti non ci sono troppe speranze per questo paese. Quindi tutti preferiscono sproloquiare di immigrazione, tasse ed Europa piuttosto che discutere dei dati di fatto.