È difficile indicare stime su quali saranno gli effetti del Covid-19 sull’economia mondiale. Si possono però ipotizzare alcuni scenari sulla base di studi effettuati dopo le ultime epidemie. Ricordando però che oggi l’interdipendenza è maggiore.

Com’è andata in passato

La pandemia da Covid-19 avrà un impatto economico enorme, probabilmente maggiore rispetto alle epidemie dell’ultimo secolo (per un elenco si veda qui), in quanto oggi l’economia mondiale è molto più grande (di circa 2,5 volte rispetto al 2000) e molto più interconnessa.

Per il momento è difficile produrre stime, ma alcuni scenari si possono trarre dalla moderna ricerca economica sull’impatto di quegli shock. È iniziata dopo l’epidemia Sars nel 2002-2003 (si veda per esempio lo studio del 2006 di Lars Jonung e Werner Roeger sull’Europa, che però non considera gli effetti dell’interruzione delle catene di fornitura) e si è fatta più intensa soprattutto dopo il 2009, quando la pandemia da H1N1 (la cosiddetta influenza suina) diventò un caso di studio per stimare l’impatto di uno shock globale di origine pandemica sulle economie del XXI secolo.

Se prima del 2009 il World Economic Forum stimava in circa 250 miliardi di dollari il costo economico complessivo di un’eventuale pandemia (a cui era associata una probabilità tra il 5 e il 10 per cento), da quell’anno le conseguenze economiche di un tale fenomeno sono state studiate in modo più approfondito. Un recente studio di Victoria Fan e colleghi (2018) stima fino a 500 miliardi di dollari all’anno (cioè lo 0,6 per cento del reddito mondiale) il valore totale delle perdite di una pandemia influenzale estesa, includendo non solo i costi diretti dovuti all’aumentata mortalità e all’interruzione dell’operatività di molti settori, ma anche il mancato reddito dovuto alla successiva riduzione della dimensione delle forze di lavoro e della produttività, oltre che al calo della domanda per le restrizioni alla mobilità delle persone. Si tratta di un impatto molto maggiore rispetto a quello della Sars, che ha colpito economicamente soprattutto la Cina e Hong Kong (rispettivamente -3 e -4,75 per cento del Pil nel secondo trimestre dopo l’epidemia), con effetti minori solo in Canada e a Singapore, e in ogni caso limitati a un solo trimestre (Marcus Keogh-Brown e Richard Smith 2008).

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Un recente studio congiunto della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale della sanità ha stimato invece un effetto economico molto più elevato di un’eventuale shock di origine pandemica: tra il 2,2 e il 4,8 per cento del Pil.

Oggi queste stime sono solo il punto di partenza, perché ancora non è chiaro quanto sarà esteso il contagio, quando finiranno le misure restrittive sulla mobilità delle persone, quale sarà il tasso di mortalità e quanto lunga e diffusa la portata dell’interruzione dell’attività produttiva.

La dipendenza dalle importazioni

Dagli studi passati è chiaro che l’impatto aggregato sia tanto maggiore quanto più estesi sono i canali di “contagio economico”, che derivano dall’aumentata mortalità e dal blocco dell’attività economica e che vanno ben oltre i trasporti, l’agricoltura e il turismo per arrivare alla produzione manifatturiera con un elevato grado di dipendenza dalle importazioni. Proprio questo criterio serve a capire, almeno a grandi linee, quali potranno essere nel breve periodo gli effetti economici del Covid-19. La Cina oggi è un importante fornitore di beni intermedi in molti settori: le sue esportazioni utilizzate da altri paesi come input per il loro export sono salite dal 24 per cento del totale nel 2003 al 32 per cento nel 2018, secondo i dati della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad). Ma Pechino è anche un importante fornitore per tutta la produzione, compresa quella destinata ai mercati interni dei paesi importatori. Secondo Fortune, il 94 per cento delle prime 1000 imprese statunitensi subiscono in questo momento interruzioni nelle forniture. Tra i settori più dipendenti dalle forniture cinesi, e quindi più vulnerabili, ci sono le telecomunicazioni, il mobile e arredamento, gli impianti di riscaldamento, i macchinari elettrici, le componenti metalliche. In questi ambiti la Cina rifornisce parti e componenti per un valore che va dal 22,8 al 39,7 per cento del totale mondiale. E il valore aumenta se includiamo anche i beni intermedi che la Cina esporta attraverso Hong Kong.

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L’interruzione delle forniture anche per poche settimane ha bloccato a sua volta la produzione di molti settori per un tempo ben più lungo. Inoltre, le catene di fornitura sono spesso organizzate in cluster, con buona pace per la diversificazione dei rischi legati alla catena del valore: sempre nel caso delle imprese incluse in Fortune 1000, ben 938 hanno i loro fornitori di secondo livello nelle aree “rosse” in Cina. Tutto ciò si innesta in una situazione nella quale l’autonomia (o il magazzino) di molte imprese è ridotta: per esempio, oggi Chrysler ha in magazzino parti per meno di 50 milioni di dollari, mentre negli anni Ottanta il valore era di 440 milioni.

Come se non bastasse, la Cina produce molti beni nei quali sono presenti parti importate dall’estero, da molti dei paesi che oggi si ritrovano a dover chiudere una parte delle fabbriche perché a loro volta in emergenza sanitaria. Quindi anche se e quando la Cina ripartirà a pieno ritmo, le catene non potranno essere ripristinate appieno, e quando lo saranno, molte imprese avranno iniziato a riorganizzare le proprie filiere affidandosi ad altri produttori, come in parte sta già avvenendo. Sono effetti indiretti che non sono inclusi in nessuno dei modelli usati finora per stimare l’impatto globale di una pandemia di questo tipo.

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