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Fondi alle università: contiamo anche i fuori corso

In Italia la spesa per l’educazione terziaria è più bassa del 30 per cento rispetto alla media Ocse. In più il criterio dei costi standard per l’assegnazione delle risorse agli atenei rischia di aumentare gli squilibri. Da qui la necessità di correttivi

Spesa storica e costi standard

Che in Italia vi sia un problema nei meccanismi di finanziamento pubblico al sistema universitario non è certo una novità. Stando a dati Ocse del 2019, la spesa per l’educazione terziaria nel nostro paese è inferiore del 30 per cento rispetto alla media Ocse. Risorse scarse che vengono distribuite secondo due criteri: quello della spesa storica e quello del costo standard. Cosa sono e in cosa differiscono?

Prima della legge 42/2009, il riparto dei fondi dello stato era basato solo sulla spesa storica. Il metodo attribuiva ai singoli enti la stessa quantità di fondi rispetto alla spesa dell’anno precedente, incentivando quelli poco efficienti a perpetuare sprechi senza che lo stato ne accertasse i bisogni effettivi e la capacità fiscale.

Il criterio del costo standard prevede invece che, per ogni servizio, lo stato calcoli quanto il livello essenziale della prestazione debba costare per avvenire nelle migliori condizioni di efficienza. Si limitano così gli sprechi di risorse, garantendo un maggiore controllo sui fondi distribuiti, senza penalizzare i servizi offerti.

Il metodo della spesa storica ha distribuito le risorse del Fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo) a partire dal 1993, mentre dal 2014 è il criterio del costo standard per studente a determinarne la ripartizione. E il passaggio dal primo al secondo criterio non è indolore in un settore delicato come quello universitario.

Oggi il Fondo di finanziamento ordinario è diviso in quota base, quota premiale e quota per interventi specifici. Il decreto ministeriale 585/18 stabilisce la percentuale di risorse della quota base da assegnare attraverso il nuovo criterio per il biennio 2019-2020: il 24 per cento per il primo anno e il 26 per cento per il secondo, al netto di investimenti vincolati.

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L’ingranaggio è partito, ma va perfezionato

Perché il passaggio tra i due criteri risolva in parte le criticità attuali sono necessarie due condizioni.

In primo luogo, va ripensato il criterio del costo standard al di fuori di un’ottica puramente riallocativa. Il costo standard viene infatti utilizzato solo per assegnare in maniera diversa un ammontare predeterminato, senza intervenire sulla spesa complessiva. Come ha di recente ricordato in un’intervista il rettore dell’università di Bergamo, il finanziamento a risorse invariate accentua gli squilibri sistemici che caratterizzano il settore universitario. I divari sono aggravati dalla questione – trasversale – del sottofinanziamento all’istruzione terziaria. Il “miliardo” mancante, che ha portato alle dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti, è ritenuto il minimo necessario per riportare i fondi a università e ricerca a livelli pre-2008.

In secondo luogo, è necessario introdurre meccanismi correttivi ai criteri di ripartizione. Altrimenti, il rischio è che le componenti delle disuguaglianze tra atenei finiscano per allargare esponenzialmente i divari.

Le fratture da arginare sono causate da fattori esterni – come differenze di ricchezza e produttività del territorio – e da caratteristiche degli atenei – come dimensioni, autonomia o rapporto studenti/docenti. Interventi risolutivi per molti di questi aspetti esulano da un semplice ripensamento del criterio di assegnazione delle risorse, richiedendo sinergie più complesse.

Ma tra le questioni su cui è possibile intervenire attraverso meccanismi correttivi, ad esempio, vi è quella dei fuoricorso. Inizialmente, il calcolo del costo standard per studente teneva conto solamente di quelli in corso, ignorando i costi di circa il 50 per cento degli studenti italiani con lo status di fuoricorso. Solo con il decreto 585/18 il ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca ha inserito nel calcolo del costo standard gli iscritti al primo anno fuori corso. Tuttavia, nel 2018 gli studenti che si sono laureati nei tempi previsti erano il 53,6 per cento, mentre quelli che hanno concluso con quattro o più anni di ritardo erano ancora l’8,7 per cento. Lavorare mentre si seguono gli studi è uno dei fattori che determina il ritardo. I lavoratori-studenti, infatti, impiegano il 50,1 per cento del tempo in più a laurearsi rispetto ai non lavoratori. Includere i fuoricorso di due o più anni rispecchierebbe meglio i reali costi sostenuti dagli atenei, permettendo loro di offrire un servizio efficiente al numero effettivo di studenti che lo richiedono. La misura, benché si limiti a correggere solo una delle problematiche del criterio del costo standard, agirebbe su una criticità che riguarda buona parte degli atenei e della popolazione studentesca, aiutando in modo particolare le realtà universitarie situate in contesti economici più svantaggiati, dove è più alto il numero di studenti lavoratori.

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In sintesi, la ricerca di una maggiore efficienza in fase redistributiva deve avvenire senza perpetuare le disuguaglianze esistenti. L’utilizzo del criterio del costo standard è uno dei tanti passi avanti che sono stati fatti, ma rimane la necessità di perfezionarne alcuni meccanismi di funzionamento.

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  1. Felice

    Grazie del vostro contributo, mi permetto di far notare che nella mail di pubblicizzazione settimanale spedita all’indirizzario della mailing list di LaVoce, il vostro lavoro viene presentato cosi’ “Le differenze immeritate tra università pubbliche italiane rischiano di rimanere anche con il passaggio dai costi storici ai costi standard nel metodo di distribuzione delle risorse attraverso il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). Meglio sarebbe un sistema che premi gli atenei virtuosi.” Non riesco a capire il nesso tra l’ultima frase e il vostro contributo.

  2. Al

    Quasi tutti gli atenei hanno già previsto la misura del regime part-time per gli studenti lavoratori, che apparentemente sembrerebbe mantenere lo studente in corso più a lungo oltre a garantire riduzioni di rette in misura eterogenea a secondo dell’ateneo. In alcuni atenei, però, la possibilità di transitare a tale regime è estesa anche agli studenti non-lavoratori, e in tal caso a mio avviso il regime part time inizia un po’ a perdere di senso nei casi in cui la scelta degli anni supplementari è una e irrevocabile (rinunce agli studi o cambi di ordinamento a parte) e al tempo stesso lo sforamento dai tempi legali è causato non esclusivamente da difficoltà personali che sottraggono più o meno un preciso ammontare di tempo allo studio, bensì da difficoltà di natura più aleatoria come quelle didattiche (come non ricordare gli eventuali esami scoglio). Insomma, la penalizzazione degli atenei con più studenti fuoricorso è un concetto sbagliato all’origine.

  3. Paolo

    Il vostro articolo non evidenzia che in realtà la quota fuori corso è una risorsa per le Università. I loro costi sono identici a quelli di un quasiasi altro studente regolare ma le tasse che devono pagare (quasi sempre le famiglie) sono ben superiori. Se io fossi il Direttore Amministrativo sarei ben contento di avere sempre una buona percentuale di fuori corso

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