Gli Stati Uniti hanno deciso di imporre nuove sanzioni all’Iran, che si sommano a quelle già introdotte nel 2018. Teheran è riuscita a resistere ai provvedimenti del passato, ma non è scontato che possa farlo ancora a lungo.
Turbolenze geopolitiche
Il 2020 non è cominciato nel migliore dei modi sullo scenario internazionale: alle manifestazioni della minoranza sciita filo-iraniana a Bagdad, che hanno portato alla chiusura dell’ambasciata americana, gli Stati Uniti hanno risposto con una rapido quanto inaspettato attacco aereo, uccidendo il generale iraniano Qassem Suleimani, considerato in patria un eroe della rivoluzione. Il governo iraniano ha organizzato una rappresaglia in pochi giorni, bombardando una base americana in Iraq, senza causare feriti.
La risposta degli Stati Uniti non si è fatta attendere: l’amministrazione Trump ha scelto di evitare una nuova operazione militare, preferendo colpire l’economia iraniana, già pesantemente provata dalle sanzioni applicate in precedenza.
Le rinnovate tensioni tra i due governi risalgono al 2018, quando gli Stati Uniti si ritirarono dall’accordo multilaterale per la non proliferazione nucleare. Le nuove misure sono state annunciate dal segretario del Tesoro Steven Mnuchin e comprendono alcuni settori strategici per Teheran, come il manifatturiero, le costruzioni e l’industria mineraria.
Perché all’Europa non piacciono le sanzioni di Washington
Gli Stati Uniti, che non dipendono significativamente dai combustibili fossili iraniani, non subiscono un danno rilevante nel limitare le proprie relazioni economiche con Teheran. Ma per l’Europa, contraria all’applicazione delle sanzioni del 2018, la situazione è diversa. Già con le misure del 2012, la Ue aveva ridotto drasticamente le proprie importazioni dall’Iran, perdendo così un’importante fonte di approvvigionamento di petrolio. I rapporti commerciali erano poi tornati a crescere a partire dal 2016, anno successivo all’accordo sul nucleare iraniano. Ora, nonostante non siano disponibili dati per il 2019, torneranno probabilmente a calare ancora.
Prima dell’intensificazione delle sanzioni a partire dal 2012, l’Unione Europea era il primo partner commerciale dell’Iran, mentre oggi si trova al terzo posto, dietro a Cina ed Emirati Arabi Uniti. Il paese mediorientale è invece il 37esimo partner commerciale dell’Unione. Lo scambio di prodotti è rappresentato soprattutto da esportazioni verso l’Europa di petrolio e gas e l’importazione di macchinari.
Le risorse naturali permettono all’Iran di sopravvivere
L’Iran si sostiene principalmente sull’estrazione e la vendita di materie prime: nel 2017, il 72 per cento delle esportazioni era composto da petrolio grezzo, un dato che sale al 75 per cento se si considerano anche il petrolio raffinato e il gas naturale. Proprio quest’ultimo rappresenta un’altra importante risorsa: il paese possiede circa il 17 per cento (secondo al mondo) delle riserve globali di gas naturale, un combustibile che andrà probabilmente a ricoprire un ruolo sempre più importante nell’approvvigionamento energetico globale e nella transizione dai fossili a nuove fonti di energia più sostenibili. I dati dimostrano come le esportazioni di petrolio siano calate in corrispondenza delle prime sanzioni (2012), per poi crescere nel 2015 e scendere nuovamente dal 2018. Il commercio di gas naturale è invece rimasto stabile o in crescita, con solo una leggera flessione nel 2013.
Un’economia poco matura
L’applicazione di sanzioni economiche sembra perseguire l’obiettivo del presidente Donald Trump, contraendo in maniera consistente la crescita del paese e rendendo più instabile il regime. I dati dimostrano la forte correlazione tra le sanzioni e l’andamento economico, con il Pil iraniano cresciuto a ritmi più sostenuti tra il 2015 e il 2018, quando l’accordo sul nucleare era in vigore, rispetto al periodo tra il 2012 (intensificazione delle sanzioni) e il 2015. Una nuova fase recessiva è seguita al ritiro degli Stati Uniti dall’accordo: la crescita iraniana è stata negativa nel 2018 e nel 2019 ed è prevista in stagnazione nel 2020.
Una dinamica simile, in un lasso temporale leggermente diverso, ha riguardato anche il tasso d’inflazione, che è quasi quadruplicato in tre anni, per poi ristabilizzarsi dal 2013. Il dato è però tornato a crescere nel 2018, confermando la correlazione tra le sanzioni e l’andamento dell’economia. La disoccupazione, invece, non ha finora mostrato un legame con la presenza di sanzioni: il tasso è costantemente intorno al 10 per cento, quindi abbastanza alto, con leggeri cali e riprese. Anzi, il tasso di disoccupazione raggiunge il suo minimo proprio nel 2013. L’ultima rilevazione disponibile, però, sembra indicare che anche il mercato del lavoro comincia a soffrire delle decisioni americane: tra il 2017 e il 2018 il tasso di disoccupazione è salito dal 12,1 al 14,5 per cento, il dato più alto del decennio. Il problema del lavoro è, in questo momento, un fardello pesante per il paese: in alcune regioni il tasso di disoccupazione supera il 60 per cento e quello giovanile è quasi al 30 per cento. Ciò potrebbe derivare da gravi squilibri del mercato del lavoro, che non è ancora maturo (per esempio, il 42 per cento dei disoccupati possiede una laurea).
In conclusione, il regime iraniano si trova ad affrontare una sfida molto impegnativa per la propria sopravvivenza: dieci anni di misure punitive che hanno limitato il commercio gravano in maniera sostanziale sull’economia e il rafforzamento del sentimento anti-americano all’interno del paese potrebbe non bastare per compensare i problemi economici che deriveranno dalle nuove sanzioni.
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